mercoledì 12 dicembre 2018

DESTINAZIONE PARIGI

Rubén stava cercando di immaginare il viso ed i pensieri di Carmen mentre avrebbe letto in solitudine la lettera che lui aveva appena terminato di scrivere, prima d'imbarcarsi per Parigi e che le avrebbe spedito prima del tramonto proprio dalla Ville de l'amour. Sicuramente non immaginava nulla di positivo: anche lui, peraltro, nello scrivere non era animato più dalla spinta di tanti, troppi, precedenti. Terminato quel doloroso vaticinio, rilesse per l'ennesima volta quello che aveva scritto, mentre dal finestrino dell'aereo aveva notato che l'aspro e immacolato paesaggio alpino stava lasciando la scena alle verdeggianti pianure della Francia meridionale. Qualcosa non lo convinceva. "Ti scrivo per compresa mancanza di spazi temporali adeguati e di reciproche capacità emotive necessarie per sostenere una comunicazione verbale; voglio subito liberare il campo dal pensiero che questo mio ennesimo scritto sia finalizzato a recuperare qualcosa di ciò che è stato, che oramai non c’è più: il tempo e la vita viaggiano sempre e solo in una direzione e non consentono recuperi, solo adattamenti al nuovo. Persino i ritorni lo sono. 
Forse conosci già il mito di Orfeo e Euridice: alla morte dell’amata Euridice, Orfeo è talmente disperato da scendere negli inferi a chiedere ad Ade e Persefone in persona di restituirgli il suo amore e con il suono meraviglioso della sua cetra riesce a convincerli. Ade gli pone una condizione: nell’uscire dagli inferi: Orfeo dovrà sempre precedere Euridice senza mai voltarsi a guardarla, altrimenti l’avrà persa per l’eternità. 
Naturalmente, proprio in vista del rientro nel mondo dei vivi, non sentendo il rumore dei passi alle sue spalle, Orfeo non resiste all’idea di verificare se Euridice è al suo seguito e se Ade è stato di parola e così si volta, facendo sprofondare per sempre la sua amata nell’oltretomba. 
Anche nella Bibbia è noto il racconto ove la moglie di Lot, durante la fuga da Sodoma e Gomorra, contraddice l’ordine di Dio e voltandosi si trasforma in una statua di sale. 
Quanto è accaduto la scorsa estate non mi lascia più margini, si è chiusa per sempre una fase e voltarsi indietro a guardare di nascosto nella vita degli altri o, peggio, aspettare qualcuno che non c’è, non ha senso alcuno, se non l’autodistruzione. 
La proiezione del film interiore che è andato in onda nella mia mente fino a non molto tempo fa ha terminato i titoli di coda e anche i ringraziamenti. 
Anche se lo conosci, a scanso di equivoci, ecco il riassunto: il nostro incontro era la svolta delle nostre vite, l’incastro perfetto di due personalità che molto avevano sofferto in passato, fatte per stare insieme, baciate dal vero Amore e che avrebbero lottato fino alla morte per coronare il loro destino. Lo so, la trama di un romanzetto rosa per casalinghe disperate e per uomini romantici vissuti al tempo dello Sturm und Drang e votati alla sofferenza come il povero Werther. 
Bè, la trama di quel romanzo rosa è stato il Senso della mia vita per quasi 7 anni. 
Oggi, utilizzando retrospettivamente una lente fenomenologica, ovvero l’osservazione dei comportamenti, e non i miei desideri, il film che si consegna agli archivi della mia consapevolezza è fatto di ben altra pasta: è diventato un documentario. Il film era uscito dalla stanza dello sceneggiatore-bambino, il documentario esce da quella dello studioso adulto. 
La nostra relazione è finita non perché ha perso l’Amore, ma perché diverso era il sentimento reciproco che ci ha portato a vivere quell’avventura e diversi erano i bisogni personali che questo sentimento andava a soddisfare. 
Ora, compreso questo, io sono completamente libero di ripensare un’altra Vita e ti vedo con occhi diversi. Fino a che ho creduto tu mi amassi di un amore responsabile, era tremendamente difficile ricominciare e allontanarmi da te: avrei dovuto fare violenza a me stesso. Impossibile. Non ti avrei mai lasciata fino a che sapevo che nutrivi Amore per me. 
Per Amore adulto e responsabile s’intende quell’Amore in grado di farsi carico delle conseguenze di ciò che passione e sentimento comportano e che determinano la cura dell’altro, di sé e della relazione stessa. Il vero Amore non finisce, la passione e l’infatuazione si, quando non si accompagnano alla Cura, che è essenzialmente attenzione dell’altro e della relazione.
Esaurita la fase del fuoco, se non è sopraggiunta nel frattempo la Cura, la relazione muore, oppure diventa qualcosa di insano e distruttivo.
Oggi ho infine appreso, con tanta fatica, la consapevolezza che quella donna amata di nome Carmen esisteva solo nella mia mente, e che ciò che mi aveva profondamente deluso non era una persona reale, ma la somma di tante mie proiezioni e idealizzazioni che originavano a loro volta dalla mia storia personale e dai miei traumi irrisolti e quindi l’elaborazione del lutto dovuto alla perdita si può completare e sarà possibile davvero ricominciare a vivere in maniera più sana.
Oggi, rivolgendomi a quella donna di nome Carmen, quale donna realmente sia stata allora e lo sia adesso, dico che non ho motivo di serbarle alcun rancore o risentimento, né di nutrire sentimenti diversi dalla stima professionale e, nel contempo, di riconoscerle il residuale potere di evocare una Visione, in grado a sua volta di ricordarmi la Bellezza e la Potenza di un sogno che fu.
Ogni bene, chiunque tu sia." 
Terminata la lettura Rubèn si slacciò la cintura di sicurezza, si alzò e s'incamminò con passo svelto lungo il corridoio dell'aereo in direzione della toeletta. Entrò in quel vano ristretto che ben altre fantasie gli aveva scatenato in passato, probabilmente condizionato dalla visione di qualche "cult movie" o di qualche lettura malandrina. "Amore responsabile??" "Orfeo??? Euridice?? Lot?  Ma sei un coglione??? Stima professionale? Devo essermi completamente fuso il cervello?!?! o meglio, essere completamente rincoglionito!!"" Stracciò in tante piccole parti la lettera e le lanciò all'interno della tazza e "tirò" lo sciacquone facendo disperdere quei pensieri per sempre nel cielo francese: se c'era una cosa assolutamente priva di Senso, era stata proprio l'idea di scrivere quella lettera, ancor più della marea di cazzate che conteneva, a parte una: lui aveva ricominciato a vivere guardando avanti. Quel gesto fu liberatorio e mentre aveva udito il rumore sordo del risucchio un altro pensiero preciso si era acceso nella sua mente: se mai un giorno Carmen gli avesse voluto chiedere conto di una qualsiasi cosa, la risposta adatta sarebbe stata molto semplice: un bel "Ma Vaffanculo Va!" a peni polmoni dal profondo del cuore.
Con buona pace di Freud e di tutti i suoi variopinti seguaci.      
Le luci di Parigi ora stavano comparendo in lontananza alla vista dal suo finestrino.
Stava decisamente meglio. Anzi, stava proprio bene.







mercoledì 24 ottobre 2018

FURLANS ATOR PAL MOND (FRIULANI IN GIRO PER IL MONDO) - CHE SCOCCIATURA.

