venerdì 31 marzo 2017

SENSO E COUNSELING


Nel nostro tempo, in cui l’Uomo moderno si trova immerso in un ambiente sempre più permeato dalla Tecnica e deve affrontare ritmi esistenziali dettati non solo (o non più?) dai cicli della Natura ma delle necessità funzionali dei processi artificiali creati dall’innovazione tecnologica, la ricerca del Senso (GALIMBERTI – 2005) pare essere diventata un’esigenza difficilmente eludibile se si ha a cuore la prevenzione dei disturbi psichici e più in generale la salute dell’individuo, ovvero i settori d’intervento propri del counseling. 
Infatti, se i processi nel mondo delle Tecnica seguono invariabilmente la logica binaria e il nesso di causalità perfetto (0-1, Vero-Falso, per una Causa sempre lo stesso Effetto), il mondo dell’Umano è invece il regno delle sfumature, delle diverse tonalità dei grigi, delle molteplici possibilità di risposta ad uno stesso stimolo, ove lo stesso agente patogeno provoca effetti patologici diversi in soggetti diversi.  
A mente di questo, il dialogo tra i due mondi non appare affatto semplice e se la psicoanalisi nei momenti più alti si è limitata a curare le sofferenze dell’anima provocate dalle condizioni del mondo, ottenendo come risultato una presa di distanza individuale dal vuoto di senso, la filosofia (e quindi a ruota e in prospettiva il Counseling) non ha mai esitato a mettere in questione il mondo che oggi si identifica con la tecnica e in cui sono da reperire le radici dell’insensatezza. Dall’insensatezza non si esce con la “cura”, perché il disagio non origina nell’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione. E se il problema è la comprensione, gli strumenti filosofici sono gli unici idonei per orientarsi in un mondo in cui il senso, per l’uomo, si sta facendo sempre più recondito e nascosto. (GALIMBERTI- 2005, in Dizionario del Counseling filosofico e delle pratiche filosofiche – op.cit. p. 405- 406). Sempre secondo Galimberti se manca il perché, non si sopporta il come e se il reperimento del senso favorisce l’esistenza e per la conduzione umana rappresenta un vantaggio biologico, là dove esso non si trova bisogna “inventarlo” … infatti chi invece, nonostante i riconoscimenti distribuiti dall’apparato tecnico, continua a denunciare l’assoluta mancanza di senso di un’esistenza costretta ad esprimersi in un semplice universo di mezzi, viene invitato da più parti a curare la sua demotivazione e così quello che è un segno di lucidità, una chiara percezione di un tratto tipico del tempo della tecnica, viene rubricato come un sintomo patologico, come una malattia da cui occorre guarire con cure della parola (religione, psicoanalisi) o attraverso i farmaci (ansiolitici, antidepressivi) il cui risultato non è quello di combattere l’insensatezza dell’esistenza ma il sintomo che ha avvertito lucidamente l’insensatezza dell’esistenza. Chi è refrattario alla cura o non accetta l’alienazione che nell’età della tecnica non è causata dai rapporti di proprietà ma dallo sviluppo a-finalistico dell’apparato tecnico, sceglie la strada dell’evasione sociale in quei paradisi di felicità che le droghe (sostanze naturali e prodotti culturali) permettono, se non altro come interruzione dell’esperienza di mancanza di senso e sospensione del dolore di esistere. Infatti, prima che campo di gioco di pulsioni impersonali, l’uomo, come l’abbiamo storicamente conosciuto è apertura al senso e la sua Libertà prima che nella piena esplicazione delle pulsioni, si esercita nell’ampiezza di tale apertura. 
Il Counseling, nella ricerca del senso, va quindi inteso come l’attività tesa ad aiutare il Cliente a combattere l’insensatezza dell’esistenza e non il sentimento di insensatezza  dell’esistenza stessa, partendo dal presupposto che solo combattendo l’assunto ideale dell’insensatezza dell’esistenza si otterrà il risultato di rimuovere, o perlomeno attenuare, il sentimento di vuoto derivante da tale insensatezza. 

