giovedì 29 giugno 2023

ULTIMO SECONDO A BOSTON

 

“Gli imprevisti e i dettagli sono ciò che fa la differenza nel romanzo di ciascuno” – così Rubén aveva detto, alzando sconsolato le spalle, alla banconiera di uno dei tanti bar dell’aeroporto Generale Logan di Boston quando la giovane ragazza dai capelli rossi si era scusata per non poter dare al pittore spagnolo una bustina supplementare di sale, motivando la circostanza con l’inattesa mancata consegna quotidiana da parte del fornitore. La ragazza era rimasta “di sale” e aveva poi rivolto uno sguardo incuriosito verso la sagoma di quel bizzarro signore che ritornava al tavolo per consumare quell’insalata evidentemente ritenuta insipida, nonostante fosse stata a regola d’arte accompagnata al momento dell’ordinazione dall’ultima bustina di sale rimasta.

“Ma che cazzo avrà voluto dire questo? Certo che qui ne passa di gente strana ogni giorno, oggi era il turno del filosofo del sale” – aveva in fretta concluso la banconiera, richiamata subito alle mansioni abituali dai numerosi passeggeri che si accalcavano poco pazienti verso la cassa.    

Per Rubén, invece, quell’insalata insipida non era altro che l’ulteriore prova di quello che aveva affermato con malcelato fastidio alla stupefatta ragazza tutta lentiggini e dai capelli rossi, tornando con la mente a quanto aveva assistito la sera prima al “The Garden”, quando dopo molta riluttanza aveva accettato l’invito dell’avvocato Weinberg ad assistere con lui la finale del campionato NBA tra i padroni di casa, i celeberrimi Boston Celtics e i sorprendenti avversari che arrivavano dal Pacifico, i quasi messicani di San Diego: i Los Angeles Clippers.

L’avvocato, suo fidato patrocinatore nella causa in corso contro l’amministrazione del Boston Museum of Fine Arts per il rifiuto opposto a pagare il danneggiamento del suo ultimo quadro, prestato due anni prima per una mostra collettiva di pittori contemporanei spagnoli, lo aveva pressato all’inverosimile per partecipare a quello che asseriva essere l’evento sportivo più importante nella storia recente del basket americano.

Così Rubén, da calciofilo impenitente che poco o nulla conosceva di quello sport che gli era sempre apparso noioso, dalle tante regole cervellotiche e complicate, si era sorbito una vera e propria requisitoria da parte del legale a difesa del “suo” sport del cuore, nella quale gli aveva spiegato che quella era “gara 7”, quella decisiva, che contro ogni previsione avrebbe assegnato il titolo della massima competizione mondiale.

Rincarando poi la dose spiegando che a contenderlo agli strafavoriti e celebri Celtics, la sua squadra del cuore, era il Team meno considerato di tutta la storia dell’NBA, i Clippers, abitualmente sparring partner dei più titolati Lakers e delle altre società a stelle e strisce e mai giunti neanche alla finale della loro conference in tutta la loro storia.

Inizialmente il pittore spagnolo aveva resistito con tutte le sue forze, perché si riteneva già abbondantemente soddisfatto di quanto la città americana gli aveva offerto nel pomeriggio durante la sua visita alla downtown, ed in particolare seguendo il famoso Freedom Trail, il percorso pedonale segnato da mattoncini rossi che si snoda tra il Boston Common, il parco pubblico più antico di tutti gli USA e autentico polmone verde di Boston, per terminare il Quartiere di Cherlestown, passando per gli edifici tra i più significativi che videro la gestazione della rivoluzione americana tra cui l’Old State House.

In particolare proprio l’interno di questo edificio aveva messo in moto un vero e proprio turbine emotivo, quando aveva appreso dall’amico che tra quelle mura era stato progettato il Boston Tea Party e avevano preso forma i concetti e i fondamenti della dichiarazione d’indipendenza, poi sottoscritta a Philadelphia nella Independence Hall il 4 luglio 1776.