E' chiaro che, oggi più che mai e ancora di più in futuro, i media nazionali tradizionali - pubblici o privati - (carta stampata e TV) si occuperanno sempre e solo delle vicende relative alle squadre che vantano un bacino di utenza adeguato, relegando quelle a base regionale ad un ruolo poco più che ancillare e quindi con spazi dedicati infinitesimali.  E' la legge del mercato. Atalanta, Chievo, Genoa o Sampdoria compiono imprese sportive spettacolari vincendo su campi europei contro avversari importanti? Forse segnalazione in prima pagina in spalla e breve commento sui vari TG. Icardi o Cristiano Ronaldo si infortunano prima di una partita amichevole con la primavera? Titolo a nove colonne in prima pagina. Niente di nuovo si dirà. I giornali devono vendere e le TV soddisfare l'auditel, quindi è economicamente non solo logico ma persino opportuno che si dia la precedenza e tutto lo spazio alle notizie che interessano di più il maggior numero di utenti. Questo è diventato il giornalismo sportivo, ma non solo, di "alto livello". Certo, esiste ancora qualche sparuta voce fuori dal coro e qualche redazione "di nicchia", interessate più al "valore intrinseco" di una notizia che al suo "valore economico." Detto questo, negli scorsi anni, se a compiere le imprese sportive era l'Udinese, squadra che rappresenta una città che sfiora i 100.000 abitanti e un territorio - il Friuli, esclusa la Venezia Giulia - posto ai "confini dell'Impero"  e che non arriva al milione di anime, "gli spazi e le notizie" venivano date con malcelato fastidio, sfiorando a volta la censura. Certo, se questi 4 gatti si qualificano per la Champions al posto di Milan o Roma,  sai quante Gazzette si vendono di meno e quanto di meno sono interessati gli sponsor a vendere le loro pubblicità in radio o tv e quindi che danno per il sistema. Anche qui tutto logico e chiaro. Quello che mi è meno chiaro però è il trattamento riservato ai friulani rispetto ai loro pari livello, tipo Chievo o Atalanta; è vero che i veronesi hanno compiuto miracoli e gli orobici sono rimasti forse l'unico vivaio che sforna giocatori italiani di livello ma se confrontiamo le loro imprese con i dati relativi all'Udinese dal 1995/96 ad oggi, un osservatore meno attento al mercato - o un giornalista ancora interessato al "valore intrinseco" di una notizia o alla sua realtà fattuale, rimarrebbe sbalordito. Dal 1995/96 ad oggi i friulani hanno mantenuto la massima serie ininterrottamente per 24 campionati - cosa che solo le due romane e le due milanesi possono vantare - qualificandosi per ben 11 volte alle competizioni europee - tra queste tre volte ai preliminari Champions League e una volta ai gironi. Il tutto condito con 2 terzi, 2 quarti e 2 quinti posti in campionato, 4 semifinali di coppa Italia e la vittoria della coppa Intertoto nella stagione 2000/01. Sempre nello stesso arco temporale il club bianconero ha disputato in Europa ben 76 gare tra coppa UEFA, Europa League, Champions League e Coppa Intertoto, vincendo complessivamente 33 incontri, pareggiandone 16 e perdendone 27, raggiungendo una volta la fase a gironi della Champions League 2005/2006, una volta i quarti di finale (2008/2009) e due volte gli ottavi (1999/00 - 2005/06) di coppa UEFA e una volta gli ottavi in Europa League. Nelle varie partecipazioni ai tornei europei ha affrontato 35 squadre continentali - 4 polacche (Widzew Lodz, Legia Varsavia, Polonia Varsavia, Lech Poznan), 3 olandesi (Ajax, Nec Nijmengen, AZ 67 Alkmaar), 3 tedesche (Bayer Leverkusen, Borussia Dortmund, Werder Brema), 3 inglesi (Tottenham, Arsenal, Liverpool), 3 ceche (Slavia Praga, Sigma Olomouc, Slovan Liberec), 3 greche (Paok Salonicco, Panionios, Panathinaikos), 3 russe (Spartak Mosca, Zenit San Pietroburgo, Anzhi), 2 spagnole (Barcellona, Atletico Madrid), 2 austriache (Austria Vienna, Austria Salisburgo), 2 portoghesi (Sporting Lisbona, Sporting Braga) 2 francesi (Lens, Rennes) e rispettivamente 1 danese, bulgara, scozzese, bosniaca e svizzera (Aarlborg, Levski Sofia, Celtic Glasgow, Siriki Brijeg e Young Boys). In tutti questi incroci spiccano le vittorie alla Bayer Arena di Leverkusen (2-1 nei sedicesimi della UEFA 1999/00 con eliminazione dei tedeschi), il 2-0 al Borussia Dortmund nella tana del Westphalen Stadion che costa l'eliminazione ai tedeschi dalla UEFA 2008/2009, la vittoria per 1-0 allo stadio Alvalade sullo Sporting Lisbona che permette il superamento del preliminare e l'ammissione ai gironi della Champions League 2005/06, dove fino a 5 minuti dalla fine dell'ultima gara con il Barcellona i friulani erano qualificati agli ottavi di finale, la vittoria per 3-2 nel "tempio" Anfield Road contro il Liverpool nei gironi di Europa League 2012/13 e quelle casalinghe contro Atletico Madrid (2-0 gironi di Europa League 2011/12), Tottenham (2-0 gironi di Europa League 2008/09) e Ajax (2-1 nei sedicesimi UEFA 1997/98, benché non permetta il passaggio al turno successivo). Una storia lunga e oggettivamente splendida per una "piccola Patria" come quella friulana, nonostante il declino a partire dalla stagione 2013/14 e tutt'ora in corso in un modo che appare non invertibile nel breve periodo e forse mai. Un lungo e non effimero "miracolo" come invece lo furono gli scudetti del Cagliari e del Verona, o le estemporanee imprese di Atalanta o Chievo. Che andrebbe conosciuta di più e ancor meglio raccontata. Con un buon regista e un bravo promoter, forse venderebbe anche nel calcio business di oggi. O forse no. Detto da un tifoso e spettatore partecipe di questo miracolo che è già vintage, probabilmente è un'opinione che non vale nulla.        

martedì 23 ottobre 2018

STADIO FRIULI VS DACIA ARENA

Si diceva che lo stadio Friuli ante ammodernamento fosse un impianto vecchio, "freddo", dispersivo, che questa circostanza penalizzava la squadra di casa e che il nuovo impianto "all'inglese" avrebbe garantito punti in più. "Il nuovo impianto sarà il nostro fortino inespugnabile", si disse all'alba della stagione 2015/16, quella in cui la squadra di Colantuono fece l'esordio nel nuovo stadio, nel frattempo "brandizzato" come Dacia Arena. Nel vecchio, freddo e dispersivo Stadio Friuli in serie A dalla stagione 1979/80 alla 2013/14 vennero disputate 514 gare del massimo campionato, escluse le 5 stagioni in B, con questi esiti: vittorie dell'Udinese 231 (45%), pareggi 159 (31%) e sconfitte 124 (24%); in buona sostanza in quasi una partita su due i bianconeri ottenevano l'intera posta. Sorvoliamo la stagione 2014/15 disputata in uno stadio cantiere, 19 partite che hanno visto gli ospiti passare vittoriosi in 8 occasioni, dividere la posta in 5 e perdere in 6 gare e veniamo alla storia della Dacia Arena: fino ad oggi 62 gare di campionato con i "visitors" che hanno fatto bottino pieno ben 29 volte (47%), impattare sul pari in 12 match (20%) e lasciare la vittoria ai "friulani" nella "bellezza" di 21 partite (33%). Meno male che l'Udinese gioca dal 2015/16 nel nuovo stadio, altrimenti senza l'effetto "all'inglese" della curva nord, le vittorie sarebbero state ancora di meno. Conclusione: è singolare vedere come una società decida di investire sulla struttura quando le politiche di potenziamento non sono previste per la squadra. Un po' come se il proprietario di una trattoria in cui si mangia molto bene perché c'è un cuoco di qualità e gli ingredienti sono selezionati ad un certo punto decide di investire nel rinnovo dei locali, creando una struttura di lusso ma nel contempo assumendo cuochi di incerto valore e proponendo ai clienti cibi scotti, acerbi o avariati.
Non è che prima o poi i clienti diranno: "si, bello il posto, ma si mangia troppo di merda" e cambino dieta? 

martedì 16 ottobre 2018

PER RIDERE (MA NON TROPPO)


“VA BENE”
PENSIERO: "non va bene", significa solo che la discussione è terminata. Al momento.


“FA QUELLO CHE VUOI”
PENSIERO: è un test sulla tua capacità di sapere qual è il comportamento giusto.
Significa. “Dovresti conoscermi abbastanza bene per capire se approvo o meno. Che cazzo chiedi? Sei scemo?” Altamente sconsigliata e foriera di guai grossi la scelta del comportamento sbagliato.


“HO BISOGNO DI SPAZIO”
PENSIERO: stai assolutamente alla larga da me. Oramai ho capito che siamo vicini alla rottura definitiva.

“TI STAI VEDENDO CON QUALCUNO?”
PENSIERO: mi interessi, ma non voglio sprecare il mio tempo se c’è già qualcuno nella tua vita.
Per cui dimmelo subito (e ti ringrazio), altrimenti cosa cazzo aspetti a chiedermi il numero di telefono?

“SONO QUASI PRONTA”
PENSIERO: sarò pronta quando sarò pronta. Forse tra 10 minuti o forse tra un’ora. Tu intanto non rompere e trova qualcos'altro da fare per i cazzi tuoi.

“SAREBBE MEGLIO CHE TU NON LO FACESSI. POI VEDI TU.”
PENSIERO: se lo fai sarai single molto presto.

“DOBBIAMO PARLARE”
PENSIERO: io DEVO parlare, tu DEVI ascoltare.

“DI QUESTO NE PARLIAMO PIU’ TARDI”
PENSIERO: sono così incazzata con te adesso che non riesco neanche a pensare. Ho bisogno di un po’ di tempo per tenerti il muso e/o per pensare come cazzo faccio a stare ancora con te.

“NON VOGLIO ROVINARE LA NOSTRA AMICIZIA”
PENSIERO: Non mi vedrai mai nuda.

“E’ CARINO”
PENSIERO: Grazie per il regalo, è il pensiero che conta. Ma alla prima occasione lo scambierò con qualcosa che mi piace per davvero.

 “NIENTE”
 PENSIERO: Ma davvero sei così coglione da chiedermi cosa c’è che non va? Come se tu non la sapessi. E’ tutto quello non va!! Proprio TUTTO! Rincoglionito. Stai preoccupato. Stai molto preoccupato.

“TI PERDONO”
PENSIERO: Ho deciso che posso vivere nonostante quello che hai combinato, ma sappi che lo userò contro di te per tutti i giorni della tua vita.

“QUEL TIPO E’ UN GRAN FIGO”
PENSIERO: Penso che tu mi stia dando troppo per scontata e/o forse ti stati lasciando andare un po’ troppo ultimamente. Uomo avvisato!

SEI MOLTO SIMPATICO
PENSIERO: ma io ho bisogno di altro.

“MI DISPIACE”
PENSIERO: sto cercando di capire che momento di merda stati passando, ma non significa in alcun modo che sia ammettendo la mia colpa.

“SONO STANCA”
PENSIERO: stasera non voglio in alcun modo veder ciondolare il tuo pisello dalle mie parti. Presto andrò a dormire. Sentiti pure libero di uscire, basta che tu non voglia coinvolgermi.

“E’ UN PERIODO IN CUI SONO MOLTO INCASINATA”
PENSIERO: Non voglio darti un appuntamento né adesso, né mai. Perciò finiscila di chiamarmi. Per favore.

“NON SONO PAZZA!!!”
PENSIERO: SONO PAZZA!!!!

“CREDI CHE LEI SIA CARINA?”
PENSIERO: dimmi che io sono carina, e se lo farai subito senza guardare quell’altra, stasera… extra bonus garantito.

“NON PREOCCUPARTI”
PENSIERO: Ti ho chiesto già cinque volte di aggiustare quel fottuto lavandino e ancora non l’hai fatto?? Non posso contare su di te proprio per nulla.

“PRENDIAMO UN CANE?”
PENSIERO: Voglio avere dei bambini, ma ho paura di spaventarti troppo.

“FORSE”
PENSIERO: NO

“VEDREMO”
PENSIERO: NO

“SI”
PENSIERO: Forse, ma probabilmente no.

“NO”
PENSIERO: NO.
Ma anche qui, visto che siete uomini, comunque non capite ‘na mazza.