LA RENDITA PRESUNTA

C’è chi dice che gli eventi destinati a lasciare traccia nella nostra vita sono solitamente gravidi di segni premonitori e che il loro arrivo è annunciato da significative anomalie nell’ambiente che ci circonda.
Nella mia vita il  “Messaggero degli Dei” è sempre stato il caldo umido ed il momento in cui ha scelto di fare i suoi annunci è la sera.
Chi non ricorda in Friuli l’opprimente cappa di caldo umido che appesantiva l’aria la sera del 6 maggio 1976 e i segni di nervosismo manifestato dagli animali da stalla o da cortile nei minuti precedenti lo scatenarsi del sisma?  E che dire della mattina del 21 agosto 1968, quando dopo una notte insonne per l’incredibile umidità e l’alta temperatura, mi ritrovai a vagare nelle vie di Praga invasa da centinaia di tank sovietici spuntati all’improvviso per soffocare il “socialismo dal volto umano”?
Non parliamo poi del 12 agosto 1961 a Berlino: altra notte insonne tormentata dalla calura e dai rumori che giungevano dalla strada di fronte, per poi constatare sporgendomi dalla finestra la mattina del 13, madido di sudore, che la strada era divisa da un alto reticolato sorto all’improvviso durante la notte, ad opera dei soldati della DDR.
Avevo compiuto da poco 10 anni la sera dell’8 settembre del 1943, quando poco dopo le 19,30, la voce tremula del  Maresciallo Badoglio annunciò alla Radio l’armistizio con gli anglo-americani, rompendo il silenzio e la noia di una giornata interamente trascorsa in casa a cercare riparo dall’opprimente calura.
Ero completamente stravolto, con la camicia incollata come una seconda pelle per l’eccessiva sudorazione, il tardo pomeriggio del 24 agosto 1954 nell’atrio della stazione centrale di Trieste nell’attimo in cui i miei occhi incrociarono per la prima e decisiva volta quelli di una bellissima ragazza inglese in divisa del Royal Army… solamente il mattino seguente, dopo una notte ancora più calda dell’afa in una camera di un piccolo albergo situato sulle rive, scoprii che il suo nome era Helen, che lavorava nell’Amministrazione del Governo Militare Alleato e che si trovava in stazione per tornare a casa, in Cornovaglia, visto che era prossima la fine dell’amministrazione alleata ed il ritorno della città all’Italia.
Era “naturalmente” sera e faceva ancora un caldo bestiale il tardo pomeriggio del 08 agosto 1992 quando, rientrato a casa dopo una gita alle grotte di Postumia fatta con un vecchio amico alla ricerca di un po’ di refrigerio, trovai sul tavolo del soggiorno le due lettere che avrebbero sconvolto per sempre la mia ormai prossima vecchiaia, scatenando una serie di eventi al cui confronto, quelli già sopra descritti, furono poca cosa rispetto agli effetti che procurano negli anni a venire quelle due missive sul mio microcosmo.
La prima lettera era composta da un unico foglio bianco all’interno di una busta bianca non affrancata che semplicemente era indirizzata “A Bepi”, mentre la seconda era una raccomandata con ricevuta di ritorno, la busta ben sigillata era di un verde scuro minaccioso e riportava per esteso il mio nome, cognome e indirizzo e soprattutto il mittente: Ufficio Tecnico Erariale di Udine.   
La prima che decisi di leggere fu quella che ai miei occhi sembrava la più minacciosa, ovvero quella contenuta nella busta verde scuro; il contenuto era di poche righe, e recitava più o meno così: “Con la presente si notifica che saranno introdotte al Catasto le mutazioni di cui al frontespizio. Si rende noto che avverso a quanto indicato, gli interessati potranno ricorrere presso le Commissioni Tributarie di Primo Grado, nelle forme previste dagli art. 6 e 7 del DPR 3/11/81 n. 739, entro 60 giorni dalla sottoscrizione della presente notifica. Il Funzionario Delegato.”
Dall’esame del “frontespizio”  non ci capii molto, riuscì solo a realizzare che si trattava di qualcosa avente a che fare con il vecchio rudere che, contro il parere di amici e familiari tutti, avevo deciso di acquistare nelle vicinanze dello Judrio, a poche centinaia di metri dal confine italo-jugoslavo, visto che veniva citata, assieme a cifre, sigle e numeri vari, una costruzione  in Comune di Prepotto nonché la sua via ed il numero civico.
Avevo acquistato quel rudere nella primavera del 1990 con la “folle” idea di festeggiare la recente caduta del muro di Berlino, vaticinando che non sarebbero passati molti anni ancora prima che quella catapecchia, una volta ristrutturata, si sarebbe venuta a trovare in una zona di grande interesse turistico ed eno-gastronomico e non più in un luogo dimenticato, situato alla fine del “mondo libero” e con l’effetto di vedere il suo valore commerciale almeno quadruplicato: un buon investimento, insomma.
Mia moglie l’aveva avversato in ogni modo, diceva che ero uno scrittore amabilmente pazzo e che di investimenti immobiliari e di economia non ci avevo mai capito nulla e quindi dovevo lasciar fare valutazioni di quel genere a “quelli del mestiere”. - “Lascia perdere, non è roba per te” -  mi ripeteva continuamente, con un ossessione pari solo alla mia ostinazione ad andare avanti nell’idea, che ormai non capivo più se era dovuta dalla convinzione nella bontà delle mie argomentazioni oppure per semplice puntiglio, per l’orgoglio di dimostrare che, all’occorrenza, non ero solo uno “scrittore amabilmente pazzo”.
Ero e sono sempre stato un testardo a cui piaceva remare contro la corrente, per cui avevo proceduto all’acquisto del rudere e pure ben felice di farlo contro il “mondo” intero.
Ripiegai la lettera, la riposi nella busta verde scuro e me la infilai nel taschino della giacca. – “Roba per il commercialista” – pensai, senza neppure cercare di interpretare il significato di quanto avevo letto – “faccio prima ad interpretare la simbologia dei gereoglifici del Libro egizio dei Morti” – e mi ripromisi di chiamare il professionista nei giorni seguenti.
Era quindi giunto il momento di aprire l’altra busta, quella bianca, di estrarre il foglio e di leggere:

Caro e amato Bepi
se la vostra compagnia di bandiera per una volta rispetterà il timetable, quando leggerai queste righe io sarò già in Cornovaglia; scusami se non ho avuto il coraggio di anticiparti questa decisione prima di agire, spero davvero tu un giorno possa, se non comprendermi, almeno  perdonarmi.
Ho deciso di vivere gli anni che mi separano dalla dipartita da questo mondo , in solitudine, nella terra e nei luoghi che mi hanno visto fare la comparsa e muovere i primi passi; mi è divenuta insopportabile l’idea che tu mi veda invecchiare e di vederti invecchiare, di assistere al lento, inesorabile, progressivo spegnersi delle nostre vite.
Voglio mantenere intatto il vissuto del nostro stupendo amore, da quel giorno in cui i nostri occhi si incrociarono alla stazione di Trieste durante quegli anni tempestosi sino ad oggi, sino a questi anni forse troppo quieti.
Voglio che mi ricordi così e non più oltre, il giorno che anche tu lascerai questo mondo.
I nostri figli da tempo oramai conducono le loro vite senza il bisogno di due prossimi vecchietti da  visitare, o peggio da dover accudire, in adempimento ad un penoso “dovere” morale: non sopporto l’idea di rappresentare per nessuno, neanche per un minuto, una sorta di santuario da visitare durante le feste comandate ed in ogni caso non voglio lasciare loro questa eredità.
Fino a ieri avevo l’energia di quell’imprenditore, che pur affannato da mille problemi e con tanti debiti da pagare, lotta come un leone per il raggiungimento dei suoi  obiettivi e la realizzazione dei suoi progetti; oggi mi sento come quel capitalista che deve solo controllare l’incasso delle sue rendite presunte: è finita l’energia e mancano gli stimoli.
So che detesti l’economia e non arrabbiarti per l’uso di questa metafora.
Da quando ci siamo conosciuti ho imparato da te ad  amare persino l’Italia, così diversa dalla mia Inghilterra, ad ammirare le sue diversità, a provare simpatia per le sue genti che vivono ogni giorno come una grande recita in un  grande teatro a cielo aperto e a sorprendermi ogni giorno nell’assistere allo schizofrenico cambiamento di quei canovacci che spaziano dalla farsa alla tragedia senza soluzione di continuità e spesso, consapevolezza.
Forse sono anche stanca delle vostre recite, che tanto mi hanno affascinato in passato, e desidero un ritorno ai silenzi, al verde e al rumore del mare che s’infrange sulle alte scogliere della mia Cornovaglia: ero giunta a Trieste nel 1950, 42 anni fa, per contribuire all’Amministrazione Alleata della tua città e per impedire che “passaste” sotto Tito, come avevate tutti grande timore e permettere che la vostra democrazia, ai primi vagiti, potesse crescere e consolidarsi.
Ho compiuto la missione, che dici Bepi? E’ tempo che io rientri in Patria, non ti pare?
Sono certa, per come ho imparato a conoscerti, ad amarti e a capire il tuo grande amore per la libertà ed il rispetto delle scelte individuali altrui, che se anche non condividerai questa mia decisione, la rispetterai, così come accoglierai questa mia ultima richiesta, ovvero di non cercarmi oltre,  perché sai che ti porterò per sempre nel mio cuore.

