mercoledì 23 luglio 2025

DUE E QUARANTADUE DEL MATTINO

“Tra sogno e realtà” era il titolo scelto per la mostra sull'arte figurativa con cui Rubén aveva esordito molti anni prima e che tra qualche giorno sarebbe stata inaugurata in Brasile, a San Paolo. Lo scopo dell'evento era condurre il visitatore ad una riflessione sull'arte del periodo giovanile dell'artista iberico, su quei momenti sospesi fra ciò che immaginiamo e ciò che esiste davvero. Pittore spagnolo nato e cresciuto a Toledo, viveva nella sua mansarda-studio che chiamava “tana creativa”, dove tele mezze finite, pennelli sporchi e barattoli di colore costellavano ogni superficie.

La sveglia sarebbe dovuta suonare alle 5:30, in modo da prendere il primo volo per San Paolo, ma Rubén aprì gli occhi alle 2:42, senza rumore, senza un perché. La lampada nel suo spazio di lavoro sparpagliava chiaroscuri sul cavalletto, illuminando una tela incompiuta. Il cuore gli batteva piano, ma con insistenza.

Si alzò, accese la lampada sul comodino e prese il libro che stava leggendo pigramente da mesi senza riuscire mai procedere spedito: Notti bianche di Dostoevskij. Cercava di ancorarsi a qualcosa, forse alla parola scritta, forse a una spiegazione. Dopo poche pagine, la vista gli si fece pesante, il corpo abbandonato sulla poltrona accanto al letto. Non si accorse del momento esatto in cui la coscienza cedette.

Il sogno era ambientato al mattino dopo il risveglio, un’aria tiepida e stranamente fragrante invadeva il piccolo giardino dietro casa. Rubén scese i pochi gradini che lo separavano dal cortile, e lì, in piedi accanto al fico, c’era suo fratello Joaquín. Indossava l’uniforme verde della Guardia Civil. Rubén rimase immobile, sorpreso:
«Ma… Joaquín… che ci fai vestito così? Tu sei stato in Marina, ricordi? Ufficiale di coperta!»

Il fratello lo guardò, sorrise, ma non rispose. Si limitò a posargli una mano sulla spalla, un gesto calmo, profondo e poi si voltò, allontanandosi lentamente tra le piante, dissolvendosi come nebbia al sole.

Rubén rientrò in casa, col cuore che ora batteva più forte. Sentì rumore di stoviglie in cucina. In fondo al corridoio, vicino alla credenza, una figura minuta, familiare: una donna anziana, con lo scialle di lana blu che usava per cucinare.
La luce era calda, quasi liquida.
«Mamá…?»
Lei si voltò. Era lei. Il viso segnato dal tempo, ma vivo, vivo davvero. Lo guardò e sorrise, con quella tenerezza assoluta che solo le madri conoscono.
«Rubén, hijo… sei dimagrito; hai fatto un lavoro splendido con la casa… guarda quel tavolo, lo avevi promesso che l’avresti sistemato.»

Lui si avvicinò tremando, e lei gli aprì le braccia. L’abbraccio fu totale, carnale, definitivo. Sentì l’odore della sua pelle, la lana grezza del maglione contro la guancia, le mani ossute che gli accarezzavano i capelli come da bambino.
E pianse. Senza vergogna, senza misura.

Lei lo strinse a lungo. Poi si voltò, entrò in cucina e iniziò a preparare qualcosa con i gesti che erano quelli di sempre: l’olio d’oliva, il rumore dell’acqua, il coltello sul tagliere.
Rubén la guardava, stordito, sospeso in quella perfezione dolce e impossibile; non riusciva a capire: era sogno o realtà?

Un trillo acuto lo strappò invece al sogno.

Gli occhi bruciavano, la gola era secca. Si massaggiò le guance, ancora umide: forse aveva pianto davvero. La lampada era accesa, il libro aperto sul tavolino, i pennelli immobili accanto a una tela bagnata.

Sapeva che non poteva più perdere tempo. Si alzò, fece una doccia veloce, sistemò le ultime cose in valigia. Raccattò il portatile con appunti e immagini, chiuse la “tana creativa” e chiamò un taxi.

Durante tutto il volo verso il Brasile, verso San Paolo, tra il brusio dei motori e la plasticosa colazione sul vassoio, Rubén rimase indietro nel tempo, non riusciva a pensare ad altro se non all’abbraccio con la madre, alla divisa insolita del fratello, alla dolcezza e all'incredibile percezione di sensazoni corporee che avevano pervaso quel vivido sogno notturno; ma anche quel senso d'incredulità, di stupore, il tutto condito dall'inquietudine di lui che voleva uscire dalla casa, mentre le immagini e i volti lo trattenevamo all'interno.

Tentò di darne un’interpretazione, come se quel sogno fosse un quadro da decifrare: il giardino forse rappresentava il luogo originario, l’infanzia, la radice emotiva di ogni sua immagine. Joaquín in divisa — non quella da marinaio, ma da Guardia Civil — poteva essere la parte di lui che aveva scelto la disciplina, il dovere, un’armatura contro la fragilità. O forse era una colpa antica, un rancore familiare mai davvero elaborato, oppure la sgradevole situazione di sentirsi innocente ma comunque sotto inchiesta? O ancora un desiderio di protezione? 

E sua madre… era il cuore del sogno. Non un ricordo, non un’assenza, ma un archetipo: la Madre con la M maiuscola, simbolo del grembo originario, della protezione, della totalità; in quell’abbraccio c’era qualcosa che andava oltre la biografia, oltre la memoria: un ritorno all’essenziale, all’unità primordiale da cui ogni vita — e forse anche ogni opera — prende forma.

Rubén pensò a Jung, alla sua idea che i sogni non siano scarti o fantasmi del passato come invece pretendeva Freud, ma messaggi del Sé, immagini che guidano l’anima nel suo cammino verso l’interezza. Forse quel sogno non chiedeva di essere capito, ma di essere ascoltato, di essere custodito, come si custodisce un regalo oppure una tela che ancora non si è pronti a dipingere.

E allora sì, “Tra sogno e realtà” non era solo il titolo della sua mostra: era una soglia, un luogo di passaggio dove l’inconscio si fa immagine, e l’immagine, a volte, diventa verità.

Forse era una sorta di sottile linea su cui giocava ogni suo dipinto, ogni colore, ogni sfumatura della memoria.

E chissà, forse anche la vita stessa.

Ma Rubén non era né uno psicanalista né un filosofo: era un pittore e in fondo, lo sapeva: tutto ciò che non riusciva a spiegare, lo aveva sempre provato a dipingere.


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