Libera traduzione da: “30 Things Women say and what they really mean” di Chuck Henderson, in Gentlemen 17/06/2015.

venerdì 12 ottobre 2018

TRASLOCO

Un altro trasloco. Ancora una volta la Vita, quell'ininterrotta sequenza di eventi a catena che nel suo caso gli pareva essere stata più indomabile di un cavallo selvaggio e più imprevedibile dei terremoti, lo stava portando all'ennesimo trasloco. Ruben non si ricordava più quanti fossero stati nel corso degli anni, sapeva solo che erano tanti e la sensazione era di non essere mai riuscito ogni volta a svuotare tutti gli scatoloni. Aveva abitato in mezzo mondo, ma probabilmente non si era mai mosso da dove ora si accingeva a ritornare, in una sorta di buen retiro: la destinazione era la sua casa d'infanzia di Pamplona, la stessa che molti anni prima non vedeva l'ora di abbandonare per sempre. "Il Cerchio si stà per chiudere".  Definitivamente? Lo sperava davvero, ma i giri e le evoluzioni erano state talmente tante ed impreviste in passato che non gli permettevano di considerarlo un fatto acquisito. Cercò allora di concentrarsi sul tanto lavoro che lo attendeva e spostò lo sguardo sulla montagna di libri e carteggi che ancora doveva impacchettare. Conosceva bene quella situazione, ma questa volta voleva agire in modo diverso e liberarsi da quella maniacale tendenza a conservare qualsiasi cosa avesse anche un piccolo aggancio con i momenti importanti già vissuti, "mania" che in passato gli aveva fatto riempire scatole su scatole di biglietti di treno, conti di ristorante, prenotazioni d'albergo, cartoline, carta da regalo, tovaglioli di carta su cui erano annotati numeri di telefono ora insignificanti o pensieri vari, cartine topografiche e turistiche di mezzo mondo. Tutto, pareva per Ruben essere stato importante. Lo spagnolo si era reso ben presto conto che, se ad ogni oggetto che prendeva in mano per essere imballato riandava con la memoria dove quella cosa lo riportava, quel trasloco non si sarebbe concluso neanche 15 anni dopo. Per questo motivo aveva fatto, con grande fatica, una scelta radicale: avrebbe buttato nei sacchi dell'immondizia tutto quel carteggio da museo e per rendere la cosa possibile, più che rapida e agevole, era ben determinato a prendere in mano quelle vecchie carte impolverate e, senza guardarle, buttarle nei sacchi neri della spazzatura, E così stava facendo, rivolgendo ogni tanto qualche occhiata di odio a quei sacchi di plastica che gli sembravano quasi le fauci di Saturno intento ad ingoiare i suoi figli. Ad un tratto, però, gli capitò tra le mani una busta chiusa con i lembi ancora intatti; non era affrancata e sul frontespizio c'era solo un generico "A Ruben", con una data: 12 ottobre 1980. Riconobbe la scrittura: era quella di suo zio Ramon, il "suo" adorato zio, che era passato a miglior vita proprio quando Ruben sentiva di aver più bisogno di "scontrarsi" con lui in interminabili discussioni, che andassero da tutto lo scibile umano alle questioni più strettamente personali. Zio Ramon era sempre stato la persona a cui Ruben, testardo e a volte persino cocciuto nel voler fare sempre di testa sua, prestava ascolto e addirittura qualche volta chiedeva consiglio. Non suo Padre, non il suo miglior amico, neanche la sua donna. Zio Ramon era stato il suo Mentore, con un unico, tremendo difetto. Se n'era andato troppo presto. "Che fortuna, Zio Ramon, quanti dispiaceri ti ho e ti sei risparmiato!" Rise fra sè e sè Ruben, prima di iniziare a scervellarsi sul come e perché quella lettera che lui avrebbe dovuto aprire il 12 ottobre di  "secoli" prima, era rimasta chiusa. Perchè il 12 ottobre? Cos'era usccesso il 12 ottobre 1981, quando Ruben aveva 15 anni? Non serviva pensarci troppo!! Bastava aprire la busta e scoprire l'arcano. Ruben lo fece con lentezza, nonostante la grande curiosità che lo stava animando. Aveva quasi paura che agendo troppo di fretta, la carta potesse polverizzarsi, portando per sempre con sé il mistero che celava.  Finalmente aprì i lembi della busta e vi estrasse la lettera. Si, era proprio zio Ramon, l'autore del testo: avrebbe riconosciuto quella scrittura anche se lo zio l'avesse vergata ubriaco. E poi solo zio Ramon aveva il vezzo di usare i numeri romani nello scrivere le date, cosa che spesso faceva imbestialire Ruben, che ogni volta urlava. "Perchè rendere complicate le cose facili????" sentendosi rispondere inevitabilmente "Perché è il modo più facile per farti imparare cose difficili". In mezzo alla lettera era nascosta una fotografia ingiallita che ritraeva zio Ramon più o meno all'età di 30 anni, nell'atto di tenere in braccio, sorridendo, un bimbo di pochi mesi dal viso imbronciato. Ruben riconobbe subito il luogo in cui era stata scattata la foto: la plaza de Toros di Pamplona nel giorno della feria di San Firmin. oltre Iniziò, con grande emozione a leggere.
    
"Pamplona, XII ottobre MCMLXXX 

… come probabilmente ti avranno già spiegato, con il Sacramento della Cresima oggi sarai tenuto a confermare gli impegni che mamma e papà, alla presenza dei padrini, presero dinanzi a Dio e alla Comunità dei Credenti per Te, che da poco eri arrivato, primo fra tutti, ad arricchire le nostre Famiglie Martinez e Fernandez. Oggi che Tu farai propri quegli impegni, che allora ovviamente non eri neanche in grado di percepire con i sensi della Tua tenera età, io mi trovo di nuovo al tuo fianco nella veste di padrino. Ne abbiamo fatta di strada tutti e due da quella prima volta, che ne dici Ruben? Quella foto è stata scattata nel luglio MCMLXVI, qualche settimana prima del Tuo Battesimo… 
E quante cose gioiose e tristi sono accadute nelle nostre Famiglie, nella nostra Comunità e nel Mondo!! Sicuramente oggi sei in grado di comprendere meglio ciò che significa prendere degli impegni di condotta e comportamento e, anche se forse ti sembrerà strano, anche io sono molto più consapevole di ciò che vuol dire assumersi un impegno innanzi alla Comunità in cui si vive. 
Nei tuoi confronti anch’io rinnovo in maniera più conscia l’impegno preso al momento del tuo Battesimo, ovvero quello di sostenerti ed aiutarti nel difficile ma entusiasmante percorso che ti aspetta negli anni a venire.. almeno fino a quando la salute me lo concederà. 
Vivere, caro Ruben, è una forma di arte: si cerca di modellare con la nostra testa, il nostro cuore e il nostro corpo il destino che ci è stato riservato; non abbiamo scelto i nostri genitori, non abbiamo scelto il posto dove siamo nati e la storia, gli usi e la religione della Comunità in cui viviamo e tutto questo disegna in modo importante il sentiero della nostra Vita. E durante il cammino su questo nostro sentiero ci muoviamo prima accompagnati dalle nostre famiglie, poi dagli amici e infine da tutti coloro che compongono la Comunità in cui viviamo. Non sempre è facile sentirsi in armonia con gli altri durante questo cammino: non sempre siamo disposti a comportarci come gli altri si aspettano che noi lo facciamo. Scoprirai che abbiamo bisogno degli altri e gli altri hanno bisogno di noi ma che anche vogliamo fare a modo nostro e spesso le regole e gli impegni che la Comunità ci ha fissato ci sembrano troppo stretti, ingombranti e vogliamo ribellarci. Scoprirai che è una bella lotta, Caro Ruben e che la sera quando si va a dormire in ogni caso si resta soli a dover decifrare le urla o i canti o i sussurri che ci vengono dal profondo del cuore. 
Ecco Ruben, io oggi con grande gioia rinnovo con Te i rispettivi impegni. 
Con gioia Ti dico che ogni volta che lungo il tuo cammino ti troverai in difficoltà ad ascoltare e a capire quello che la tua testa e il tuo cuore ti urla o ti sussurra, non aver paura a chiamarmi. 
Ovunque sarò io nel mio cammino mi avvicinerò a Te, e in ogni modo cercherò di aiutarti a capire… ogni volta che lo vorrai.

Zio Ramon"

Ruben era immobile, seduto sul pavimento con la schiena appoggiata ad una delle tante casse piene di libri che erano sparse in quella stanza. Piangeva a dirotto, singhiozzando. Il destino non aveva dato la possibilità a Zio Ramon di fare il padrino fino in fondo: era morto solo qualche anno dopo aver scritto quella lettera che chissà per quale strano gioco della sorte Ruben non era neppure riuscito a leggere. Maledetto destino! Ora, con la tempesta emotiva in corso di esaurimento, stringeva quella lettera con forza nelle sua mano destra, riflettendo su quella che doveva essere una dichiarazione di vicinanza e che invece era divenuto un postumo testamento spirituale. Di un'attualità tremenda.  
Dovunque si trovasse in quel momento, Ruben avrebbe chiamato zio Ramon. Ne aveva un bisogno estremo.

lunedì 1 ottobre 2018

PARTENZE

"Ti chiedo anche di portare pazienza se sono stato così duro di cervello in questi giorni, ma il mondo mi si è capovolto ed è sparita la Luce e quando s’inizia ad elaborare un lutto il torpore e l’incredulità sono un passaggio ineludibile. Della Vita si può dire veramente tutto e il contrario, ma certo non fa diminuire il senso di vertigine sapere che due persone che si amano e stanno bene insieme per risolvere i loro problemi non si devono più vedere. Non temere nulla per me e da me. Un giorno sono arrivato dal nulla e senza fare rumore tornerò a confondermi nel nulla. M’impegno ad avere la massima cura di ciò che è uscito da questa trasformazione e da questi anni che valgono tante Vite. A cuore aperto e sanguinante Ti ringrazio per quanto mi hai permesso di donarti, per quanto mi hai donato e Ti chiedo di perdonarmi per tutte le volte in cui hai dovuto soffrire per il solo fatto che io esisto e ti amo. Amarti è stata la scelta più onesta e coraggiosa che abbia fatto in Vita mia. Non potrò mai pentirmene, anche se le conseguenze di quella scelta mi dovessero portare alla rovina."
Ruben finì di leggere la lettera che Manuel, il giovane infermiere che si stava pendendo cura di lui, gli aveva chiesto di supervisionare; era da tempo immemore che un movimento emotivo così forte non lo agitava, da quando vecchio e stanco, solo e dimenticato dal mondo, giaceva in un letto dell'Ospizio pubblico di Aigues Mortes nel sud della Francia. Molte immagini si sovrapponevano ad un ritmo impetuoso nella mente, impossibile non rivedere il volto di Carmen. Non aveva più alcuna importanza, concluse: anche se la strada innanzi a lui probabilmente era molto vicina al capolinea, valeva ancora la pena di guardare solo avanti e non indietro, perché il senso di marcia comunque non sarebbe mutato. Fu proprio questo quello che disse a Manuel, ora che era in procinto di lasciarlo, vinto da una delusione amorosa e prossimo ad imbarcarsi su di un volo per il Canada francofono. Ruben si sentì ancora più solo, se possibile, ora che anche il giovane francese che lo aveva adottato come "Mentore" lo stava salutando, ascoltando quanto aveva ancora da dirgli prima di abbandonare l'Europa e di consegnare quella lettera alla sua ormai ex amante. Prima di salutarsi definitivamente Manuel rivolse a Ruben un'ultima domanda. "Cosa devo evitare come la peste, per riuscire ad andare oltre?" Lo spagnolo non ebbe dubbi su cosa rispondere al giovane francese. "Non odiarla, non permettere mai di farti possedere completamente da questo Demonio; a suo tempo conobbi cosa vuol dire sentire la sua costante presenza alle spalle e non smisi mai di combatterlo fino a che me ne liberai del tutto. Solo da quel momento mi fu possibile accogliere di nuovo l'Amore."

mercoledì 12 settembre 2018

AMMINISTRATIVI SPARSI NEL MONDO: UNITEVI!