Ti amo

Helen
   
P.s.: prima di partire ho accettato una raccomandata per te, spero di non aver sbagliato!     
Uscii sul terrazzo con quel foglio tra le mani e mi lasciai cadere su una delle poltrone da cui ero solito, ogni sera, perdere il mio sguardo all’orizzonte del golfo di Trieste cercando di veder annegare insieme al disco infuocato del sole, anche tutti i cattivi pensieri del giorno.
“Prima roba per il commercialista… e adesso? Per chi? Per lo psicologo?” – fu la prima cosa che mi venne in mente, prima di iniziare a leggere e rileggere centinaia di volte la lettera di Helen, ben oltre l’inabissarsi del sole in fondo all’Adriatico. Leggevo, rileggevo e vedevo scorrere le immagini di tutta una vita, delle avventure di due “imprenditori” che pieni di debiti, ma ricchi di energia e progetti avevano superato anni “bui e tempestosi”  e che ora messa in sicurezza l’impresa in acque riparate, uno dei due aveva deciso unilateralmente e senz’appello che la rendita di quel capitale accumulato non era più di suo interesse.
Una cosa su tutte però mi faceva imbestialire: Helen aveva ragione.
Mi conosceva talmente bene da sapere che avrei rispettato la sua decisione, che non l’avrei cercata e che neppure avrei tentato di farle cambiare idea, sebbene invecchiare insieme per me non era un’idea insopportabile, ma costituiva il progetto ultimo della mia vita e non mi consideravo affatto come un capitalista teso alla percezione delle rendite derivanti dal patrimonio accumulato, bensì pensavo alla vecchiaia come ad un periodo di nuove emozioni, avendo la possibilità di concludere la mia parabola vivendo in pace tempi nuovi ed impensabili nella mia città, Trieste, dopo essere stato costretto a girare il mondo e l’Italia come giornalista della RAI.
Rispettai, come avevo sempre fatto, anche quell’ultimo colpo di testa di Helen: del resto mi ero innamorato di lei proprio per quella sua totale incapacità al compromesso e alla mediazione, di quel suo agire immediato e deciso, senza ripensamenti e senza curarsi delle conseguenze, quando era convinta di una propria idea e di un proprio sentimento.
Io invece, totalmente incapace a qualsiasi “colpo di testa”, sempre pronto a mediare, sempre teso a capire il punto di vista degli altri, specialista ad ingoiare anche i rospi più grandi pur di evitare “spargimenti di sangue”,  in lei avevo trovato tutto ciò che non ero e che forse avrei voluto essere.
Non era stato forse un micidiale “colpo di testa” decidere a 20 anni di rimanere a Trieste, un luogo tormentato che all’epoca non si sapeva bene neppure di chi fosse e alle dipendenze di chi fosse destinato, per amore di un coetaneo di cui a malapena capiva la lingua, squattrinato e ricco solo di progetti per un futuro incerto, invece di rientrare a casa sua, in Inghilterra, nazione vincitrice dell’ultima guerra mondiale? La decisione di lasciarsi alle spalle la sua vita ed i suoi affetti sulla soglia dei 60 anni per  ritornare in Cornovaglia, rientrava perfettamente nella sua logica.  
Accettai quella scelta fino in fondo: ancora oggi, in questo grigio inverno 2008, non so se la mia Helen ascolta i silenzi della sua Cornovaglia oppure quello del Regno dei Cieli: per me la cosa coincise da quella sera dell’8 agosto 1992.
Non molto tempo fa il più piccolo dei miei nipoti, mi ha chiesto se, quando morirò, anch’io andrò in Cornovaglia: gli ho risposto di si, perché non vedo l’ora di fare un dispetto alla nonna e scoprire com’è invecchiata.
Oggi, pensandoci, però la cosa più rimprovero ad Helen nelle mie solitarie notti insonni, oltre a non avermi permesso di vederla invecchiare, è quella di aver accettato per me quella raccomandata.       
Se c’era un autore che avevo sempre “detestato” quello era Franz Kafka: non sopportavo quel clima di oppressione senza rimedio, di tragica impotenza di fronte ad un mondo in perenne cospirazione contro la propria vita ed i propri sentimenti che riempiono i suoi romanzi e tutti quegl’invincibili ed impalpabili nemici senza luogo e senza volto che tormentano i protagonisti  dei suoi scritti.
Mai avrei pensato di diventare un novello prigioniero di incubi evocati dallo scrittore ebreo, di lingua tedesca, nato e vissuto a Praga.
Qualche tempo dopo la partenza di  Helen, la “signora delle pulizie” che i miei figli avevano preteso  assoldassi come aiuto alle faccende domestiche ben sapendo che non ero mai stato capace di sostituire neanche una lampadina, mi porse una busta verde scuro sgualcita dall’acqua, dicendomi di averla rinvenuta a seguito del lavaggio delle mie giacche.
Non feci fatica a riconoscerla, si trattava della raccomandata dell’Ufficio Tecnico Erariale accettata da Helen per conto mio il giorno della sua partenza, e che visto quanto era accaduto avevo completamente rimosso dalla memoria.
Il giorno seguente mi recai dal commercialista per far interpretare l’oscuro significato di quella comunicazione; il consulente fiscale, dopo averla esaminata con attenzione e con l’aria preoccupata del medico di famiglia che scorge negli esami clinici del paziente i sintomi di una grave malattia, ma che non vuole assumersi l’ingrato compito di comunicarlo al suo assistito, mi disse con un sorriso che tradiva la sua preoccupazione: - “Caro Bepi, questa è roba per geometri” – “Devi farla vedere a quel tipo che ti ha assistito quando hai comprato il rudere di Prepotto. E’ inutile che io faccia delle supposizioni.. eppoi sai, quando ci sono di mezzo i geometri…”.  
Dopo aver constatato che il commercialista era restio a darmi qualsiasi ulteriore informazione,  quella stessa mattinata raggiunsi lo studio del geometra che aveva curato la compravendita di due anni prima. “Caro Bepi! Ma perché vieni qui solo adesso?Perché non mi hai portato subito questa notifica?Pensa che  i termini per fare ricorso sono scaduti ieri!!” – Termini per il ricorso? Perché non sei venuto prima? Ma che diavolo stava dicendo il mio amico geometra? Mia moglie mi aveva abbandonato su due piedi, avevo si  o no il diritto di pensare ad altro rispetto alle raccomandate oscure ed ermetiche degli Uffici Fiscali? Eppoi, per quale motivo dovevo far ricorso, io che sono abituato a digerire rospi giganteschi senza fiatare? E contro chi dovevo ricorrere? Chiesi delle spiegazioni. Il geometra, cercando anche lui di occultare la sua preoccupazione, cercò di illuminare l’oscurità. “Caro Bepi, quando tu hai acquistato quel rudere, l’immobile era iscritto in Catasto privo di rendita”  E allora? Non sarà stata mica colpa mia o no? Lui mi aveva assicurato che era tutto in regola, persino il Notaio annuiva, quella buon’anima che si era ben che fatto pagare per il rogito! E cos’era questa “rendita”? “Come ti spiegammo io e il Notaio all’epoca del rogito, l’Ufficio del Registro pretende il pagamento dell’imposta di registro sul valore di mercato dell’immobile e siccome il valore di mercato non è importo misurabile esattamente, la legge consente di non subire accertamenti di valore a coloro che versano l’imposta calcolata su di un valore pari almeno alla risultante della rendita catastale moltiplicata per 100. In parole povere anche se tu paghi 200 per l’acquisto ma la tua rendita catastale moltiplicata per 100 dà come risultato 150, paghi l’imposta di registro su 150 e per gli Uffici va tutto bene.”  