Turbine che si era poi addirittura trasformato in tempesta, quando all’esterno notò come l’Old State House – piccolo e grazioso edificio perfettamente conservato da quei lontani eventi del XVIII secolo - fosse completamente soffocato dalla giungla di grattacieli giganti che lo facevano apparire come un microbo, un bizzarro intruso portato lì da chissà quale altra parte del mondo, che poco o nulla aveva a che vedere con la città di Boston.

“Eh già, proprio come i principi pensati dai massoni, dagli illuministi e dai patrioti che stesero quel documento, nel tempo assai stravolti e travisati dai posteri ma che, a dispetto di tutto, restano incancellabili sulla carta per indicarci validamente ogni giorno la via!”

 Con questo “insight” Rubèn riteneva di poter affrontare il lungo viaggio di ritorno in Europa ancor più soddisfatto di quanto l’avv. Weinberg gli avesse prospettato circa l’andamento positivo del contezioso legale e l’entità del risarcimento.

Invece alla fine, per non mortificare la grande cortesia e l’amicizia del suo ospite alla fine aveva deciso di godersi lo spettacolo di “Gara 7” al “The Garden” tra i favoriti Celtics e l’underdog Clippers, finendo naturalmente per farsi travolgere dal tifo nei confronti di questi ultimi in mezzo alla marea verde che faceva un tifo infernale a favore della squadra di casa.

E finendo travolto anche dalla bellezza di uno sport che, nonostante le regole continuassero ad essere per lui quasi un mistero ad ogni fischio arbitrale, gli regalarono una serata di pura adrenalina seguendo gli atleti in campo darsi battaglia dal primo all’ultimo secondo punto su punto, lottando su ogni palla vagante come fossa quella decisiva, in uno stillicidio di passione e partecipazione collettiva all’ennesima potenza.      

Alla fine la spuntarono i favoriti Celtics tra l’entusiasmo senza freni dei sostenitori di casa e la tremenda delusione di qualche centinaio di tifosi dei Clippers, muti ed in lacrime con le loro magliette bianche in mezzo ad una folla ondeggiante, vestita di verde e che pareva una brughiera scozzese battuta dal vento.  

Per Rubén, dapprima semplice e scettico osservatore neutrale divenuto via via acceso tifoso dei californiani, se quel gioco era governato dagli Dei come tutte le cose della Vita, gli Dei non avevano perso occasione per dimostrare ancora una volta di più di essere distratti o poco interessati ad assecondare la trama leggendaria che l’ultimo tiro dei Clippers, scoccato a qualche decimo di secondo dalla sirena conclusiva, stava per concretizzare portando il tabellone sull' 109-110.

 Invece la palla era stata respinta dal ferro per qualche centimetro di troppo nella parabola disegnata con la forza della speranza dal californiano, il segnapunti bloccato sul 109-107 e così quella storica serie rimase solo nominata all'Oscar senza vincerlo, perché grazie al canestro dei verdi centrato un secondo prima, a vincere il titolo era stata Boston, la grande favorita della vigilia e che di veramente epico dunque, nulla aveva fatto. “Nonostante i Clippers arrivassero dalla terra di Hollywood, le favole hanno lieto fine necessario solo al cinema mentre nella vita e nello sport le cose vanno diversamente” - aveva chiosato trionfante e madido di sudore l’avv. Weinberg, forse anche un po’ piccato perché il pittore spagnolo si fosse apertamente schierato per gli avversari. “Hai Ragione Matt, perché nella sceneggiatura di qualsiasi regista il tiro dei Clippers sarebbe entrato, altrimenti quel film al botteghino sicuramente avrebbe fatto fiasco; e non offenderti se la mia simpatia è andata a San Diego: diciamocelo pure senza imbarazzi, se tra Davide e Golia vince Golia, ad esultare e apprezzare possono essere solo i seguaci del gigante e non certo il grande pubblico”.