Si dice spesso che il ruolo del portiere nel calcio sia fatto per i matti oppure per i più scarsi, quelli che proprio non possono essere utilizzati in altri ruoli. Difficile poter smentire questo adagio. Chi, sano di mente, potrebbe scegliere coscientemente di fare il portiere? Al minimo errore che commetti nel 90% dei casi la tua squadra prende un gol, magari perde la partita e finisci alla gogna, mentre ogni parata che fai, magari anche la più difficile, altro non fai che fare il tuo dovere. A parità di talento il tuo ingaggio sarà sempre inferiore a quello di una punta, che magari sbaglia tutto per 90 minuti, ma poi nel recupero segna il gol della vittoria e diventa un eroe. Pari un rigore? E' chi ha tirato che ha sbagliato. Un tiro entra nel sette? Forse se ti posizionavi meglio e partivi in anticipo la potevi prendere. Sei la riserva del titolare? probabile che tu non veda il campo per tutto il campionato e se finisci in panchina, perché fuori forma per un periodo, altrettanto probabilmente il campo non lo vedi più e a fine stagione ti conviene cambiare aria. Se trovi chi ti prende. Pensiamo poi alle partite nei campetti di periferia, quelli cantati da Francesco De Gregori ne "la leva calcistica della classe '68" per intenderci. I più forti facevano le squadre, e non erano mai portieri. Anzi, non c'è mai nessuno che voglia andarci in porta tra i ragazzini: ci finiscono solo quelli più scarsi o quelli per i quali ricoprire quel ruolo rappresenta l'unico modo per poter partecipare alla vita del gruppo. Eppure senza portiere, non c'è gioco, non c'è partita.  No Goalkeeper, no party. Credo che nessun ruolo al mondo sia così difficile, indispensabile e così mal ricompensato, se non quello del portiere. Non fare mai il portiere, se non sopporti l'ingratitudine. E la solitudine.Se ci spostiamo dal terreno di gioco ed entriamo in azienda forse possiamo trovare chi condivide la sorte dell'estremo difensore calcistico. L'amministrativo. Senza dubbio. Chi è l'amministrativo? E' il contabile, il rendicontista, chiunque si deve interfacciare con le amministrazioni pubbliche per le pratiche obbligatorie. Quello che, quando sbaglia, l'errore si può immediatamente misurare e che nel 90% dei casi mette a rischio di sanzioni la propria azienda. Quello che quando termina una pratica, anche la più complessa che esista, altro non ha fatto che fare il suo dovere. E solo l'amministrativo conosce quanto è grande la complessità di qualsiasi pratica al giorno d'oggi. Solo lui, appunto. E quindi in azienda finisce per vivere nella solitudine, passando spesso per essere "quello che fa problemi", quello che "rallenta le cose", quello che non "vuole innovare". Insomma quello che, a poterlo fare, si manderebbe a casa domani mattina. O la sera stessa. Quello che si pensa di poter sostituire senza problemi, perché tanto, il mondo è pieno di passacarte e/o contabili a spasso. L'amministrativo non ha il fascino del "commerciale" o di chi "progetta": sono quelli che portano i ricavi in azienda, sono loro che fanno i "volumi" e quindi gli utili, quindi sono loro gli "indispensabili". L'amministrativo non ha neppure l'aura del "mago" del tecnico che è responsabili di "fare" , "coordinare", creare i processi produttivi e quindi permette in concreto la realizzazione dei prodotti o l'erogazione dei servizi. Gli amministrativi arrivano sempre alla fine, quando devono pagare i conti dei debiti contratti dagli altri o risolvere i guai fatti a insaputa dalle altre funzioni aziendali. E se lo fanno, fanno esclusivamente il loro dovere. E se non lo possono fare, sono degli incapaci. E magari si prendono anche la colpa di non essere stati in grado di prevedere per tempo che il bilancio avrebbe fatto cagare. Scusate l'uso della lingua di Moliére.
E a parità di talenti, saranno sempre pagati meno del commerciale o del tecnico. Come nel calcio, se non fai gol non vinci le partite e quindi un centravanti guadagnerà sempre più di un portiere a parità di talento (ma spesso anche in inferiorità dello stesso).
Ma così, come nel calcio non c'è gioco senza il portiere, l'azienda non può stare sul mercato senza gli amministrativi. Oggi, più che mai. Oggi, più che mai, i rischi per le aziende sono dati non solo dal mercato, ma soprattutto dalla loro capacità di rispettare le norme. E quell'attitudine e quelle competenze, ce l'hanno solo gli amministrativi. Per natura e per insana e robusta costituzione. Quelli che, probabilmente non sani di mente o incapaci di fare altro, sono in grado di sopportare l'ingratitudine e riescono a vivere pacificamente lontano dai riflettori. Quelli che, in un'ultima analisi, fanno solamente il loro dovere.
Consoliamoci, cari colleghi amministrativi, con il pensiero che, anche se ci si ricorda dell'Olanda di Cruyff, del Brasile di Pelè, della Francia di Platinì e di Zidane, spesso le squadre vincenti non potevano e non potranno mai prescindere da un bravo portiere e che spesso il portiere diventa il capitano della squadra e in seguito anche un valido allenatore.
In fondo, la più bella e vincente Italia di sempre, ce la ricordiamo come l'Italia di Dino Zoff, l'archetipo del ruolo e del capitano.
Così come nelle aziende che sanno resistere e domare i rischi dei mercati, i loro board non prescindono mai da figure forgiate nell'amministrazione. Che sanno gestire l'ingratitudine, che non hanno bisogno di lustrini o medaglie per fare il loro "sporco lavoro" e sanno convivere con il peso del "se sbaglio prendiamo gol e perdiamo la partita."  E con la solitudine. Perché forse, come accadeva da bambini, ci ritengono troppo scarsi per fare i centravanti.   

