giovedì 31 agosto 2017

DIFESA DELLA DIFESA

Mi è capitato spesso di sentire da più parti - tifosi, giornalisti, allenatori, avversari, ecc. ecc. - che molte delle vittorie internazionali della nostra nazionale del passato lontano e anche più recente - quando ancora si vinceva -  campionati del mondo inclusi, sono state immeritate perchè ottenute attraverso la difesa ad oltranza condita con isolati contropiede e quindi con il cronico non gioco e l'incapacità di creare "spettacolo". Insomma, quasi dovessimo vergognarci di aver vinto. Quasi fossimo solo degli abili borseggiatori di vittorie che spettavano di diritto agli altri produttori di spettacolo, quasi sempre tedeschi, a volte olandesi, brasiliani e francesi. Quasi che vincere esaltando la capacità difensive fosse una strategia figlia di un Dio minore.
La lista dei detrattori sarebbe molto lunga; mi limito ad osservare che erano quasi tutti avversari sconfitti. Ora, comprendo - e lo dico per esperienza diretta - che essere tifosi o fan di una squadra che punta a vincere attraverso la difesa per creare gli spazi e colpire di rimessa come un cobra esponga decisamente al rischio perpetuo delle coronarie - ma considerare questa strategia di gioco inferiore a quella che si basa sul continuo possesso palla e al pressing a tutto campo, condito magari dal fuori gioco sistematico, prorpio non ci sto.
Sono solamente concezioni diverse che si possono scegliere di applicare in base alle capacità e alle caratteristiche degli uomini che un tecnico ha a disposizione.
Chi ha giocato a calcio sa bene che impostare una partita usando il gioco all'italiana - difesa e contropiede appunto - sia tutt'altro che semplice: bisogna avere a disposizione giocatori con grande capacità di resistenza tecnica e psicologica nel saper far bene "reggere" il fortino.
Ricordate la tanto vituperata semifinale di Euro 2000 dove gli azzurri di Zoff passarano ben poche volte la metà campo nei 120' e poi vinsero ai rigori? Che furto colossale! Che spettacolo orribile! Che vergogna! E che fortuna! Due rigori sbagliati dagli olandesi nei tempi regolamentari! Quasi che dovessimo vergognarci noi degli errori avversari e della bravura del nostro portiere ... Voglio andare assolutamente contro corrente nel difendere quella prestazione. Ripeto, solo chi ha giocato a calcio sa che per resistere in inferiorità numerica contro una squadra che pratica il gioco d'attacco sistematico, in casa sua per di più, solo un grande carattere individuale e di gruppo, unite ad una grande competenza difensiva, ti permette di mantenere la porta inviolata. Cosa non da tutti.
Ripeto, puntare sulla difesa e sul contropiede è tanto nobile e complesso quanto cercare di vincere in altri modi. "Noi" italiani siamo stati maestri in questo campo e non dobbiamo e non dovremo mai provare vergogna - sportiva. Anzi, per quanto mi riguarda, rivendicarlo con orgoglio.
E con buona pace degli avversari e per gli amanti del "calcio spettacolo". Spesso sconfitti. Come le nostre compagini nazionali quando hanno rinnegato se stesse e tentato di imitare ora gli olandesi, ora i brasiliani. O come accadde ai brasiliani quando vollero imitare gli italiani o i tedeschi.
Considerazioni non valide per le squadre di club, ove da almeno 30 anni si è persa la cultura sportiva "nazionale" e le scelte di un tecnico si devono basare esclusivamente sulle caratteristiche tecniche e psicologiche dei componenti la Babele che compongono la rosa. Considerazioni in retrospettiva. Oggi anche a livello di squadre nazionali, la cultura sportiva-paese è assai sfumata, quasi impalpabile. E' la globalizzazione bellezza.