“Ma si, tieniti pure la tua filosofia Rubén, tanto abbiamo vinto noi e poi, a te domani, che ti frega?”.  Matt Weinberg aveva liquidato la questione posando la classica pietra tombale, prendendo sottobraccio il pittore spagnolo per accompagnarlo in mezzo a quel sabba dionisiaco che erano diventati i festeggiamenti.

Eppure il giorno dopo, attendendo l’aereo che lo doveva riportare in Europa, alla sua base insicura di Toledo, Calle Magdalena 23, quell’inspiegabile delusione per aver visto trionfare ancora una volta un Golia su di un Davide non voleva saperne di scivolare via e sfumava invece in un senso di aperto fastidio, considerando anche, come se non bastasse, come la Dea fortuna avesse voluto rincarare la dose penalizzando il meno dotato.

E il pensiero del potere che hanno nel modificare radicalmente le nostre vite i piccoli dettagli, i pochi centimetri, qualche secondo in più o in meno e come siano le situazioni inattese, quelle non previste nel mare dei miliardi di combinazioni che ogni giorno generano i nostri gesti e i nostri incontri quando si mescolano con quelli degli altri, a determinare il successo o il fallimento di tanti progetti esistenziali gli parve una vertigine.

Una vertigine spaventosa, considerando poi come ogni giorno il numero tendenzialmente illimitato di dettagli o accadimenti piccoli, involontari e tutti all'apparenza insignificanti aprano la strada a versioni profondamente diverse di una stessa vita.

Tante serate spese con Dolores a parlare sul tema del Destino gli sembrarono essere state sola un'inutile perdita di tempo.

“Non c’è nessun disegno, nessuna forza, nessuna mano invisibile: le cose semplicemente accadono e ciascuno di noi, piccola e minuscola zattera in mezzo all’oceano, ha il solo il dovere di assumersi la responsabilità di decidere come reagire e di dare il personale senso e la direzione desiderata alla navigazione. Altro che “Volere è potere” e tutte le connesse stronzate che derivano dal quel proclama tanto di moda e che riempiono pagine su pagine di testi "sacri" auto-motivazionali sulle bancarelle di tutte le librerie del mondo occidentale!”  

Quello fu l’ultimo pensiero, prima di cestinare gli avanzi dell’insalata insipida ed incamminarsi verso il gate d’imbarco. Rimaneva una cosa da fare; si diresse ancora una volta verso il banco del bar e sparò a bruciapelo la domanda alla ragazza tutta lentiggini e dai capelli rossi alla cassa: “Talento o fortuna?”

“Lo domandi a Woody Allen! Ma quale talento, ma quale fortuna! Non mi faccia perdere tempo Mister, non lo vede che sto lavorando?? La mia fortuna sarà il suo talento di lasciarmi in pace!!” Fu la risposta altrettanto immediata ed infastidita della banconiera che pensò ancora una volta “Ma ne gira di gente strana, e che cazzo!”

E a Rubén, udito il responso della recalcitrante Sibilla, non rimase che correre al gate per non perdere il volo, circostanza che ben poco avrebbe avuto a che fare con la sfortuna e molto più con il suo talento per le domande giuste alle persone improbabili nei momenti sbagliati.

venerdì 16 giugno 2023

CHICHEN-ITZA: APPUNTAMENTO CON IL SERPENTE PIUMATO

 

Nikos Kazantzakis, nel suo celeberrimo romanzo Zorba il Greco, fa dire al suo protagonista che non è il destino che ci porta da qualche parte ma siamo noi che portiamo il nostro nostro destino ovunque decidiamo di fermarci. Questo era il pensiero che accompagnava Rubèn mentre cercava di farsi largo tra la folla che gremiva ovunque l'ampio spiazzo sul quale sorgeva la piramide del dio Kukulkan a Chichen-Itza.