giovedì 6 settembre 2018

GRAZIE OMERO, GRAZIE SIR WINSTON E ODISSEO SUPERSTAR

"Ancora una volta nel posto giusto ma nel momento sbagliato!" quel pensiero sorse d'improvviso con la lo stesso effetto di mille scorpioni infilati senza preavviso sotto lo camicia, mentre gli occhi di Ruben fissavano immobili i mille colori delle centinaia di turisti che sciamavano festosi davanti a lui, seduto sui tavolini del caffè Florian, in piazza San Marco. Tutto quel cacofonico vociare, unito al garrito dei gabbiani che planavano come Stukas ovunque scorgessero, uomini o cose che fossero, qualcosa di commestibile, assumeva per il suo udito solo un suono timido e soffuso. Le sue reti neurali erano tutte assorbite dalla necessità di fronteggiare il disturbo psichico ed il malessere fisico che quel pensiero aveva scatenato. Tutto era nato quando aveva avuto la malaugurata idea di controllare la posta elettronica sul suo smartphone, mentre sorseggiava l'abituale bicchiere di vino rosso e osservava, estasiato come la prima volta che era accaduto molti anni prima, la miscellanea di stili e di ornamenti architettonici che componevano la basilica marciana e i suoi pensieri già viaggiavano verso i siti del lungo viaggio nel Mediterraneo che il giorno dopo sarebbe iniziato con l'imbarco sulla nave Perseo. Quel dannato schermo luminoso rifletteva la notizia che per nulla al mondo avrebbe voluto leggere: la sua vita, di colpo, era finita sotto scacco di una minaccia più potente e pericolosa della bomba atomica sganciata ad Hiroshima. Dopo che i mille scorpioni erano scesi lungo il filo della colonna vertebrale pungendolo poi in ogni punto della schiena muovendovi a raggiera per un tempo che sembrava infinito, Ruben era riuscito a far breccia nel blocco emotivo e ad abbozzare un pensiero speculativo. "Acrisio! Laio! eccomi tra voi! Più progetti, pianifichi e più lotti per allontanare il destino che non desideri accettare e più gli semplifichi il suo sventurato decorso!" Aveva voglia di morire. Di dissolversi, di sparire per sempre. Come un automa si alzò in piedi senza bere quel pregevole cabernet souvignon, che ancora rimaneva nel calice ma che adesso gli pareva più sgradevole del fiele. Senza fiatare pagò alla cassa l'indecente conto, si avviò verso il bacino di San Marco e una volta passate le colonne dell'antica chimera e di San Teodoro volle proseguire il suo cammino oltre la linea del molo, per mettere in atto quel pensiero nichilista e sparire davvero in quel mare nel quale, anni prima, avevano preso avvio gli eventi infausti e che pochi istanti prima si erano manifestati in tutta la loro potenza distruttiva. Quell'uomo elegante, che si era levato il panama dal capo e procedeva con occhi spenti e vuoti, andatura lenta e regolare, in linea retta, verso il mare aveva iniziato ad attirare le attenzioni anche dei distratti turisti. Quando fu chiaro cosa stava per accadere, qualcuno iniziò a urlare. Ruben non sentiva nulla, i suoi sensi sembravano essersi spenti e, come per rispondere ad un ancestrale volere, le sue gambe lo stavano portando dalla terra al salto nel mare. Ora i suoi occhi percepivano solo il mare e in lontananza, sfuocata, la bianca sagoma della facciata palladiana di San Giorgio Maggiore, quando improvvisamente la visuale venne interrotta dal passaggio di un piroscafo. Questo stacco inatteso nelle immagini diedero un piccolo sussulto alle reti neurali di Ruben, che fino a quel momento sembravano cadute in uno stato di off-line. "Eolo!" lesse Ruben sul fianco di quel barcone. Si fermò. Di colpo. Ancora un passo e sarebbe finito in acqua, anche se lui non lo sapeva, perché lo sguardo non si era mai mosso dalla linea dell'orizzonte. "L'Odissea, Certo!" Quel nome letto su quella barca lo aveva trascinato dentro all'opera letteraria che lui adorava più di ogni altra e a quell'episodio in cui il suo eroe preferito, Odisseo, dopo mille peripezie era infine giunto alla vista della "petrosa" Itaca grazie all'otre dei venti donatogli da Eolo, dio dei venti. "Proprio come me!" pensò Ruben. "Odisseo stava già assaporando il tribolato e desiderato ritorno a casa, quando quei rincoglioniti dei suoi compagni decisero slealmente di contravvenire ai suoi ordini e per bramosia di ricchezza cercarono un presunto tesoro nell'otre, liberando così i venti che provocarono una tremenda tempesta che poi li spazzò via tutti, riportando Odisseo in mezzo al mare, naufrago e senza coordinate." Odisseo, nonostante l'ennesima tremenda sciagura, non si perde d'animo e riprende la navigazione in cerca di Itaca. Ogni volta che il dio Poseidon gli ostacola l'impresa con tremende prove, lui non demorde, cade e si rialza. Non molla mai. Ruben in quel momento si sentì una cosa sola con il suoe Eroe: con l'aiuto di Μῆτις sarebbe riuscito di nuovo e sempre a trovare un filo conduttore, pur nella consapevolezza che non sarebbe sempre stato più possibile, da quel momento, trovare soluzioni indolori e capaci di evitare anche profonde cesure e cambiamenti di stato e contesto. Si voltò e di nuovo i suoi occhi videro i mille colori dei turisti e sullo sfondo, nitida, la torre dell'orologio di piazza San Marco. Le decine di persone che si erano avvicinate a lui, impaurite per quello che sembrava essere il gesto di un folle, furono rassicurate dai suoi sorrisi e ripresero le loro attività spensierate come se nulla fosse accaduto, volgendo nuovamente i loro sguardi sugli schermi dei loro smartphone. Se Odisseo aveva resistito per 10 anni lui lo avrebbe anche superato se necessario: "qualcosa" era scattato potente dentro il cervello di Ruben, che si sentiva ora persino eccitato dall'opportunità che la vita gli stava dando, non solo di dover emulare il suo Eroe preferito da sempre, ma addirittura di poterlo battere, quanto ad uso di fortitudo, intellectus, sapientia, scientia, pietas, consilium e timor Dei. Ora il suo destino gli era chiaro e soprattutto più accettabile. Non sarebbe caduto nello scoramento, nel vittimismo o peggio di tutto, nella passività. Aveva ritrovato lo spirito battagliero. Non avrebbe mollato, voleva combattere fino all'ultimo giorno che gli sarebbe rimasto, non avrebbe ceduto. Mai. Non l'avrebbero mai avuto prigioniero. Sarebbe morto con le armi in pugno, nel caso in cui la furia di Poseidone alla fine fosse risultata troppo potente per i suoi mezzi umani. Ripensò anche alle parole di Winston Churchill, pronunciate nel giugno del 1940, quando la Francia aveva capitolato, l'URSS aveva un patto di non belligeranza con la Germania e gli USA erano decisi a rimanere neutrali e la sua Inghilterra era rimasta sola contro Hitler che gli offriva la pace: " Non ho altro da offrirvi che sangue, fatica, lagrime e sudore». Abbiamo di fronte a noi un cimitero dei più penosi. Abbiamo di fronte a noi molti, molti lunghi mesi di lotta e di sofferenza. Se chiedete quale sia la nostra politica risponderò: di muover guerra, per terra, mare e aria, con tutto il nostro potere e con tutta la forza che Dio ci dà, di muover guerra contro una mostruosa tirannia, mai superata nell’oscuro deplorevole elenco dei delitti umani...  Combatteremo in Francia, combatteremo sui mari e gli oceani; combatteremo con crescente fiducia e crescente forza nell’aria. Difenderemo la nostra isola qualunque possa esserne il costo. Combatteremo sulle spiagge, combatteremo sui luoghi di sbarco, nei campii nelle strade e nelle montagne. Non ci arrende­remo mai."  Ecco, se fosse stato necessario Ruben avrebbe superato anche Sir. Winston. Nel frattempo si sarebbe goduto tutte le bellezze che la città di Carlo Goldoni e Giacomo Casanova potevano offrirgli quell'ultima sera prima di riprendere la strada verso il mare di guai che lo aspettava nel prossimo futuro. Tornò al caffè Florian, si sedette ad un altro tavolo, e per incominciare ordinò un gin tonic; volse gli occhi al cielo e rivolse il suo più profondo ringraziamento ad Omero, all'armatore della motonave Eolo battente bandiera della Serenissima e infine a sé stesso, per aver letto e riletto allo sfinimento l'Odissea.     

giovedì 23 agosto 2018

OUTSIDER, TRIONFO E MISERIA

Chi è un outsider? Il termine in lingua inglese, importato nella nostra lingua senza che esista un sinonimo di matrice latina, nasce dalla fusione di due vocaboli di origine sassone e nordica ut (fuori) da cui poi "out" e sida (il fianco di una persona ovvero la parte più lunga di un oggetto) da cui poi "side"; letteralmente dunque "outside" esprime il concetto di chi o di cosa si trova ad essere distaccato dal centro, dal contesto principale: non solo genericamente out da qualcosa, ma out dal contesto più importante o protetto per chi in quel momento ci sta parlando. Dell'uso del termine outsider - "chi" è, appunto, "outside" - come nome in lingua inglese si ha notizia nel 1836 per definire i cavalli fuori dalla lista dei favoriti per la vittoria in una corsa e solamente nel 1907 si ha notizia di un uso in senso figurato per definire "a person isolated from conventional society". Il dizionario dell'Enciclopedia italiana Treccani infatti così definisce oggi OUTSIDER: usato in ital. al masch. e al femm. – 1. Nel linguaggio sport., chi abbia conseguito la vittoria in una gara o in un campionato, pur non trovandosi fra coloro che erano considerati come probabili vincitori (in origine, la parola era limitata alle gare ippiche, poi si è estesa anche ad altri sport). 2. Per estens.: a. Chiunque riesca ad imporsi, in politica, nel lavoro e sim., nonostante non sia tra i favoriti o si trovi in una situazione marginale. b. Chi opera in campo letterario, artistico e sim. al di fuori di ogni scuola o movimento. c. Nel linguaggio econ., impresa che resta fuori da un consorzio o cartello costituito fra imprese dello stesso ramo di produzione.
Ho da sempre nutrito naturale, viscerale simpatia per gli Outsider in tutti i campi: nel calcio degli anni '80 del secolo scorso ho vissuto il trionfo di due squadre che hanno incarnato alla perfezione questa figura retorica: l'Italia di Enzo Bearzot, campione del mondo del 1982, ed il Verona di Osvaldo Bagnoli, campione d'Italia nel 1985.
Queste due vicende umane incarnano alla perfezione tutta la parabola dell'Outsider, tanto nella sua grandezza quanto nella sua miseria; si, perché essere Outsider da un lato porta per un attimo a raggiungere vette inarrivabili contro ogni pronostico o meglio, sempre per seguire gli inglesi, against all odds, dall'altro poi ti fa altrettanto velocemente rientrare nei ranghi di ciò che era segnato dal proprio destino originario. Si pensi proprio alla discesa verticale degli uomini di Bearzot e Bagnoli immediatamente dopo, rispettivamente eliminati dal campionato europeo 1984 senza vincere una partita per un anno e alle soglie della zona retrocessione l'anno dopo per poi addirittura fallire come società: nel lungo periodo, sono sempre i favoriti di partenza - i predestinati - che reggeranno il potere o che vinceranno di più. 
Ecco qui la faccia triste dell'Outsider, il conto salato da pagare agli Dei per essere andati contro il proprio destino tessuto dalle Parche, dopo aver raggiunto l'Olimpo - con  pieno merito ma senza destino: quello di trovarsi in una condizione peggiore di quando era iniziata la sfida alla sorte e si era semplicemente outside. Edipo, Laio e Acrisio, per citarne alcuni tra i tanti, conoscono il loro terribile destino ed in ogni modo cercano di allontanarlo: più si ingegnano e si ostinano e più inconsapevolmente gli corrono incontro.
Conclusione: non c'è cosa più bella nella vita che sfidare il proprio destino e spesso farsi beffe di lui, con la consapevolezza che, però, alla fine gli faciliteremmo comunque la strada e la sua vittoria finale. Che ci piaccia o no.