Con molta fatica iniziavo a capirci qualcosa… “Ora, nel nostro caso, essendo il “rudere” all’epoca della compravendita privo di rendita, la legge acconsentiva di pagare l’imposta di registro su di un valore calcolato con una rendita che noi ritenevamo presunta, in attesa di conguagliare l’eventuale differenza, una volta che l’Ufficio Tecnico Erariale determinava la rendita definitiva. Per essere più chiari, e in parole povere, visto che di rudere si trattava, gli abbiamo attribuito una rendita molto bassa pari a 200.000 Lire, in modo da pagare l’imposta di registro su di un valore di 20.000.000, versando 3.200.000 Lire…”  Le cose incominciavano a farsi sempre più chiare, le parole oscure di quell’avviso ricevuto iniziavano a farsi sempre più sinistre… “Insomma, caro Bepi, andando nello specifico, quella comunicazione che hai ricevuto ti dice che l’Ufficio ha attribuito la rendita definitiva…”  Il geometra non aveva molta voglia di proseguire… “Mi par di capire che non si tratta di  un evento felice…”  Replicai fissando il vuoto.. “In sé è un evento atteso… il problema è che l’Ufficio ha valutato il rudere poco rudere assegnandogli  una rendita di 1.900.000 Lire… “
Odiavo la ragioneria, ma sapevo fare i calcoli rapidamente “Fammi capire… se la rendita è 1.900.000 il valore su cui calcolare l’imposta di registro è diventato 190.000.000, per cui l’imposta da versare sarà 15.200.000??” – “Ad essere precisi, ci saranno da aggiungere le maggiori tasse di trascrizione, la maggiore imposta catastale e gli interessi dalla data del rogito a quando arriverà l’avviso di pagamento…puoi tranquillamente aggiungere altri 6-7 milioni…”
Scoppiai come una bomba atomica – “E’ un sopruso! E’ una follia! Quei quattro sassi messi in croce non varranno 190.000.000 neanche se trasformati in un Albergo a 5 stelle!!! Vicino al confine! Una zona depressa, disabitata, che confina con un’enorme  distributore di benzina!!! Non ha senso, non è possibile.. questa non è legge… è una vergogna… Ci sarà qualche rimedio, o no???”  Ero diventato paonazzo, avevo persino iniziato a picchiare i pugni sulla scrivania del geometra…
Il professionista, senza proferire parola,  lasciò che la tempesta si esaurisse e poi pacatamente mi di disse. “E’ evidente che l’Ufficio ha fatto una valutazione errata e certo che il rimedio c’è, o meglio c’era… se non si concorda con la valutazione fatta dall’Ufficio, come c’era scritto sulla notifica, c’erano 60 giorni di tempo per fare ricorso contro l’operato del Catasto e bloccare il procedimento… il guaio è che i 60 giorni sono scaduti ieri… ” concluse sconsolato il geometra. “Il tuo ha tanto il suono di un de profundis…Ma non c’è nessuna ulteriore possibilità per rimediare?” – chiesi al geometra, con l’aria di chi ha compreso di aver contratto una grave malattia… “Una possibilità teorica esiste: fare ricorso contro l’avviso di pagamento delle maggiori imposte, quando ti verrà notificato fra qualche mese. Però a questo punto è roba per commercialisti azzeccagarbugli! E non far passare altri 60 giorni quando arriverà la notifica, altrimenti ti rimarrà solo la corruzione di pubblici funzionari per farla franca…”. Così terminò il geometra, assumendo l’atteggiamento del medico specialista, che per dare qualche speranza al paziente spacciato, evoca l’esistenza di cure miracolose ad opera di non ben precisati luminari della medicina.
Nella tarda primavera del 1993, come aveva predetto il geometra, mi venne notificato l’avviso di liquidazione delle maggiori somme dovute e come anticipato dal tecnico, mi si chiedeva il pagamento entro 60 giorni di una somma pari a 23.500.000 Lire, ovvero più di quanto avevo pagato all’epoca al venditore del rudere.
Come consigliato, corsi immediatamente dal commercialista chiedendogli di fare qualcosa al più presto, con l’atteggiamento disperato e poco dignitoso di un malato terminale.
Caro Bepi, esiste qualche  possibilità… ci sono delle sentenze che negano all’ufficio fiscale la possibilità di chiedere in pagamento, in casi come il tuo,  somme senza procedere prima ad un vero e proprio accertamento di valore,  svincolato dal parametro della rendita già attribuita… Ma non posso negarti che ce ne sono altrettante che invece lo consentono… insomma, Bepi, cerca di capirmi, è come fare testa o croce…”  Accolsi le parole del commercialista come l’arrivo di una nuova speranza e gli dissi comunque di agire, di non perdere tempo, che sicuramente ce l’avremmo fatta, perché era palese che pagare quella somma era un’ingiustizia colossale – “Basterà produrre in giudizio le foto del rudere” – aggiunsi trionfante – “No Bepi, sarà perfettamente inutile mostrare le fotografie: quelle ti avrebbero fatto vincere senza dubbio il ricorso contro l’attribuzione della rendita se lo facevi in tempo… adesso è pura questione di diritto… insomma azzeccare il cavillo e trovare la Commissione tributaria in giornata favorevole, la giustizia non ha nulla a che vedere con il tuo caso ora. Adesso è il tempo di avere tanta  pazienza e di incrociare le dita.” -  Smorzò subito il mio entusiasmo il consulente, che predispose e depositò il ricorso nei giorni successivi, ricevendo 2.000.000 di Lire per la sua opera.
Nel novembre del 1994 ricevetti una telefonata dalla segretaria del commercialista, la quale mi invitava a passare in studio per comunicazioni urgenti che mi riguardavano; non persi tempo, dopo un’ora mi trovavo innanzi al consulente pensando, naturalmente, che si trattasse di qualche notizia sul ricorso.
“Caro Bepi, ci sono novità. Il Governo ha emanato una sanatoria per le liti pendenti tra fisco e contribuenti: pagando il 10% delle pretese erariali entro il 15 dicembre prossimo, si estinguono gli accertamenti… In altre parole, se versi oggi 2.500.000, più 250.000 per il mio onorario c’è la possibilità di chiudere la questione del rudere.”
Non me lo feci dire un’altra volta, staccai subito un assegno al professionista e lo incaricai di procedere ad un tanto; quella sera di novembre pagai la cena al ristorante ai miei figli ed alle loro famiglie: mi sentivo un miracolato, un malato grave guarito completamente. Durante la serata però venni assalito da un dubbio: faceva troppo freddo, non poteva essere una giornata “epocale” e per di più la notizia non era arrivata di sera, ma al mattino, nello studio del commercialista.
Al diavolo, pensai, sono tutte superstizioni!
Faceva invece molto caldo nell’estate del 1996, quando arrivò un’altra cartolina verde scuro, minacciosa, contenente un ermetico messaggio dal seguente tenore: Ai sensi della Circolare del Ministero delle Finanze n. 197/E dd. 30/11/1994, punto 1.7, si comunica che l’istanza per “chiusura lite fiscale” prodotta dal nominato in oggetto ai sensi dell’art. 2 quinquies Legge n. 656/94 non può esplicare alcuna efficacia poiché la relativa vertenza non è inquadrabile fra quelle pendenti ed espressamente indicate nel citato art. 2 quinquies, comma 4, trattandosi di questione di diritto e non di maggior imponibile accertato. L’istanza è pertanto ininfluente ai fini della controversia e le somme versate sono trattenute in acconto sui maggiori importi dovuti. Si avverte che contro il presente atto amministrativo potrà essere presentato ricorso entro 60 giorni dalla notifica presso la Commissione Tributaria Provinciale competente per territorio.”