Kukulkan era il  nome con cui i Maya avevano rinominato la divinità tolteca di derivazione azteca Queztzalcoatl, il serpente piumato Signore del Vento che svolgeva un ruolo importante in tutte le cosmogonie mesoamericane e che secondo la leggenda, l'ultimo imperatore azteco Montezuma, aveva addirittura visto in Hernan Cortes, l'uomo invece giunto dal mare e destinato, appunto, a distruggere le civiltà precolombiane.

Tanto è vero che i seguaci di Cortes, quindi anche avi ispanici di Rubén, avevano ribattezzato la piramide El Castillo, sia per togliersi dall'imbarazzo dell'impossibile pronuncia che per spogliare quel luogo da qualsiasi possibile residua sacralità.

Il pittore spagnolo, mentre attendeva che i raggi del sole iniziassero ad infrangersi dall'alto in basso contro la sagoma di Kukulkan scolpita ai quattro lati delle scalinate della piramide, dando così l'impressione che il dio prendesse vita illuminandosi come avveniva da secoli ogni equinozio di primavera, ripensò a quanto gli aveva raccontato il suo autista messicano mentre da Valladolid, con la sua scassata Ford Taunus, lo aveva condotto al sito di Chichen-Itza.

"Voi occidentali avete riempito di fantasiose ed improbabili ricostruzioni libri e libri sulle civiltà che prosperavano prima dell'arrivo di Colombo e di Cortes, solo perché gli spagnoli, ovvero i suoi avi Senor, sono sbarcati in America quando a casa loro imperava la santa Inquisizione ed il vostro Re incaricò i francescani di evangelizzare i miei progenitori. Il compito lo eseguirono con lo zelo che solo un uomo di fede assoluta sa mettere: distrussero con il fuoco ogni traccia scritta delle culture indigene, tanto che al mondo oggi esistono solo 4 rotoli: tutto ciò che resta di civiltà millenarie".

"Così  oggi i segni e i resti lasciati dai suoi di avi, essendoci oscuri e apparendoci minacciosi, li interpretiamo in modo altrettanto cruento e, guidati dalle nostre paure ancestrali, diamo vita a spiegazioni sensazionalistiche che sembrano perfette per i produttori di Hollywood e per gli scrittori in cerca di vendite sicure." Aveva infine chiosato Rubén, sentendosi un po' in colpa per le sue origini iberiche e per essere arrivato anche lui a Chichen-Itza la sera dell'equinozio di primavera come altre migliaia di "gringos" attratti e affascinati dalla "magica comparsa" del serpente piumato sui gradoni della Piramide.

"E' così Senor! Maya, Aztechi, Toltechi e Olmechi studiavano i ritmi delle stagioni e i segni rinvenibili nella volta celeste non perché volessero parlare con misteriose civiltà extraterrestri che li avevano visitati lasciando loro chissà quale segreto da difendere con sanguinosi sacrifici umani, ma perchè erano popolazioni che vivevano di agricoltura in una natura particolarmente matrigna e che necessitavano quindi di conoscere bene quando, dove e come piantare i semi e dare via ai raccolti e alla conservazione dei frutti della terra."

"Lo sai che mi hai convinto Hector? disse alla fine Rubén nell'atto di congedarsi dall'autista messicano davanti ai cancelli del sito archeologico. "I pesos di mancia spendili per bere una cerveza da dedicare alla salute di Kukulkan!" - No Senor, lei è sacrilego, la berrò alla sciagura di Cortes!" Muchas Gracias, aveva invece prontamente risposto Hector sgommando mentre la solita orchestrina di Mariachi cercava con la sua musica di rendere meno faticosa l'attesa dell'ingresso alla calca di gringos, con la palese speranza di strappare loro anche più dollari americani che pesos.

Così, qualche ora più tardi, mentre il Serpente Piumato, il Signore del Vento Kukulkan iniziava a manifestarsi sui gradoni della Piramide - El castillo  tra l'intenso brusio di stupore di migliaia di Gringos convinti di scorgervi messaggi sulla prossima fine del mondo inviati da civiltà interplanetarie, Rubèn, trovò la risposta all'iniziale vexata quaestio.