mercoledì 30 agosto 2017

LA RINASCITA DEL BARONE RAMPANTE

Il 1982 fu teatro di grandi vicende di riscatto umano e sportivo nel panorama calcistico italiano, fra cui spiccano per notorietà quelle di Paolo Rossi e del gruppo azzurro che a dispetto degli scettici (e degli insulti) riuscirono in imprese sportive che hanno ancor oggi il sapore di vere e proprie resurrezioni. Meno nota, probabilmente perché si è svolta lontano dalle capitali calcistiche - Torino, Milano, Roma, Napoli - e nel conseguente disinteresse dei media nazionali, è quella di Franco Causio. Il giocatore era stato indiscutibilmente uno dei protagonisti assoluti del campionato italiano con la maglia della Juventus e della nazionale durante tutti gli anni '70 - 6 scudetti, 1 coppa UEFA, 1 Coppa Italia e quarto posto da titolare fisso ai mondiali d'Argentina dove con Rossi e Bettega fu considerato dalla stampa locale come "el superastro del trio de oro". Nato a Lece nel 1949, soprannominato "Brasil" per il dribbling "assassino" nello stretto, era imprendibile in campo aperto e fonte di giocate spettacolari dallo stile inimitabile, caratterizzato da classe purissima per eleganza di movimenti capace di "pennellare" assist e traiettorie al bacio per la testa degli attaccanti juventini e azzurri ed in modo particolare facendo la fortuna della "testa" di Roberto Bettega. Per avere un saggio di cosa era capace di fare Franco Causio sul terreno di gioco guardatevi qualche filmato su youtube e ai più giovani raccomando di guardare con attenzione l'azione del raddoppio di Bettega in Italia - Inghileterra 2-0 a Roma, novembre 1976, valida per le qualificazioni mondiali, azione avviata da un colpo di tacco di "Brasil" e soprattutto sempre nel catino dell'Olimpico di Roma, maggio 1979 il suo gol in un'amichevole di lusso Italia-Argentina terminato 2-2. Il tallone d'Achille di Franco Causio pare essere sempre stato un carattere piuttosto scontroso dettato da grande orgoglio personale, un atteggiamento generale poco disposto al compromesso e ad una certa tendenza allo "snobismo", che negli anni gli fecero guadagnare anche il "nickname" di Barone; forse questo lo fece cadere in rapida disgrazia quando al principio degli anni '80 iniziarono a manifestarsi i primi segni di logoramento che causarono prima la perdita della maglia azzura - espulso in Lussemburgo nell'ottobre del 1980 durante una gara valida per le qualificazioni ai mondiali 1982 non venne più convocato da Bearzot a beneficio di Bruno Conti, la cui esplosione gli chiuse la strada del ritorno immediato - e di seguito la maglia di titolare nella Juventus a beneficio di Marocchino. Nell'estate del 1981 il Barone si trovò sul mercato, scaricato senza tanti preamboli da Madama all'età di 32 anni, considerato "bollito" dal suo allenatore Giovanni Trapattoni. 
Si avvicina l'Udinese, certo non una società di prima grandezza nel panorama di allora; i friulani, tornati in serie A nel 1979 dopo 17 anni filati in serie C, si erano salvati il primo anno grazie ad un ripescaggio per le retrocessioni a tavolino di Lazio e Milan per il primo scandalo del totonero e l'anno seguente con un gol all'ultimo minuto dell'ultima giornata e grazie alla classifica avulsa.
Lo vuole il giovane tecnico Enzo Ferrari, compagno di squadra del Barone quando questi muoveva i primi passi in serie A in quel di Palermo e probabilmente lo convincono i progetti ambiziosi della nuova proprietà - le industrie Zanussi allora guidate dal Cav. Lamberto Mazza.
Così, nel luglio 1981, nell'indifferenza generale dei media, dai trionfi azzurri e bianconeri torinesi sbarca nella "lontana" e piccola Udine il "Barone" Franco Causio, destinato per la critica del tempo a finire mestamente in serie B e chiudere la carriera.
Pochi hanno invece capito che l'orgoglio senza pari del campione di Lecce diventa la molla per una sorpresa generale; Causio si prende i gradi di capitano, si massacra in ritiro con carichi di lavoro impressionanti e trascina letteralmente i suoi compagni verso una tranquilla salvezza con tre giornate di anticipo sulla fine del campionato.
I tifosi friulani assistono entusiasti allo sfoggio di tutto il repertorio che nel 1978 l'avevano fatto incoronare come la migliore ala destra di tutto il mondiale argentino, il Barone gioca 25 partite su 30 e con 5 reti risulterà alla fine il miglior marcatore della squadra. Vince il Guerin d'Oro quale miglior giocatore della serie A 1981/82 e convince Enzo Bearzot a riconvocarlo per Spagna 1982, dove, pur giocando solo il secondo tempo contro il Perù e gli ultimi 2' nella finale di Madrid, svolge un importante ruolo all'interno dello spogliatoio e diventa campione nel mondo assieme ai vecchi compagni della Juventus. E grazie alla foto della più famosa partita a scopone della storia d'Italia sull'aereo presidenziale assieme a Pertini, Zoff e Bearzot con la coppa del mondo in bella mostra, entra nell'immaginario collettivo di una generazione.
Nei due anni seguenti, sempre da capitano, partecipa alla crescita dell'Udinese quasi fino alle soglie dell'Europa giocando l'ultima stagione in Friuli addirittura insieme a sua Maestà Zico, lasciando ai tifosi friulani ricordi di giocate straordinarie, ancor oggetto di aneddoti nelle osterie di tutta la regione.
Nel 1984/85 passa all'Inter e poi al Lecce, per chiudere a 39 anni, nel 1987/88 in serie B, dopo due stagioni da capitano della Triestina.
Carattere "difficile", classe sopraffina e professionista esemplare.
Ecco in poche parole Franco Causio, uno dei "risorti" del 1982. Anno d'oro.