Nel corso degli anni avevo perso la capacità di interpretare le simbologie del Libro egizio dei Morti e migliorato notevolmente la comprensione del terribile linguaggio degli Uffici fiscali, per cui fu come se il mondo mi crollasse addosso di nuovo: ero tornato debitore di quell’enormità, essendo comunque il mio versamento ormai completamente eroso dagli interessi che continuavano a maturare a favore dello Stato. Naturalmente mi recai subito dal commercialista, il quale, per altre 750.000 Lire fece ricorso contro il “diniego della chiusura della lite”.
Aveva ragione Helen, siamo proprio un popolo di buffoni: il governo aveva fatto una legge per diminuire i contenziosi pendenti e i burocrati, grazie a quella legge evidentemente mal fatta, ne avevano persino moltiplicato il numero e gli effetti.
La Commissione Tributaria Provinciale di Trieste respinse il ricorso nella primavera del 1997 condannandomi anche al pagamento delle spese di procedimento per 500.000 Lire; il commercialista, convinto della bontà delle sue argomentazioni mi convinse ad insistere ancora e, dietro un compenso di 2.500.000 Lire proporre ricorso alla Commissione Regionale di Trieste.
Era diventata la mia guerra personale allo Stato italiano o forse, una sciocca battaglia contro le profezie di Helen – “Lascia stare, non è roba per te” - quando nel 1990 avevo deciso di acquistare il rudere.
Il ricorso fu discusso nel novembre del 2000 e all’alba del terzo millennio nel gennaio del 2001, il commercialista mi comunicò che il nostro ricorso era stato accolto con la condanna dell’Ufficio a rifondermi anche le spese di giudizio che avevo sino ad allora dovuto sostenere.
Oramai però avevo capito l’antifona: era gennaio, faceva freddo e quindi non era ancora giunto il momento delle svolte epocali, la mia battaglia era ben lungi dall’essere conclusa; infatti, come mi aveva in qualche modo profetizzato il commercialista, l’Ufficio del registro, divenuto nel frattempo Agenzia delle Entrate, per mezzo dell’Avvocatura Generale dello Stato, nel febbraio del 2002, qualche giorno prima che scadessero i termini per proporre ricorso, si costituì niente meno che alla Suprema Corte di Cassazione in Roma per far annullare la sentenza a me favorevole di Trieste.
Ulteriore cosa spiacevole, il commercialista mi disse che nell’ipotesi in cui io intendessi continuare la mia battaglia, lui non era abilitato al patrocinio presso la Corte di Cassazione e quindi avrei dovuto incaricare necessariamente un avvocato cassazionista, con un costo tra i ed i 5 e 7 mila euro, per resistere alle pretese dell’Avvocatura.
Nel frattempo, tra la sorpresa generale di tutti, consulenti e funzionari dell’Agenzia delle Entrate che seguivano la pratica, la Commissione Provinciale di Trieste fissava un’udienza al  settembre 2004 per discutere sul primo ricorso, quello contro l’avviso di pagamento originario di 23.500.000 Lire, ora euro 12.136,74.
Nessuno oramai ci capiva niente e nemmeno era in grado di formulare ipotesi su come sarebbe andata a finire quella vicenda innescata dall’acquisto del rudere nel 1990 pagando l’imposta attraverso il “beneficio” della rendita presunta. Il fisco poteva vincere quel grado del procedimento e magari resistere vittoriosamente anche ad un mio appello in secondo grado arrivando, per compiersi i diversi giudizi, nel frattempo vicino al 2010 e vedere poi vanificare il tutto se la Corte di Cassazione, i cui tempi per quella decisione erano variabili tra i 5 ed i 6 anni, nel mentre mi avesse dato ragione. D’altra parte, se la stessa Corte nel giudicare la bontà delle mie ragioni, avesse deciso di compensare le spese di giudizio, avrei in ogni caso dovuto sobbarcarmi le spese legali, rendendo il tutto una vittoria di Pirro. Tremendo poi lo scenario in caso di una sconfitta totale intorno all’anno 2010: tra spese legali, interessi e maggiori imposte il conto poteva salire fino a 30.000 Euro.
Godevo ancora di ottima salute, ma considerando che nel 2010 avrei compiuto 77 anni e che non volevo lasciare ai miei figli le grane causate dalla mia ostinazione o dalla mia sventura, decisi di accogliere la richiesta di conciliazione fattami dall’Agenzia delle Entrate: se rinunciavo al rimborso delle spese legali sostenute e versavo la somma di 7.000,00 Euro la storia era chiusa.
Nella calda mattinata del 5 maggio 2004, qualche giorno dopo l’ingresso nell’Unione Europea della Slovenia, mi recai all’Agenzia delle Entrate con un assegno di 7.000 Euro e sotto l’occhio vigile del commercialista, firmai assieme al Direttore dell’Ufficio di Trieste la fine della guerra tra me e lo Stato Italiano, causata dal mio acquisto per 20 milioni di Lire di un vecchio rudere a 100 metri dalla cortina di ferro nella primavera del 1990.
****
Ieri sera ho ricevuto una telefonata da parte del mio vecchio amico geometra, ormai in pensione pure lui.
“Bepi, se mi prometti di non arrabbiarti, ti dico una cosa”
“Dimmi Furio, dimmi tutto quello che vuoi, oramai sono in pace con il mondo”
“Ti ricordi quella rendita definitiva del rudere di Prepotto?”
“Vuoi che torni in guerra con il mondo? Certo che la ricordo, beata l’ora!”
“Senti…”
“Forza, ti ho detto.. ho fatto pace con il Governo Italiano, avanti…”
“Ho conosciuto il figlio dell’impiegato del Catasto che aveva valutato il valore di quella rendita: suo papà è morto l’anno scorso. Mi ha raccontato che il padre, gli ultimi anni della sua vita era tormentato da un fatto accaduto poco prima che andasse in pensione: aveva fatto un errore nell’ultima pratica prima del pensionamento; si trattava dell’attribuzione di una rendita definitiva a seguito di domanda di iscrizione di rendita presunta… la rendita presunta era di 200.000 Lire, si trattava di un vecchio rudere vicino allo Judrio. Lui la valutò addirittura 190.000 Lire,  perché quel rudere era proprio un rudere,  solo che nel mentre scriveva la cifra, alcuni colleghi nell’invitarlo ad un brindisi al suo imminente pensionamento   l’avevano distratto e così  lui non si era accorto di aver lasciato uno zero in più.
La pratica era andata alla firma del Direttore ed era uscita con la rendita attribuita per 1.900.000 Lire…”
“Ma quando se ne sono accorti?” dissi pietrificato.
“Se ne accorsero per caso nel 1994 quando tu  facesti richiesta di chiudere la lite. Un impiegato zelante prese in mano il fascicolo e s’insospettì dell’importo così elevato della rendita definitiva: telefonò al pensionato, esaminarono il carteggio e così capirono l’equivoco”
“Ma.. ma… perché non fecero nulla?” Sussurrai nella cornetta con un filo di voce.
“ Loro consegnarono subito il fascicolo al Direttore spiegando l’accaduto ma questi disse - E che c’azzecca? Il poverino ha fatto ricorso nei termini contro l’attribuzione della rendita? No? E che minchia ci posso fare io se questo tapino  smemorato fu? Questione di diritto ormai è! – i due non ebbero il coraggio di replicare al loro superiore e così… bè il resto lo sai. Nel frattempo è morto anche il Direttore.”