"Hai ragione Zorba, dovunque andiamo non siamo guidati da chissà quale mano invisibile ma portiamo sempre con noi ciò che siamo. Che rischia di essere spesso un destino indesiderato solo per chi ci accoglie."  

    

 

  

    

martedì 13 giugno 2023

SPENTE LE LUCI SULLA STAGIONE 2022/23: NIENTE PAGELLE, ECCO I MOMENTI TOP DELLE AQUILE

Andata in archivio la prima stagione in serie A2 per la UEB GESTECO Cividale è prassi consolidata tra gli addetti ai lavori attribuire le "pagelle" ai protagonisti dell'annata, compito decisamente antipatico e utile spesso per attirare più antipatie che altro ed in più condizionato dall’ emotività del momento.
Ora che la stagione si è ormai conclusa da diverse settimane, come tutti ben sanno al Carnera con la palla della vittoria respinta dal ferro a gara 5 dei quarti di finale play-off,  e che pure si sono esauriti i meritati festeggiamenti per la stagione straordinaria, "a freddo" si vuole stilare invece un'altra classifica: il podio dei momenti "più belli e brutti" vissuti dalle Aquile gialloblù, dal loro entourage e dalla Marea Gialla nella loro fantastica stagione sportiva.
Una stagione segnata dalle combattutissime sfide contro la "corazzata" APU (alla fine ben 8 tra Supercoppa, Regular Season e Play-off) e più in generale da ricorrenti ultimi minuti palpitanti, da togliere il fiato e capaci di liberare esplosioni di gioia clamorose e delusioni altrettanto profonde nell'immediato, sempre però elaborate con grande compostezza e sportività da tutte le componenti che hanno dato vita alla "saga" gialloblù.

I MOMENTI  TOP

1) Al primo posto si propone l'esplosione di giubilo seguita alla vittoria nel derby d'andata durante la regular season, quando l'APU UDINE arrivava per la prima volta in via Perusini  in testa alla classifica e con tutti i favori del pronostico. Ultimi venti secondi pazzeschi, con Gabiele Miani che dà con un 1 su 2 ai liberi il 67-66 e Sherill che perde la bussola e la palla negli ultimi 2 secondi, frastornato dal pressing degli uomini di Pillastrini, che poterono liberare tutta la loro gioia all'unisono con una marea gialla che aveva riempito come non mai le tribune del Palagesteco.

2) Piazza d'onore per la strepitosa impresa di fine gennaio, quando ancora privi di Clarke, i Pilla's Boys sbancano il tempio del Paladozza con il sostegno di quasi 500 tifosi al seguito, capaci di farsi sentire - eccome - nel catino infuocato di Piazzale Azzarita. Le 4 bombe consecutive sparate da Eugenio Rota in faccia alla Fossa della Effe nell'ultimo quarto e capaci di ammutolire la curva felsinea, resteranno per sempre scolpite nella memoria di tutto l'ambiente gialloblù.

3) Gradino più basso del podio per la vittoria in gara 1 della serie play-off contro l'APU sul terreno del Carnera: il tabellone che alla fine segna 82-88 è qualcosa che le Aquile e la Marea Gialla che aveva "invaso" il palazzetto udinese non dimenticheranno e che aveva fatto scorrere più di un brivido di paura ai rivali circa l'andamento complessivo di una serie che li vedeva ancora una volta nettamente favoriti (solo sulla carta, con il senno di poi). 

Fuori dal podio, menzione d'onore senza dubbio per la prima vittoria esterna, colta in novembre senza un americano niente meno che sull'invitto campo della vincitrice della regular season e ora finalista del play-off promozione, l'UNIEURO Forlì in quella serata le alchimie tattiche di coach Pillastrini mandarono letteralmente in confusione gli avversari e la pugna dei suoi ragazzi fecero il resto per lo storico 53-56 finale.   