CIELO OSCURO SOPRA BERLINO

Come diventò un agente della STASI Herr Wallestein e quali furono suoi compiti...

 Lei potrà immaginare quale fosse il numero degli orfani nel dicembre del 1945 nella Germania Orientale e che cosa rappresentavamo per il Regime: dei fogli bianchi da riempire. Stalin, dopo aver rinunciato agli aiuti americani del piano Marshall e letteralmente spogliato quello che rimaneva dell’apparato industriale presente nella Germania Est mandando impianti e macchinari in Unione Sovietica, pretese la “frattellanza” socialista dai tedeschi orientali che lui aveva “liberato” dal fascismo. Così, quali fossero le storie e le tendenze personali, gli abitanti della DDR dovettero passare dall’essere stati tutti, se non altro retoricamente, nazisti all’essere indifferenziatamente tutti comunisti e “fratelli” di quelli che erano stati i loro nemici.

Vuole dire che foste resi tutti “esenti” dal nazismo? Una specie di amnistia di massa...

La cosa fu molto piu’ sottile! Ci fu imposto di credere che i nazisti provenivano dall’Ovest, dall’altra Germania e che lì erano stati ricacciati dalla madre Russia dopo la fine della guerra. La Storia fu in breve rifatta ad uso e consumo della creazione dell’Uomo socialista, e l’operazione ebbe un successo tale, che gli orientali non sentirono piu’, come non lo sentono ora, di essere stati responsabili del regime di Hitler! Pensi che a Dresda, su di un ponte sull’Elba, mi è capitato di vedere una targa in cui si commemorava la liberazione dei tedeschi orientali dagli oppressori nazisti a opera dei loro fratelli russi!

Una strordinaria manovra di innocenza collettiva! E scommetto che lei si è trovato nel bel mezzo di questo gioco di prestigio...
Le ripeto, io dopo la guerra ero un bimbo orfano: conosce forse un bersaglio migliore per l’indottrinamento ideologico? E l’indottrinamento a cui fummo sottoposti durante il regime comunista nella DDR, quanto a metodi ed efficacia, non aveva nulla da invidiare a quello a cui fu sottoposto il marito di mia madre durante la sua adolescenza nella gioventu’ hitleriana!
Quando il muro fu innalzato nell’agosto del 1961, io avevo 15 anni e la mia aspirazione piu’ grande era quella di poter contribuire ad erigere quella difesa dalle aggressioni del mondo imperialista e capitalista dell’Ovest. Insomma, ero un predestinato: cos’altro potevo diventare, se non un agente della STASI? Entrai in servizio nel 1966, a 21 anni, dopo tre di accademia militare, e fui assegnato alla sezione che aveva lo scopo di impedire fughe e sconfinamenti; fino a quel fatale 9 novembre 1989, è stato il mio compito, che ho svolto con il massimo dello zelo possibile. Quando il Muro è caduto sono morto anch’io con lui.


Percepisco quasi un senso di nostalgia, di rammarico... non mi dirà che anche lei è davvero fra quelli che continuano a ripetere che nell’ex DDR, se mi permette l’espressione italiota, si stava meglio quando si stava peggio?


Non è nostalgia... è pena! Vede, io ho passato tutti gli anni piu’ significativi della mia vita in un’opera che ora è definita criminale, ma che per 28 anni era considerata vitale per l’esistenza del paese in cui io ero, mio malgrado, nato e cresciuto e che mi aveva dato un’istruzione ed un destino.
Oggi ho capito che mi trovavo dalla parte sbagliata di quel muro e adesso penso che avrei dovuto capirlo anche allora, che non ero un difensore del mio popolo ma solo un efficiente secondino; ma quando questi pensieri mi avvolgono, sento un dolore atroce e cerco di scacciarli, perchè accettarli senza riserve vorrebbe dire ammettere a se stessi, il nulla della propria vita. La pena piu’ grande però la provo quando vedo e sento i giovani, che non hanno conosciuto la DDR ed i regimi che hanno intossicato la Germania, brandire gli emblemi e ripetere gli slogan di quel passato.


Forse quella pena può essere superata con la sua testimonianza vivente: non pensa di poter diventare in questo suo ultimo scorcio di vita, parte di un altro muro, quello da erigere contro l’idiozia serpeggiante di questi tempi?
Vielleicht....

Vielen dank, Herr Wallenstein und Viel Glück!