martedì 31 luglio 2018

RITORNO AL FUTURO - PARTE SECONDA

Mosca, dal nostro corrispondente. 
Tra i documenti ancora conservati negli archivi del celeberrimo ex servizio segreto per la sicurezza nazionale dell’Unione Sovietica (KGB) e recentemente resi accessibili ai ricercatori dal governo della Federazione Russa, un fascicolo ha destato sconcerto tra gli studiosi. 
Il plico, contrassegnato con la sigla AK-47, contiene i verbali di un interrogatorio tenutosi nel febbraio del 1984 nei confronti dello scienziato georgiano Anatoly Kinkhadze, misteriosamente scomparso nei mesi successivi. Il famoso fisico delle particelle all’epoca era a capo di un progetto denominato “Pojezdky Vremenami” (Viaggio nel Tempo) che aveva lo scopo di studiare la possibilità di realizzare, attraverso l’utilizzo di acceleratori nucleari, lo spostamento della materia nello spazio- tempo. Dall’esame dei documenti resi noti parrebbe che l’equipe dello scienziato fosse riuscita nell’intento già verso la fine del 1983 e che Kinkhadze si fosse prestato per diventare egli stesso il primo viaggiatore nel tempo della storia dell’umanità. 
Nel fascicolo è riportato il testo dell’interrogatorio, avvenuto in gran segreto il 2 febbraio 1984 nel palazzo della Lubjanka alla sola presenza dell’allora già molto malato segretario del PCUS Yuri Andropov e dei vertici KGB; lo scienziato avrebbe dichiarato di aver viaggiato nel tempo e di “ritornare” dal 15 febbraio 2009, solo 25 anni più in avanti. 
La lettura del verbale ha dell’incredibile: inizialmente allo scienziato sarebbe stato chiesto qual era la situazione del mondo e dell’economia capitalista, chi fosse a capo dell’acerrimo nemico (gli U.S.A.), chi ricoprisse la massima carica russa e chi fosse il Presidente della Repubblica Italiana. 
Kinkhadze riferì che l’economia capitalista era ormai giunta al tracollo, negli Stati Uniti c’era un Presidente di colore e che si stavano nazionalizzando persino le banche mentre in Italia il Presidente della Repubblica era il vecchio compagno Giorgio Napolitano ed al vertice della nazione russa c’era un certo Vladimir Putin, quello che al momento era solo un oscuro e zelante capitano del KGB. Nella stanza della Lubjanka pare che il segretario Andropov, udite quelle parole si sia commosso e dopo aver abbracciato i presenti, abbia chiesto che venisse portata una bottiglia di Vodka per brindare al successo mondiale della Rivoluzione comunista. 
Solo dopo molte insistenze lo scienziato georgiano riuscì a convincere la compagnia festante ad udire anche il resto del racconto: tanto che cosa poteva mai raccontare di più interessante e meraviglioso quel prossimo Eroe dei Popoli dell’Unione Sovietica? Chi aveva vinto le future edizioni della Coppa del Mondo di calcio? Nell’ordine e con crescente emozione Kinkhadze d’un fiato raccontò che nel febbraio 2009 l’Unione Sovietica non esisteva più dal 31 dicembre 1991 e che da quella data tutte le sue Repubbliche si erano proclamate stati indipendenti e sovrani , che il partito comunista era stato posto fuori legge, che il Patto di Varsavia era stato sciolto qualche anno dopo, che la C.E.E., divenuta Unione Europea, comprendeva 27 paesi tra cui Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria, Slovenia, Bulgaria, Romania, Lettonia, Lituania ed Estonia e diversi dei quali erano addirittura membri della N.A.T.O.; la presidenza di quell’Unione era momentaneamente retta dalla Repubblica Ceca, in quasi tutta l’Europa era in vigore un’unica moneta denominata Euro gestita da un’unica Banca Centrale ed un qualsiasi cittadino degli stati dell’Unione poteva recarsi in autovettura da Lisbona in Portogallo sino a Tallin in Estonia senza controlli di confine. Il muro di Berlino era stato abbattuto pacificamente dalla folla già nel 1989 e la Germania Ovest si era annessa la Germania Est dall’ottobre del 1990. Per non dire di come poi la tecnologia aveva modificato lo stile ed i modi di vita delle persone…chiunque nei paesi economicamente sviluppati possedeva un telefono portatile con cui in ogni momento poteva dialogare audio e video in tempo reale con il resto del mondo. 
Nella stanza pare che il clima di festa si fosse trasformato lentamente in un pesante silenzio, i presenti si guardavano delusi e sconsolati: la tanto attesa prova incontrovertibile che la Rivoluzione alla fine aveva trionfato ancora non c’era, quello scienziato si era evidentemente fuso il cervello durante l’esperimento ed aveva solo raccontato una marea di sciocchezze senza senso. 
Così il povero Anatoly Kinkhadze fu prima rinchiuso in un manicomio di Stato in una non meglio precisata località del Nagorno-Karabak e poi probabilmente rimase vittima degli psico- farmaci che gli furono somministrati in dosi sempre più massicce, vista l’insistenza con cui sosteneva la veridicità di quello a cui diceva di aver assistito. Il KGB fece “sparire” nei mesi seguenti tutti i membri dell’equipe di Kinkhadze coinvolti nel progetto e distrusse tutte le apparecchiature, gli studi e i calcoli utilizzati, nonché ogni prova dell’accaduto. 
Quanto riportato getta anche una sinistra luce sulla morte del segretario Yuri Andropov avvenuta il 9 febbraio 1984, una settimana esatta dopo aver assistito a quell’incredibile interrogatorio; tra le carte del leader scomparso fu rinvenuta la seguente poesia: “Siamo solo di passaggio in questo mondo, sotto la Luna / La Vita è un attimo. Il non-essereè per sempre / La Terra ruota nell’Universo / Gli uomini vivono e svaniscono…”. 
Sicuramente se Anatoly Kinkhadze fosse capitato nel futuro anziché nel febbraio 2009 nel giugno 2018, forse lo shock per il “povero” Andropov e i suoi sodali sarebbe stato minore, considerando che il presidente degli Stati Uniti è Donald Trump, il presidente italiano “l’ex democristiano” Sergio Mattarella, che quell’incredibile Unione Europea senza confini e dazi doganali era alle prese l’uscita della Gran Bretagna e che in molti stati si chiedeva a gran voce la fine di quell’altrettanto futuristica moneta unica con il ripristino dei controlli alle frontiere e che era stata già realizzata la costruzione di nuovi muri di filo spinato per evitare ingressi indesiderati. Per non dire dei dazi imposti dagli Stati Uniti al commercio mondiale con le ovvie ritorsioni degli altri paesi. Oggi, rispetto al 2009, il mondo avrebbe dei connotati molto più rassicuranti agli occhi di chi nel 1984 era a capo di un sistema poliziesco senza pluralismo politico. 

La domanda finale è, se gli studiosi saranno in grado di confermare quanto contenuto nel fascicolo AK-47, quale sorte oggi attenderebbe un novello Anatoly Kinkhadze di ritorno dal 31 luglio 2034?

lunedì 30 luglio 2018

LIBERI DI IMPRECARE

Presso i popoli latini il concetto di libertà in tutte le sue varie accezioni (politica, di pensiero, di parola ecc.) è espresso da un unico vocabolo che deriva dal termine latino LIBERTAS a suo volta originato dal nome LIBER che anticamente serviva per identificare, tra le altre cose, i figli di colui che aveva lo status di pater familias e godeva dei diritti di civis romanus. 
E così abbiamo LIBERTE’ in francese, LIBERTAD in spagnolo, LIBERDADE in portoghese, LIBERTATE in rumeno e naturalmente LIBERTA’ nella nostra lingua madre. 
Il concetto di LIBERTA’ nei popoli latini trova quindi matrice comune in uno status personale che attraverso l’appartenenza alla cellula di quella società, LA FAMIGLIA, garantisce l’esercizio delle facoltà personali che sono permesse dal PATER FAMILIAS in prima battuta e dal DIRITTO codificato dall’AUTORITA’ STATALE poi. 
Alla luce di ciò, qui se da un lato il concetto di LIBERTA’ si origina da una situazione in cui l’individuo è ammesso a godere di pieni diritti rispetto a chi nella stessa società non ne gode (gli schiavi) o ne gode solo parzialmente (gli schiavi affrancati) dall’altro tale godimento trae origine dalla concessione del PATER FAMILIAS prima e dall’autolimitazione del potere del sovrano poi. 

Anche nei popoli slavi il concetto di Libertà nelle sue diverse declinazioni trova espressione con un unico termine: SVOBODA invariabilmente in russo, ceco, slovacco, sloveno, bulgaro, SLOBODA in croato e serbo e WOLNOSC in polacco. 
L’origine del vocabolo è SWOBHO-DHYOS, termine composto in slavo antico di derivazione indoeuropea che indicava il “membro di una stessa tribù” e quindi come tale, soggetto agli usi della “singola tribù” per ciò che attiene l’esercizio dei diritti e l’assolvimento dei doveri. 

Nelle lingue germaniche e scandinave il termine che qui ci interessa è unico per definire il concetto: FREIHEIT in tedesco, FRIHET in norvegese e svedese, FRIHED in danese, FREEDOM in islandese e deriva dall’antico sassone FREIHALS che indicava coloro che avevano libero il collo, ovvero che non erano proprietà di alcuno e facevano anche qui parte a pieno titolo dell’unità cellulare in senso normativo, che non era la Famiglia ma bensì la tribù. 

L’unica popolazione che utilizza due termini diversi per riferirsi alla Libertà è quella inglese, ovvero LIBERTY o FREEDOM; se i due termini siano da considerare sinonimi o meno è questione ancora controversa e assai dibattuta tra gli studiosi di linguistica. 
Mi limito a riportare che l’esistenza dei due termini si spiega con la peculiarità della lingua inglese che per ragioni storiche si trova composta per il 30% di termini derivanti dal sassone antico, dal 60% dal franco-normanno e dal restante 10% dal greco antico e dal latino medioevale; evidente che il termine LIBERTY risulta dall’importazione del franco-normanno a base latina e FREEDOM di stretta derivazione sassone-scandinava. 
Come abbiamo notato il diverso significato originario del termine LIBERTA’ nel mondo latino rispetto a quello slavo-sassone, sembra dar maggior credito alla teoria per cui i tue termini in lingua inglese descrivano sfumature diverse a seconda della classe sociale che utilizzava il vocabolo: la classe nobiliare che usava la lingua di corte (ovvero il franco-normanno e il latino) ed il popolo che utilizzava il sassone. 

Concludo queste riflessioni con una veloce, ma credo significativa, puntata nel mondo arabo, ove l’unico termine in qualche modo traducibile con Libertà è HORRIYAH che significa in realtà AFFRANCAMENTO in senso giuridico; infatti il vocabolo HORRIYAH è comparso per la prima volta nel testo di un accordo commerciale datato 1774 intervenuto tra russi e turchi in riferimento a schiavi che venivano emancipati (Hurr). 
A tale proposito giova ricordare le tremende difficoltà che nel 1799 ebbero i comandanti dell’armata napoleonica in Egitto per spiegare invano ai notabili locali il reale significato e la portato di uno dei tre pilastri che costituiscono il trinomio della rivoluzione francese.