I MOMENTI DOWN

1) Sin troppo facile chiamare in causa quei pochi centimetri di troppo che hanno impedito al tiro di Lucio Redivo di bucare per l'ennesima volta la retina dell'APU a fil di sirena di gara 5 del play-off: oltre che negare una meritata impresa agli uomini del Presidente Micalich, hanno impedito l'attribuzione del bacio accademico al 110 con lode che si era già guadagnata la stagione della squadra gialloblù.

2) Lo "spettacolo" antisportivo che gli americani dell'APU UDINE hanno "regalato" alla Marea Gialla assiepata sulle tribune del Carnera al termine di gara 5, tra l'indifferenza "o quasi" di molti addetti ai lavori, molto più concentrati nello stigmatizzare invece situazioni di gioco del tutto tipiche per una gara di play-off.

3) Il tiro di tabella di Bolpin che a filo di sirena infliggeva alle Aquile un'inattesa sconfitta casalinga  contro Chiusi alla vigilia di Natale e che negava l'accesso alle final-four di Coppa Italia contro Cantù a vantaggio della detentrice APU Udine.

Anche qui menzione d'onore fuori dal podio per l'infortunio a Rotnei Clarke, l'americano che aveva da poco sostituito il capitano della Promozione Adrian Chiera e che era stato ingaggiato per contribuire al salto di qualità della compagine cividalese.
Il buon Rotnei è stato in grado solo di far intravedere sul campo di Rimini ed in casa contro Mantova le qualità di cecchino per il quale era stato chiamato sulle sponde del Natisone, ma che da gennaio non è più riuscito a mettere piede sul parquet, dando modo ai compagni comunque di cementare ancora di più lo spirito di gruppo che li ha portati ad arrivare comunque ai play-off con l'innesto di Lucio Redivo a risultato già praticamente acquisito.  

Adesso è già ora di mettere i ricordi in archivio per raccontarli nelle notti d’inverno quando fuori farà troppo freddo e iniziare invece a scrivere le prossime pagine di questa bella storia.
  


 
 

mercoledì 7 giugno 2023

IL MAGO DELLA BOVISA

Osvaldo Bagnoli, nato il 3 luglio 1935 nella periferia milanese della Bovisa, ha legato indiscutibilmente il suo nome e la sua notorietà ad una delle più belle imprese sportive del calcio italiano, la vittoria del campionato 1984/85 con il Verona, società di provincia che proprio in quell'anno era stato definito il campionato "più bello del mondo", vista la contemporanea presenza delle più quotate star del calcio mondiale come Maradona, Platini, Zico, Socrates e Rummenigge.
Per citarne solo i più rappresentativi.
Osvaldo Bagnoli, tecnico con una carriera da giocatore spesa per lo più tra B e C con le maglie del Catanzaro e del Verbania negli anni '60, rappresentò per le squadre di club italiane quello che fu Enzo Bearzot per la nazionale, sia per filosofia di gioco che per visione del mondo e dello sport.
Come il tecnico di Aiello del Friuli, Osvaldo Bagnoli puntò infatti sempre su gruppi fedeli e ristretti di giocatori considerati outsider e adattando le tattiche di gioco alle caratteristiche degli uomini a disposizione, coesi dove i singoli mettevano a disposizione le loro migliori qualità, esaltando sé stessi a tutto vantaggio del collettivo.
E come accadde per l'allenatore campione del mondo, inviso dalla maggior parte della stampa nazionale per via del suo carattere assai poco incline ai proclami e spesso spigoloso, veniva tacciato di produrre un "calcio vecchio", tutto difesa e contropiede.
Con filosofia (vera) del gruppo (autentico), tutto catenaccio (presunto) e contropiede, il "Mago della Bovisa" nelle sua carriera che mise insieme 809 panchine dal 1973 al 1994 tra campionato, coppe nazionali e internazionali alla guida di Solbiatese, Como, Rimini, Fano, Cesena, Verona, Genoa e Inter con la conquista dello scudetto a Verona, delle 2 promozioni dalla B alla A con Cesena e Verona e quella dalla C2 alla C1 con il Fano, oltre ad uno storico quarto posto con il Genoa 1990/91 che valse la qualificazione alla Coppa Uefa con la successiva conquista della semifinale del torneo nell'anno successivo e la piazza d'onore con l'Inter dietro il Milan degli Invincibili nell'annata 1992/93.
Esonerato dal Presidente Pellegrini nella stagione 1993/94, Osvaldo Bagnoli, nonostante le molte offerte decise di dire stop e si ritirò definitivamente dal mondo del calcio.
Ma per definire chi fu veramente Osvaldo Bagnoli e perchè fu in grado di vincere spesso in piazze "impossibili" against all odds, è sufficiente citare le sue parole, rese all'indomani della vincita del clamoroso scudetto gialloblù del 1984/85.