(TRATTO DAL RACCONTO "IL GUARDIANO DEL MURO" GIA' PUBBLICATO IN PRECEDENZA NEL BLOG)








martedì 29 agosto 2017

IL RIVINCITA DEL BARONE RAMPANTE

Il 1982 fu teatro di grandi vicende di riscatto umano e sportivo nel panorama calcistico italiano, fra cui spiccano per notorietà quelle di Paolo Rossi e del gruppo azzurro che a dispetto degli scettici (e degli insulti) riuscirono in imprese sportive che hanno ancor oggi il sapore di vere e proprie resurrezioni. Meno nota, probabilmente perchè si è svolta lontano dalle capitali calcistiche - Torino, Milano, Roma, Napoli - e nel conseguente disinteresse dei media nazionali, è quella di Franco Causio. Il giocatore era stato indiscutibilmente uno dei protagonisti assoluti del campionato italiano con la maglia della Juventus e della nazionale durante tutti gli anni '70 - 6 scudetti, 1 coppa UEFA, 1 Coppa Italia e quarto posto da titolare fisso ai mondiali d'Argentina dove con Rossi e Bettega fu considerato dalla stampa locale come "el superastro del trio de oro". Nato a Lece nel 1949, soprannominato "Brasil" per il dribbling "assassino" nello stretto, era imprendibile in campo aperto era fonte di giocate spettacolari dallo stile inimitabile, caratterizzato da classe purissima per eleganza di movimenti e capace di "pennellare" assist e traiettorie al bacio per la testa degli attaccanti juventini e azzurri ed in modo particolare facendo la fortuna della "testa" di Roberto Bettega. Per avere un saggio di cosa era capace di fare Franco Causio sul terreno di gioco guardatevi qualche filmato su youtube e ai più giovani raccomando di guardare con attenzione l'azione del raddoppio di Bettega in Italia - Inghileterra 2-0 a Roma, novembre 1976, valida per le qualificazioni mondiali, azione avviata da un colpo di tacco di "Brasil" e soprattutto sempre nel catino dell'Olimpico di Roma, maggio 1979 il suo gol in un'amichevole di lusso Italia-Argentina terminato 2-2. Il tallone d'Achille di Franco Causio pare essere sempre stato un carattere piuttosto scontroso dettato da grande orgoglio personale, un atteggiamento generale poco disposto al compromesso e ad una certa tendenza allo "snobismo", che negli anni gli fecero guadagnare anche il "nickname" di Barone; forse questo lo fece cadere in rapida disgrazia quando al principio degli anni '80 iniziarono a manifestarsi i primi segni di logoramento che causarono prima la perdita della maglia azzura - espulso in Lussemburgo nell'ottobre del 1980 durante una gara valida per le qualificazioni ai mondiali 1982 non venne più convocato da Bearzot a beneficio di Bruno Conti la cui esplosione gli chiuse la strada del ritorno immediato - e di seguito la maglia di titolare nella Juventus a beneficio di Marocchino. Nellìestate del 1981 il Barone si trovò sul mercato, scaricato senza tanti preamboli da Madama all'età di 32 anni, considerato "bollito" dal suo allenatore Giovanni Trapattoni. 
Si avvicina l'Udinese, certo non una società di prima grandezza nel panorama di allora; i friulani, tornati in serie A nel 1979 dopo 17 anni filati in serie C, si erano salvati il primo anno grazie ad un ripescaggio per le retrocessioni a tavolino di Lazio e Milan per il primo scandolo del totonero e l'anno seguente con un gol all'ultimo minuto dell'ultima giornata e grazie alla classifica avulsa.
Lo vuole il giovane tecnico Enzo Ferrari, compagno di squadra del Barone quando questi muoveva i primi passi in serie A in quel di Palermo e probabilmente lo convincono i progetti ambiziosi della nuova proprietà - le industrie Zanussi allora guidate dal Cav. Lamberto Mazza.
Così, nel luglio 1981, nell'indifferenza generale dei media, dai trionfi azzurri e bianconeri torinesi sbarca nella "lontana" e piccola Udine il "Barone" Franco Causio, destinato per la critica del tempo a finire mestamente in serie B e chiudere la carriera.
Pochi hanno invece capito che l'orgoglio senza pari del campione di Lecce diventa la molla per una sorpresa gnerale; Causio si prende i gradi di capitano, si massacra in ritiro con carichi di lavoro impressionanti e trascina letteralmente i suoi compagni verso una tranquilla salvezza con tre giornate di anticipo sulla fine del campionato.
I tifosi friulani assistono entusiasti allo sfoggio di tutto il repertorio che nel 1978 l'avevano fatto incoronare come la migliore ala destra di tutto il mondiale argentino, il Barone gioca 25 partite su 30 e con 5 reti risulterà alla fine il miglior marcatore della squadra. Vince il Guerin d'Oro quale miglior giocatore della serie A 1981/82 e convince Enzo Bearzot a riconvocarlo per Spagna 1982, dove, pur giocando solo 45' contro il Perù e gli ultimi 2' nella finale di Madrid, svolge un importante ruolo all'interno dello spogliatoio e diventa campione nel mondo assieme ai vecchi compagni della Juventus. E grazie alla foto della più famosa partita a scopone della storia d'Italia sull'aereo presidenziale assieme a Pertini, Zoff e Bearzot con la coppa del mondo in bella mostra entra nell'immaginario collettivo di una generazione.
Nei due anni seguenti, sempre da capitano, partecipa alla crescita dell'Udinese quasi fino alle soglie dellìEuropa giocando l'ultima stagione in Friuli addirittura insieme a sua Maestà Zico, lasciando ai tifosi friulani ricordi di giocate straordinarie, ancor oggetto di aneddoti nelle osterie di tutta la regione.
Nel 1984/85 passa all'Inter e poi al Lecce, per chiudere a 39 anni, nel 1987/88 in serie B, dopo due stagioni da capitano della Triestina.
Carattere "difficile", classe sopraffina e professionista esemplare.
Ecco in poche parole Franco Causio, uno dei "risorti" del 1982. Anno d'oro.