Personalmente, al di là di tutte le considerazioni che si possono fare sulla scorta di quanto suggerito dall'etimologia, la più bella, chiara ed efficace definizione di LIBERTA' che io abbia mai incontrato è quella vergata dal nostro ex Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, che dicendoci con parole semplici cosa NON è un uomo libero ci porta dritti dritti al cuore della questione ben oltre ogni dotta disquisizione storica, giuridica, linguistica o metodologica :  

La libertà senza giustizia sociale può essere anche una conquista vana. Mi dica, in coscienza, lei può considerare veramente libero un uomo che ha fame, che è nella miseria, che non ha lavoro, che è umiliato perché non sa come mantenere i suoi figli e educarli? Questo non è un uomo libero. Sarà libero di bestemmiare, di imprecare, ma questa non è la libertà che intendo io.

SANDRO PERTINI   (SanGiovanni di Stella (SV), 25 settembre 1896 - Roma, 24 febbraio 1990)

venerdì 27 luglio 2018

AMORI E OSPITALITA' IN SALSA FRIULANA


Se vuoi comprendere un popolo, inizia a studiarne il linguaggio, perché al suo interno si celano i suoi valori e la sua cultura. E quando faccio questa considerazione, da friulano "purosangue" da almeno 4 generazioni, mi vengono i brividi quando rilevo che in quella che era la lingua madre dei miei genitori e dei loro avi non esistono la parola "AMORE" e la parola "OSPITE": "amor" è recepimento dell'italiano amore e viene scarsamente utilizzato nella lingua parlata; peggio ancora con "ospit", che proprio non si può sentire! Amore è tradotto con: "ti vuei ben" - ti voglio bene. Si capisce subito che questa espressione è completamente vuota di qualsiasi contenuto che possa fare anche un lontano cenno al "sentire" dell'amor cortese o dell'amore romantico. Scordiamoci nella "Piccola Patria" nel corso dei secoli e dei secoli un appassionato "ti amo" in "marilenghe": anche gli eventuali sostenitori e praticanti dello Sturm und Drang, ne erano privi degli strumenti linguistici. Con la questione dell'Ospite la situazione si fa ancora più "ostile". Semplicemente non esiste e non viene neanche mutuata da altra lingue, con buona pace di Zeus che poneva l'ospitalità quale primo dovere di tutti i mortali, puniti in maniera tremenda quando ne violavano la norma.Esiste però il termine "FOREST", con l'accento ben marcato sulla E - che in italiano possiamo avvicinare a Forestiero: ben diverso da Ospite; FOREST è quanto di più lontano esista dal concetto di persona che viene accolta con il piacere dell'ospitalità - appunto.
FOREST indica a priori una persona pericolosa e indesiderata e della quale liberarsi prima possibile.
Friulani introversi, freddi, cattivi e inospitali dunque? Possiamo dire friulani segnati dalla sorte di aver occupato un territorio che nei secoli dei secoli è stato la prima porta d'accesso per tutti coloro che scendevano nella penisola italica e molto raramente lo facevano con intenzioni pacifiche. Anzi. E friulani popolo legato alla terra e che ha sempre trovato conforto alle bizze della natura e degli uomini nella Chiesa cattolica, nei suoi precetti e nelle sue tradizioni, che non proprio vanno in "simpatia" con l'amor cortese e lo sturm und drang. 
Quindi per il friulano il mondo esterno, tendenzialmente sempre ostile a prescindere, iniziava dove finiva il cancello della proprio cortile e tendenzialmente "forest" diventava automaticamente chiunque non facesse parte del proprio nucleo familiare legale. Una "Piccola Patria" divisa in tanti piccoli, microscopici, "feudi" autonomi, autosufficienti e ben poco permeabili gli uni con gli altri.
Tutt'altra storia durante i periodi delle grandi migrazioni, quando un enorme numero di friulani, che oggi chiameremo migranti economici, si trasferirono in massa in Francia, Belgio, Svizzera, nel nord e nel sud America e in Australia; in quelle terre lontane sono stati in grado di creare quello che non hanno mai saputo fare in Patria: una rete comunitaria e di solidarietà strutturata ed organizzata fuori dal comune, con la creazione dei famosi "Fogolars"- focolari.    
Se poi ci avventuriamo nei campi e nei prati, sulle montagne e sulle colline, tra fiumi, rogge  e torrenti, pratiche dell'agricoltura e utensili della casa, troveremo una ricchezza e una varietà di termini propri che ben poco hanno da invidiare alle altre lingue di popoli ben più numerosi e dislocati su territori molto più vasti.  
Ricordo anni fa quando la Regione Friuli Venezia Giulia propose il brand: "FRIULI: OSPITI DI GENTE UNICA" Che dire, unici sicuramente, quanto a ospitalità c'è molto da lavorare anche se la globalizzazione e la secolarizzazione hanno trasformato e continuano a modificare in profondità anche la gens furlana.
Del resto la Regione ha sede a Trieste, tutt'altra storia. Proprio tutta un'altra storia e un'altra lingua. (o dialetto? quello triestino intendo :-)).

martedì 24 luglio 2018

LO SGUARDO DI MEDUSA

“Hanno scommesso sulla rovina di questo Paese. E hanno vinto”. 
Cit. Il Capitale Umano, regia di Paolo Virzì, 2014 
Le famiglie italiane: i più ricchi diventano più ricchi, ma se non calpestassero la gente e le leggi perderebbero tutto in meno di 24 ore. Non c'è più middle-class, i più poveri naturalmente rischiano di essere ancora più poveri, e sperano di sbarcare il lunario facendo il grande salto. Possono essere marci e pronti a vendere la loro famiglia con l'illusione di potere e ricchezze in un Paese a cui è rimasto ben poco da offrire. - Recensione da www.film.it 

Naturalmente l'analisi va presa per quello che è: una generalizzazione e come tale ha i limiti di tutte le generalizzazioni. Ci sono anche situazioni diverse. Divenute assolutamente minoritarie, di "nicchia", tanto per usare un'espressione cara ai contemporanei.
La vera Speranza non sta nelle "nicchie" ma è come sempre riposta nei giovani e nella loro capacità di diventare, oggi più che mai, dei novelli "Perseo", tagliando la testa delle Meduse genitoriali che li tengono pietrificati con i loro esempi, più che con i loro sguardi. Al sottoscritto, rientrante fra quelli che sono divenuti, divengono e sono destinati a diventare sempre più poveri, resta solo l'amarezza di aver visto vanificati i personalissimi, fragili, scomposti, ingenui, erronei e tardivi sforzi per evitare questo "presente". Un tempo, per placarmi, mi bastava ricordare una battuta del Sergente Lorusso - Diego Abatantuono in un altro celebre film di Gabriele Salvatores - Mediterraneo: "Avete vinto voi - gli ho detto - ma non vi darò mai la soddisfazione di considerarmi vostro complice. E me ne sono andato via dall'Italia". Non mi basta più, guardando mio figlio e ripensando a tutti i miei allievi con cui negli ultimi anni ho avuto la fortuna di condividere l'aula. Anche perché dall'Italia, me ne sono andato solo con la testa. Chiedo loro Perdono.

lunedì 16 luglio 2018

GUFI SFIGATI

Finalmente è finito! Il campionato del mondo di Russia 2018 si è concluso con il trionfo dei "Blues" guidati da "Gastone" Didier Dechamps a spese degli irriducibili croati, costretti a rivestire nell'ultimo atto, loro malgrado, i panni di "Paolino Paperino": fare il pieno di simpatia da parte di tutto il mondo non francofono, o quasi, ma ritornare in Patria a "tasche vuote". E così finalmente noi italiani finiremo di essere costretti ad uscire ogni sera a cena da single con i migliori amici e le loro fidanzate, avendo maturato un'ulteriore consapevolezza: anche come "gufi" siamo proprio sfigati.
Si chiude un mondiale che a tutti noi, orfani dell'Inno di Mameli, ha veramente lasciato un beffardo retrogusto ancora più amaro: è stato il trionfo del tanto bistrattato calcio all'italiana, proprio nell'edizione in cui i suoi massimi - un tempo - esecutori erano assenti. Le due finaliste hanno lastricato la strada verso la finale con prestazioni caratterizzate da una grande capacità di attendere l'avversario tutti dietro la linea della palla, chiudergli ben bene tutti i varchi, per poi infilarlo negli spazi con ripartenze - diciamo pure contropiedi - mortali come il morso improvviso di un serpente. Oppure sfruttando al massimo le palle che, di "inattivo", hanno solo il nome: calci piazzati dalla "tre quarti" per falli subiti in azioni magari di "alleggerimento" e calci d'angolo. Come spesso già accaduto in passato, le squadre che hanno cercato di vincere i match decisivi con il gioco d'attacco, vedi il Belgio o il Brasile o con il possesso palla, vedi Spagna, si sono dovuti accontentare al più dei complimenti degli esteti, ma: "zero tituli." 
Quindi Onore - pure a denti strettissimi e con potentissimo mal di pancia - ai vincitori, capaci nella prima ora di gioco della finale di segnare due gol senza mai tirare in porta per poi buttarne dentro altri due nel giro di qualche minuto ai primi e - forse ultimi - due tentativi! E' il football bellezza! (o la bellezza del football?). Quanto a noi, per l'occasione, sfigati guardoni, è tempo di gioire - forse. Da oggi si riparte in "cerca" di allori con tanta voglia di lasciarci alle spalle questo mese orrendo.
Certo, considerata l'età media della squadra campione del mondo e gli ampi margini di miglioramento di diversi suoi uomini chiave, temo che per un po' saremo costretti a frenare la loro "grandeur" solo opponendogli i nostri datati trionfi che, numericamente, doppiano ancora i loro; quanto al  "tornare a cena" con qualche top model, simpatica ed intelligente... il timore di un lungo digiuno è molto forte al pensiero che al momento tutte le nostre speranze di rispolverare gli "antichi fasti" sembrano basate esclusivamente sulla "rinascita" di Supermario Balotelli.
Urgono idee. Urgono umiltà e facce nuove. E tanta pazienza. E coraggio. E forse di aprire le porte a chi ha fame.