Riattacai la cornetta senza replicare, uscii sul terrazzo e mi sedetti, svuotato da ogni energia vitale, sulla stessa poltrona su cui mi ero seduto 16 anni prima dopo aver letto la lettera di Helen; i miei occhi caddero sul tavolino dove avevo riposto il libro per la lettura della notte: “Il Processo” di Franz Kafka.

giovedì 30 marzo 2017

BENE E MALE




















Non c'è traguardo nella dura
e formidabile corsa verso il Bene;
costellata di splendidi astri
è l'infinita ascesa verso l'imprendibile Olimpo.

E non v'è fondo
nell'orrenda discesa verso il Male;
né v'è luce, né nord, né sud, né est, né ovest, né musica,
ma solo impenetrabili tenebre
ed angosciosa solitudine.

E non c'è Male senza Bene,
né Bene senza Male:
chi è più infastidito dal buio della notte,
se non chi si è sempre nutrito della Luce più radiosa?
e chi può essere più vinto dalla libertà,
se non chi era in catene?
e chi può amare di più

di colui al quale è stato sottratto l'amore?

mercoledì 29 marzo 2017

AULA



Giovani volti e giovani pensieri
prospettive senza prospettiva
vecchio e nuovo
irrimediabilmente divisi
si osservano senza guardarsi.

Nello stesso istante
tempi e mondi diversi
irrimediabilmente lontani
e costretti a respirare la stessa aria.

Sogni e paure
vecchie e nuove
che fluttuano insieme
compresse dai limiti
dello spazio e del tempo comune.

Danzano, s'intrecciano,
s'aggrovigliano,
si rincorrono
senza nè fondersi e nè trovarsi

MAI. 