lunedì 28 agosto 2017

QUANDO FINISCE UN AMORE

Può finire l'amore per una squadra di calcio? Certo che si, probabilmente concluderà la maggiornaza - finiscono gli amori anche nelle relazioni umane! Riformuliamo la domanda allora: quando finisce un amore calcistico è giusto abbandonare la squadra amata? Qui altrettanto probabilmente le opinioni si divideranno in maniera inconciliabile. Si, dirà qualcuno - la legge dà la possibilità  del divorzio nel matrimonio, figuriamoci se non si può abbandonare una squadra di calcio. No invece diranno risolutamente altri - amare è affare dello spirito, impegna per tutta la vita ed è indissolubile come prevede il matrimonio religioso. Troppo comodo gettare la spugna perchè le cose non vanno più bene come una volta. Ti fermi e le ripari. E se non si aggiustano? Vai avanti fino a che non si trova la soluzione. Anche se mentre cerchi la soluzione resti da solo e la vita a due diventa un inferno? E di nuovo la tribù si dividerà tra i "pasionari" della resistenza ad oltranza e chi invece riterrà saggio e giusto chiudere il "martirio" con il classico taglio netto. 
Veniamo ora al mio outing calcistico. Ho deciso di andare a vivere "da solo". Udinese ti lascio.
Dopo quattro anni di delusioni e tradimenti, di promesse non mantenute, me ne vado. Non importa che stavamo insieme dal 1978 e non è neanche questione di risultati negativi. Ti sono stato attaccato come una zecca anche quando sei partita in serie B con 5 punti di penalizzazione o in A con meno nove. Anche quando sei retrocessa. Anzi, ti ero ancora più vicino. 
Il punto di non ritorno è che non riesco più e non voglio più identificarmi con una società capace solo di aver creato un porto di mare per mercenari stranieri e non che sperano di stare a Udine il più breve tempo possibile per raggiungere altri lidi dove si guadagna di più. Il mio cuore non batte più quando entro al Friuli, e dico Friuli. Non Dacia Arena.
Mi hanno detto che questo oggi è il solo modo di rimanere nel calcio che conta per un club delle dimensioni delle "zebrette" friulane. Può darsi. Ma questo non risolve il problema. Rimanere in serie A per essere rullati con precisione cronometrica dalle "grandi"ogni volta che vengono a giocare in casa tua e sperare nella salvezza solo perchè ci sono tre squadre meno attrezzate, perdendo spesso e volentieri anche in casa con le parigrado? Assistendo oramai inerme da 4 campionati ad una squadra priva di sussulti e capace di gioco scadente a prescindere da qualsiasi allenatore sieda in panchina? Io non voglio più essere il marito o il compagno di un club così. Non ne cerco un altro, vado a vivere da solo. E' stato bellissimo, abbiamo vissuto insieme anni meravigliosi. Ma io non posso e non voglio vivere solo di ricordi, che diventano sempre più imponenti innanzi al vuoto di oggi. 
Resta pure in serie A con questo sistema se ne sarai capace anche quest'anno. Non m'interessa più. 
Rimpiango la B giocata per vincere.
La mia risposta è: si, è giusto abbandonare la squadra che non si ama più, quando non ci si identifica più nel rapporto in maniera irreparabile. Troppi tradimenti cara Udinese. Non ti sopporto più. Me ne vado. Auguri, con tanta tristezza e tanti rimpianti.
Chiudo citando Marilyn Monroe: "Quando finisce un amore uno dei due soffre; se non soffre nessuno non era mai iniziato. Se soffrono entrambi non è mai finito."