"Favola o realtà?  Me lo sto chiedendo anch'io mentre sto vivendo un momento eccezionale e mi sento felice, seppur prigioniero di qualcosa che supera ogni immaginazione, qualcosa di veramente ed esageratamente, almeno per il mio carattere, favoloso.
Se riuscirò ad uscire dai mille e mille abbracci, dalle espressioni di gioia di una città, di una provincia e di un mondo che sta dentro e intorno, vicino e lontano da questa Verona in festa, allora potrò riordinare le idee, rifare mentalmente una strada che è quella percorsa da latri allenatori, magari più bravi di me, che non hanno avuto la mia stessa fortuna.
Io so, per esperienza, che quando andrà meno bene i tifosi che oggi esultano saranno pronti a contestarci.
Adesso esco dallo stadio fra gli applausi, giro per la città indicato a vista, elogiato da tutti, ma non dimentico la porticina di servizio del Bentegodi, o di un altro stadio, che un giorno mi aiuterà ad evitare la folla che aspetta fuori per contestarmi."   

giovedì 1 giugno 2023

29 MAGGIO 1983: L’ULTIMA PARATA DI ZOFF

 

Neanche un anno dopo aver vinto il mondiale, Enzo Bearzot si gioca le ultime, scarse, possibilità di qualificarsi a Euro 84 in quel di Göteborg contro la Svezia.

Il Vecio, coerente come sempre alla filosofia del gruppo, si affida agli stessi 11 che 11 mesi prima hanno steso il Brasile stellare di Zico e Co.; questa volta però i ”suoi” ragazzi lo tradiscono perché proprio non ne hanno più: 2-0 per gli svedesi e fine di un’epoca.

Il migliore in campo fu il suo capitano, che a 41 anni suonati tenne a lungo a galla gli azzurri ed impedì che il passivo assumesse proporzioni umilianti. L’unico a ripetersi sugli stessi livelli del Mondiale di Spagna.

E’ la sua 112 presenza, sarà l’ultima perché poi negli spogliatoi annuncerà il suo ritiro con questa semplice motivazione: “Sto ancora bene, ma non passo parare anche l’età”.

Nella foto l’ultima eccezionale parata su tiro di Sandberg al 30’ del primo tempo, che aveva mantenuto ancora  lo 0-0, prima di capitolare nella successiva azione da calcio d’angolo. 

Un uomo di 41 anni in volo plastico, parallelo al suolo, stilisticamente perfetto e tremendamente efficace con perfetta scelta di tempo, un connubio iconico di intuito e tecnica.

Un’uscita di scena da primo attore, un addio alle armi da Dino Zoff.

Post in evidenza

NOTTI MAGICHE ANTE LITTERAM

25 giugno 1983 – Arrivo al campo mezz’ora prima del fischio d’inizio, di corsa dopo essere riuscito a fuggire da una riunione familiare ...