NATURA VIVA












Poveri mortali!
In balia degli Oceani,
perduti nelle tempeste,
traditi dalle proprie cellule impazzite,
assiderati nel freddo intenso,
arsi dal fuoco,
a fondo nelle acque dei fiumi e dei mari,
soffocati nei cieli,
granelli di sabbia del deserto,
piume d’oca lanciate nei venti del Nord.
Essenze cui la Natura ha dato
l’ineludibile destino di esserne suoi schiavi.
Incorreggibili ribelli convinti che il proprio destino
sia dominare la Natura.

Fortunati mortali!

Quando sentite la forza della Natura
impadronirsi del vostro Essere,
togliervi i vostri vani diaframmi e,
liberando Energia Vitale,


vi riunite con Essa. 

LA PRIMA VOLTA NON SI SCORDA MAI

La prima volta che andai allo Stadio Friuli fu nell’estate del 1978, per assistere ad un incontro amichevole tra l’Udinese, appena promossa in serie B dopo 12 campionati consecutivi in C, ed il Milan, che sino allora non aveva che frequentato la massima serie.
Avevo 12 anni e l’idea di poter “vedere” da vicino giocatori di serie A era nella mia mente qualcosa di grandioso: di colpo, nomi come Rivera, Maldera, Albertosi, Bigon…  prendevano forma! Fotografie viste e riviste ogni anno nel rito dello scambio delle figurine Panini… nomi uditi ogni domenica alla Radio durante le telecronache.. i personaggi che noi bambini impersonavamo nei lunghi pomeriggi passati a giocare a pallone in ogni dove, dal cortile di casa alla piazzetta sgombera momentaneamente di auto…i volti del mio immaginario d’improvviso erano lì.. a pochi metri!
Una sensazione stranissima.. la visione di alieni che sbarcano sulla terra penso poco di più avrebbe causato agitazione nel mio mondo.. Eppoi lo stadio! tutta quella gente insieme… la folla… tutti quei volti sorridenti e festanti nell’attesa dell’evento…quel chiacchiericcio che saliva e divenne un boato assordante quando le squadre entrarono in campo… e l’eccitazione dentro di me che cresceva... i brividi lungo la schiena… Non riuscivo a placare quella sensazione nuova che mi rendeva euforico, con gli occhi colpiti da immagini straordinarie in ogni direzione essi si muovessero… i giocatori in campo, il vicino che urlava, l’altro che azionava la tromba… la voce della folla che non si placava ed io che cercavo di fissare nella mia mente ogni cosa, ogni suono.
Avevo preso posto alla fine del settore distinti, in linea con la bandierina del calcio d’angolo sul lato dalla curva nord, che al tempo era priva di gradinate e completamente ammantata d’erba; non dimenticherò mai il salire del battito del mio cuore quando vidi arrivare verso di me Rivera con il pallone tra i piedi per battere un corner! Gianni Rivera! L’eroe di Città del Messico… quello di Italia – Germania 4-3… l’uomo che divenne mito piegando definitivamente i tedeschi con un piattone di destro che prese in contropiede il grande Sepp Maier nel supplementare della semifinale mondiale passata alla storia nientemeno come “la partita del secolo”… 
Risultati immagini per GIANNI RIVERA 4-3Un tiro che fotografò per sempre lo stile inimitabile di Gianni Rivera: un colpo di piatto dal centro dell’area di rigore raccogliendo un cross rasoterra proveniente dalla sinistra, e quindi effettuato secondo la modalità più semplice e banale del repertorio, il primo colpo che apprende qualsiasi ragazzino che incomincia a cimentarsi con il gioco del calcio… ma non indirizzato sul lato destro del portiere, quello più libero, bensì a incrociare sul lato sinistro, quello coperto dall’estremo difensore… però nel momento che questi cerca disperatamente di lanciarsi sul lato destro scoperto, quello dove chiunque avrebbe pensato di calciare la palla in quella situazione… L’immagine di Sepp Maier lanciato verso la sua sinistra, con le braccia protese ma con la testa rivolta a destra ad osservare la palla che sfila oltre la linea di porta vicino ai suoi piedi, non veloce, ma in maniera irreparabile, fu un istante lungo come una vita intera! Un’intuizione geniale che non poteva non passare alla storia: il tiro più semplice verso l’angolo più improbabile e lontano! Più che un tiro, una metafora!
Quel pomeriggio di agosto del 1978 l’eroe di Città del Messico era lì, a poche decine di metri da me:  quel calcio morbido dalla bandierina verso il centro dell’area intasata dell’Udinese è un istante che mi ritorna alla mente spesso, le volte che ancor oggi vado allo Stadio Friuli.
Quel pomeriggio assolato scattò qualche cosa, una scintilla che ancor oggi si accende in tutte le occasioni in cui entro allo Stadio e che nessuna pay-tv sarà mai in grado di surrogare.  
Risultati immagini per UDINESE MILAN 1978La partita, per la cronaca finì 2-0 per gli “odiati” rossoneri, destinati a diventare alla fine di quella stagione campioni d’Italia davanti alla rivelazione Perugia di Castagner e così a fregiarsi anche loro, dopo Juve ed Inter, del diritto di apporre la stella dorata dei 10 scudetti sulle casacche. 
Anche il destino dell’Udinese, allora allenata dall’udinese purosangue Massimo Giacomini, non fu meno entusiasmante: addirittura vinse il campionato di serie B, strapazzando tutte le avversarie e facendo ritorno in serie A dopo 17 anni: certo non si può dire che il mio “debutto” in uno stadio portò sfortuna alle due contendenti!


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