martedì 22 agosto 2017

SCELTE MOLTO DIVERSE, STESSO DESTINO



Dal dicembre 1942 all’8 settembre 1943 il mio reparto fu impiegato nel controllo del territorio e nella lotta contro i partigiani titini. Non voglio parlarle delle atrocità a cui ho dovuto assistere da ambo le parti… dico solo che dal primo giorno in cui presi servizio non finii mai di chiedermi  perché qualcuno ci aveva ordinato di andare li,  dove la gente non ci voleva, dove i soldati croati, che erano nostri alleati, se avessero potuto, ci avrebbero accoppati tutti, dove i partigiani serbi e croati una volta finito di accoppare i loro compatrioti nemici e di accopparsi fra di loro, ci avrebbero pure accoppati tutti  se non ce ne fossimo andati subito… Ricordo che una sera, presi coraggio e lo chiesi al mio tenente: lui mi guardò.. mi sorrise…mi diede una pacca sulla spalla e mi disse di non pensarci, di andare a dormire perché l’indomani saremmo dovuti andare nel bosco a cercare i partigiani e quindi dovevamo essere vigili e pronti, per salvare la nostra pelle e che se ogni giorno fossimo riusciti a salvare la pelle, saremmo tornati a casa e che quella era l’unica cosa che contava per davvero… E io riuscivo anche a dormire, perché era necessario per sopravvivere. 
Poi arrivò l'armistizio dell'otto settembre 1943. E proprio nulla fu come prima. 
Io quel giorno mi sono salvato perché mi trovavo a Brindisi in visita ad una zia in fin di vita,  in licenza e fino alla fine della guerra nessuno mi venne a cercare… da allora ho fatto di tutto per vivere pensando solo alla mia famiglia e alle persone che mi sono vicine, senza più prestare fede a nessun proclama, e se avessi dovuto riprendere in mano un'arma, l’avrei fatto solo per difendere la porta di casa mia. So che come me lo hanno pensato in tanti.. anche se non lo hanno detto…
Alla fine della guerra decisi che Gradisca non sarebbe stata più casa mia. Quello che era accaduto prima, durante e dopo il conflitto nella mia terra aveva distrutto per sempre il mio mondo, l’aveva ancor più diviso, fatto a brandelli… Mi sarei sentito uno straniero nella mia Patria e così decisi che se straniero dovevo essere, era meglio viverlo fino in fondo e ricominciare da un’altra parte, portando però sempre con me la mia identità. Emigrai in Australia e con il tempo divenni direttore del Conservatorio di Sidney ed un buon cittadino del Commonwealth. In fondo, la musica, è il vero linguaggio universale… Per questo non finisco mai di ringraziare quel padre “austriacante” morto in Galizia, che non ho mai conosciuto ma che mi ha trasmesso la passione per la musica! Spesso mi chiedo ancora:  se quel giorno mi fossi trovato al reparto, in Croazia, assieme ai miei commilitoni.. sarebbe stato lo stesso?  Sono passati tanti anni, ma ancor oggi non ho trovato la risposta.. Spesso penso anche a loro… abbiamo passato insieme anni difficili.. i nostri migliori anni, la nostra gioventù… sprecata  per combattere una guerra sbagliata… E qui un'altra domanda mi assale e la rivolgo anche a lei: ma sono forse mai esistite guerre giuste?
Eravamo in quattro, classe 1915, inseparabili… Piero quel giorno abbandonò il reparto con l'intento di rientrare a casa… come me, non ne voleva più sapere nulla di nulla, se non riabbracciare la moglie e i figli… fu catturato a Fiume dai tedeschi ed inviato nel nord della Germania. E' morto nel dicembre del 1944 per gli stenti e le percosse in un campo di lavoro, dove l'hanno spedito i nazisti per essersi rifiutato di arruolarsi nell'esercito di Mussolini… Marco, detto Pistola, perché fra tutti noi era sempre stato il più convinto, un vero e proprio figlio della Lupa,  si sentiva tradito, umiliato, offeso e pur sapendo che la guerra era persa, pensò di salvare l'onore, ed esibendo quella camicia nera che noi avevamo subito nascosto, si arruolò con i bersaglieri del Duce, per salvare i confini orientali della Patria dai partigiani di Tito…E' morto nel maggio del 1945, a guerra finita, fucilato da partigiani che oltre alla coccarda tricolore, portavano il fazzoletto rosso al collo…
Il terzo si chiamava Giulio; a me era sembrato sempre quello più autentico tra noi, e quel giorno pensò che per salvare l'onore bisognava riscattarsi e schierarsi dalla parte giusta, con coloro che volevano non solo scacciare i tedeschi, ma anche fondare un mondo nuovo alla fine della guerra, per costruire una società diversa e più equa… Se anziché trovarsi a combattere con i partigiani jugoslavi, si fosse trovato nelle valli della Lombardia o del Piemonte, finita la guerra sarebbe potuto diventare persino Presidente della Repubblica! Ci sapeva davvero fare con le parole oltre che con il moschetto!... Per anni non ho avuto suo notizie.. ho pensato che in quella terra,  lui avesse davvero trovato la vita che cercava….invece è morto per gli stenti e le percosse, probabilmente nel 1949, in una piccola isola dell'arcipelago dalmata chiamata l'Isola Calva… Goli Otok in croato… fu mandato là con l'accusa di essere un nemico del popolo… e questo l'ho potuto sapere solo pochi anni fa e con tanta fatica..
Oggi non posso neanche portare un fiore sulle loro tombe, non si conosce neppure il luogo dove riposano le loro spoglie… per tutti e tre, scelte profondamente diverse li hanno condotti ad un medesimo tragico destino… 