    

giovedì 12 luglio 2018

HRVATSKA! QUANDO IL NOME DICE TUTTO.

Onore alla Croazia! Dal 1962, quando nella finale di Santiago del Cile fu la Cecoslovacchia a contendere vanamente la coppa Rimet al Brasile, nessuna squadra dell'est Europa era mai arrivata all'ultimo atto di un mondiale che vide in quell'occasione, tra l'altro, il miglior risultato in assoluto della Jugoslavia, quarta nella classifica finale. Squadra tosta, con "attributi" sconfinati quella croata, poche balle e che rappresenta una nazione di soli 4 milioni di abitanti. Sempre sotto nel punteggio dagli ottavi e sempre in grado di recuperare alla "lotteria" dei rigori, dove con grandi doti tecniche e psicologiche - e con l'aiuto della Dea bendata, ovvio - è riuscita anche a metabolizzare la delusione del rigore vincente sbagliato da Modric a pochi minuti dalla fine dei supplementari contro i danesi negli ottavi e al pareggio dei russi a pochi giri di lancetta dalla fine dell'overtime nei quarti di finale. Ieri il capolavoro contro la "perfida Albione", rimontata e superata ancora una volta nell'extra-time e questa volta senza bisogno della "roulette russa" - proprio il caso di dirlo - dei penalties. Domenica l'ultimo ostacolo per entrare davvero nella Storia: diventare il primo paese dell'est europa a fregiarsi del titolo di campione del mondo. Non sarà facile. L'avversario sembra il peggiore che potesse capitare: La jeune France! Eh si, perchè i "galletti" guidati da Didier Dechamps arrivano alla finale con un percorso netto: fuori Argentina, Uruguay e Belgio senza dover ricorrere agli straordinari, sciorinando velocità, talento ed energia.
Una cosa sicuramente la nazionale (e la nazione) croata non ha proprio nulla da invidiare all'avversario: lo smisurato orgoglio di appartenenza e forse anche un po' lo sciovinismo. Noi, italiani, in questo frangente sfigati vicini di casa di tutti e due i contendenti, lo sappiamo anche troppo bene.
E per questo, personalmente, domenica sarà assai arduo decidere da che parte rivolgere la propria simpatia: ragioni di parentela familiare mi spingono verso les Blues mentre desiderio di novità verso i balcanici. In ogni caso sarà come scegliere tra la ghigliottina e la fucilazione con successivo vilipendio di cadavere.  
Due pensieri finali a margine dell'evento. Il primo: ve la immaginate cosa sarebbe oggi la Jugoslavia se a questa Croazia si potessero sommare lo sloveno Handanovic, i bosniaci Pjanic e Dzeko e il serbo Milinkovic-Savic, così solo per citarne qualcuno a caso? Il secondo: mi sono ricordato che ieri era l'11 luglio - non più del 1982 - e se ieri ho scritto che assistere a questi mondiali per noi italiani era come uscire ogni sera a cena con il proprio migliore amico e la sua ragazza dopo che la tua ti aveva lasciato, assistere alla finale sarà come essere costretti ad assistere alle loro "effusioni" il giorno dell'anniversario del primo "incontro" con la tua ex. E anche per questo, grazie "azzurri"!!

martedì 10 luglio 2018

LE PARTITE DEGLI ALTRI

I giorni successivi al fatidico Italia-Svezia, 13 (!) novembre 2017 (!), inutile dirlo, furono tremendi. Fuori dai mondiali! Mai successo nella vita della mia generazione! L'idea che potesse accadere non era stata presa in considerazione, eppure, confesso che in realtà la "catastrofe" era attesa: la pressione sugli azzurri era enorme e gli "azzurri" non sono da un bel po' abituati a confrontarsi con situazioni del genere. Gran parte della squadra, a partire dal C.T., era (ed è) composta da giocatori che militano in squadre di club che non disputano partite internazionali di alto livello e chi lo fa, tolti Buffon e Chiellini, oramai in vista del vitalizio garantito dall'ENPALS, è comunque nelle seconde linee. Insomma, la sVentura era razionalmente e ampiamente pronosticabile. Per il cuore no. Eravamo (e siamo) l'Italia. Quattro volte campioni del mondo. Gli occhi della mia generazione sono pieni di immagini di maglie azzurre, con bordi tricolori e Inno di Mameli, che hanno scritto la storia della coppa del mondo. Non potevamo non esserci anche noi a Russia 2018. Magari poi uscire subito al primo turno come le ultime due volte. Ma per esserci ci saremmo stati di sicuro. Non esiste una primavera senza fiori sugli alberi, un'estate senza frutti sui rami, un autunno senza foglie gialle e un inverno senza rami secchi. Invece è successo. Terribile. Disorientante.
Ripresi dalla routine di tutti i giorni, passato l'infausto novembre, abbiamo cercato di dimenticare, di rimuovere. I sorteggi dei gironi di dicembre, sono stati un nuovo pugno in faccia. Con chi siamo capitati? Con nessuno.. ah, già, noi non ci siamo... Niente pagine su pagine della Gazzetta riempite di pronostici, di studio degli avversari, di possibili giochi di marcature e calcoli su come era meglio piazzarsi in vista della fase ad eliminazione in diretta. Niente. Niente di tutto questo. Un dito infilato nella piaga per rendere difficile la metabolizzazione.
Poi è passato l'inverno ed è arrivata la primavera, con la ferita che pareva ormai rimarginata. Il peggio sembrava passato. In fondo eravamo ancora tutti vivi, salvati dai guai del quotidiano.
Ogni tanto affiorava il pensiero: "Chissà come vivrò il mondiale senza l'Italia?" E poi ottimismo: "Ma si, chi lo guarderà? Non ci siamo, lo shock ormai è alle spalle. Sarà come se il mondiale 2018 non sia mai stato."
Poi il 14 giugno il mondiale è iniziato per davvero. E come l'abbiamo vissuta? Io all'inizio male, malissimo, ragazzi. Poche balle, vedere giocare gli altri e soprattutto vedere le loro tifoserie colorate che facevano festa sugli spalti è stato un pugno al cuore. La domanda "Quando gioca l'Italia?" sorgeva spontanea dall'inconscio, poi la mente la ricacciava indietro come un cazzotto nello stomaco. Male, ragazzi, molto male.
Altro che "nessuno guarderà le partite, al massimo dalle semifinali in poi." Mi sono trovato a guardare più partite oggi che in Sudafrica e in Brasile, dove, penosamente c'eravamo anche noi.
Adesso che siamo alla vigilia delle semifinali, il dolore del pugno allo stomaco si è attenuato.
Resterà il ricordo di serate al bar guardando "le partite degli altri" come tanti "opinionisti" scegliendo di volta in volta per chi "simpatizzare". Provando anche inaspettatamente qualche piccola emozione.
Un po' come uscire a cena tutto il mese insieme al tuo migliore amico e alla sua ragazza, perché la tua ti ha lasciato da un po' di tempo.
Ecco, per me Russia 2018 è stato questo.
Esperienza, mi auguro, da non ripetere. Mai. Mai più.

mercoledì 4 luglio 2018

COSA FA LA SOMMA?

Gli italiani sottostimano la quota di popolazione sopra i 65 anni e sovrastimano quella di immigrati e di persone con meno di 14 anni. Oggi abbiamo circa 2 pensionati per ogni 3 lavoratori. Questo rapporto è destinato a salire nei prossimi anni. Secondo le previsioni del Fondo Monetario Internazionale a legislazione invariata, a partire dal 2045 avremo addirittura un solo lavoratore per pensionato. Oggi un reddito pensionistico vale l’83% del salario medio. In queste condizioni, con un solo lavoratore per pensionato, quattro euro su cinque guadagnati col proprio lavoro andrebbero a pagare la pensione a chi si è ritirato dalla vita attiva. Tutti sono d’accordo sul fatto che bisogna contrastare l’immigrazione irregolare. Bene, ma si dimentica un fatto importante: per ridurre l’immigrazione clandestina il nostro Paese ha bisogno di aumentare quella regolare. Tanti i lavori per i quali non si trovano lavoratori alle condizioni che le famiglie possono permettersi nell’assistenza alle persone non-autosufficienti, tanti i lavori che gli italiani non vogliono più svolgere. Nel lavoro manuale non qualificato sono oggi impiegati il 36% dei lavoratori stranieri in Italia, contro solo l’8% dei lavoratori italiani e lo Skills Outlook dell’Ocse segnala una forte polarizzazione nella domanda di lavoro, con richieste di personale sia altamente qualificato che addetto a mansioni ai livelli più bassi della scala retributiva. Un problema dell’oggi Il declino demografico è un problema molto più vicino nel tempo di quanto si ritenga. Ai ritmi attuali, nell’arco di una sola legislatura, la popolazione italiana, secondo scenari relativamente pessimistici, ma non inverosimili, potrebbe ridursi di circa 300.000 unità. E’ come se sparisse una città come Catania. Dimezzando i flussi migratori in cinque anni perderemmo, in aggiunta, una popolazione equivalente a quella odierna di Torino, appesantendo ancora di più il rapporto fra popolazione in età pensionabile e popolazione in età lavorativa. A questo proposito l’Istat ha recentemente segnalato come da noi “si continuano a destinare risorse troppo scarse a tutela dei principali rischi sociali”: la spesa per le famiglie, il sostegno in caso di disoccupazione, la formazione, il reinserimento nel mercato del lavoro ed il contrasto alla povertà ci vedono agli ultimi posti in Europa (ISTAT, Rapporto annuale 2014). Senza l’immigrazione, secondo le stime di Eurostat, perderemmo 700.000 persone con meno di 34 anni nell’arco di una legislatura.

(Stralci dalla Relazione annuale 2018 del Presidente INPS)

+

Decreto Legislativo 18 aprile 2016, n. 50 in G.U. n. 91 del 19 aprile 2016 - s.o. n.10 
Codice dei contratti pubblici - detto "Codice degli appalti"

=

???


Nota: entrambe gli addendi non sono stati generati da una f(x) dove x sono i migranti. Irregolari o regolari. 

Post in evidenza

NOTTI MAGICHE ANTE LITTERAM

25 giugno 1983 – Arrivo al campo mezz’ora prima del fischio d’inizio, di corsa dopo essere riuscito a fuggire da una riunione familiare ...