ESTRATTO DE "IL MUSICISTA DI GRADISCA" GIA' PUBBLICATO NEL BLOG PER INTERO

 

domenica 20 agosto 2017

SIGNIFICATO DI HEIMAT?

Castelmonte, 22 giugno 2014 - Questo non è un luogo "neutro". E' ricco di tanti ricordi e altrettante immagini e soprattutto di molteplici emozioni. Ogni volta che per un motivo o per un altro -  per questioni importanti, vitali - il mio animo era in subbuglio, questo è sempre stato il luogo in cui mi sono recato - con ogni mezzo - per trovare il Senso del tumulto e quindi il filo, il bandolo per andare oltre; a tutte le ore del giorno e/o della notte, spesso solo ma a volte anche accompagnato.  Se esiste un posto al mondo in cui mi posso sentire a Casa è senz'altro questo. E così anche oggi, anche se riprendere il "peso" di tante di quelle emozioni non è proprio agevole; molte di quelle speranze che ho lasciato in questo posto con animo vibrante sono per lo più naufragate a valle, anche in maniera clamorosa e dolorosa. Molto dolorosa. Eppure anche oggi, alla vigilia di nuove svolte epocali in quel continuo "lavori in corso" della Vita sono qui giunto a piedi per trovare il Senso del tumulto e il bandolo della matassa da srotolare sin da subito quando sarò di nuovo in fondo alla valle. E' forse questo il significato più autentico dell'Heimat? Forse si e comprenderlo trasmuta anche i sapori più amari in qualcosa di meno aspro e più sopportabile; nonostante tutte le ferite che hanno bruciato la carne viva, nonostante i sogni infranti, nonostante tutti i veleni ingoiati, la disillusione e il disincanto, questa è e sarà sempre la mia Heimat e continuo a considerarla un "bene" prezioso. E, parafrasando Lord Tennison - anche se forse non avrò più la forza e la pulsione del tempo in cui credevo di poter smuovere il mondo intero, sono sempre quel Cuore che con coraggio non vuole arrendersi e desidera combattere per incontrare un giorno, pacificamente, se stesso.

giovedì 17 agosto 2017

TEMPO DI SALUTI ... ESTREMI

Risultati immagini per ROYAL ARMY YORK SUSANNAH YORK
C’è chi dice che gli eventi destinati a lasciare traccia nella nostra vita sono solitamente gravidi di segni premonitori e che il loro arrivo è annunciato da significative anomalie nell’ambiente che ci circonda. Nella mia vita il  “Messaggero degli Dei” è sempre stato il caldo umido ed il momento in cui ha scelto di fare i suoi annunci è la sera. Chi non ricorda in Friuli l’opprimente cappa di caldo umido che appesantiva l’aria la sera del 6 maggio 1976 e i segni di nervosismo manifestato dagli animali da stalla o da cortile nei minuti precedenti lo scatenarsi del sisma?  E che dire della mattina del 21 agosto 1968, quando dopo una notte insonne per l’incredibile umidità e l’alta temperatura, mi ritrovai a vagare nelle vie di Praga invasa da centinaia di tank sovietici spuntati all’improvviso per soffocare il “socialismo dal volto umano”? Non parliamo poi del 12 agosto 1961 a Berlino: altra notte insonne tormentata dalla calura e dai rumori che giungevano dalla strada di fronte, per poi constatare sporgendomi dalla finestra la mattina del 13, madido di sudore, che la strada era divisa da un alto reticolato sorto all’improvviso durante la notte, ad opera dei soldati della DDR. Avevo compiuto da poco 10 anni la sera dell’8 settembre del 1943, quando poco dopo le 19,30, la voce tremula del  Maresciallo Badoglio annunciò alla Radio l’armistizio con gli anglo-americani, rompendo il silenzio e la noia di una giornata interamente trascorsa in casa a cercare riparo dall’opprimente calura. Ero completamente stravolto, con la camicia incollata come una seconda pelle per l’eccessiva sudorazione, il tardo pomeriggio del 24 agosto 1954 nell’atrio della stazione centrale di Trieste nell’attimo in cui i miei occhi incrociarono per la prima e decisiva volta quelli di una bellissima ragazza inglese in divisa del Royal Army… solamente il mattino seguente, dopo una notte ancora più calda dell’afa in una camera di un piccolo albergo situato sulle rive, scoprii che il suo nome era Helen, che lavorava nell’Amministrazione del Governo Militare Alleato e che si trovava in stazione per tornare a casa, in Cornovaglia, visto che era prossima la fine dell’amministrazione alleata ed il ritorno della città all’Italia. Era “naturalmente” sera e faceva ancora un caldo bestiale il tardo pomeriggio del 08 agosto 1992 quando, rientrato a casa dopo una gita alle grotte di Postumia fatta con un vecchio amico alla ricerca di un po’ di refrigerio, trovai sul tavolo del soggiorno la lettera che avrebbe sconvolto per sempre la mia ormai prossima vecchiaia;  si trattava di un unico foglio  all’interno di una busta bianca non affrancata che semplicemente era indirizzata “A Bepi”. 

Caro e amato Bepi
se la vostra compagnia di bandiera per una volta rispetterà il timetable, quando leggerai queste righe io sarò già in Cornovaglia; scusami se non ho avuto il coraggio di anticiparti questa decisione prima di agire, spero davvero tu un giorno possa, se non comprendermi, almeno  perdonarmi.
Ho deciso di vivere gli anni che mi separano dalla dipartita da questo mondo , in solitudine, nella terra e nei luoghi che mi hanno visto fare la comparsa e muovere i primi passi; mi è divenuta insopportabile l’idea che tu mi veda invecchiare e di vederti invecchiare, di assistere al lento, inesorabile, progressivo spegnersi delle nostre vite.
Voglio mantenere intatto il vissuto del nostro stupendo amore, da quel giorno in cui i nostri occhi si incrociarono alla stazione di Trieste durante quegli anni tempestosi sino ad oggi, sino a questi anni forse troppo quieti.
Voglio che mi ricordi così e non più oltre, il giorno che anche tu lascerai questo mondo.
I nostri figli da tempo oramai conducono le loro vite senza il bisogno di due prossimi vecchietti da  visitare, o peggio da dover accudire, in adempimento ad un penoso “dovere” morale: non sopporto l’idea di rappresentare per nessuno, neanche per un minuto, una sorta di santuario da visitare durante le feste comandate ed in ogni caso non voglio lasciare loro questa eredità.
Fino a ieri avevo l’energia di quell’imprenditore, che pur affannato da mille problemi e con tanti debiti da pagare, lotta come un leone per il raggiungimento dei suoi  obiettivi e la realizzazione dei suoi progetti; oggi mi sento come quel capitalista che deve solo controllare l’incasso delle sue rendite presunte: è finita l’energia e mancano gli stimoli.
So che detesti l’economia e non arrabbiarti per l’uso di questa metafora.
Da quando ci siamo conosciuti ho imparato da te ad  amare persino l’Italia, così diversa dalla mia Inghilterra, ad ammirare le sue diversità, a provare simpatia per le sue genti che vivono ogni giorno come una grande recita in un  grande teatro a cielo aperto e a sorprendermi ogni giorno nell’assistere allo schizofrenico cambiamento di quei canovacci che spaziano dalla farsa alla tragedia senza soluzione di continuità e spesso, consapevolezza.
Forse sono anche stanca delle vostre recite, che tanto mi hanno affascinato in passato, e desidero un ritorno ai silenzi, al verde e al rumore del mare che s’infrange sulle alte scogliere della mia Cornovaglia: ero giunta a Trieste nel 1950, 42 anni fa, per contribuire all’Amministrazione Alleata della tua città e per impedire che “passaste” sotto Tito, come avevate tutti grande timore e permettere che la vostra democrazia, ai primi vagiti, potesse crescere e consolidarsi.
Ho compiuto la missione, che dici Bepi? E’ tempo che io rientri in Patria, non ti pare?
Sono certa, per come ho imparato a conoscerti, ad amarti e a capire il tuo grande amore per la libertà ed il rispetto delle scelte individuali altrui, che se anche non condividerai questa mia decisione, la rispetterai, così come accoglierai questa mia ultima richiesta, ovvero di non cercarmi oltre,  perché sai che ti porterò per sempre nel mio cuore.

Ti amo

Helen
   
Uscii sul terrazzo con quel foglio tra le mani e mi lasciai cadere su una delle poltrone da cui ero solito, ogni sera, perdere il mio sguardo all’orizzonte del golfo di Trieste cercando di veder annegare insieme al disco infuocato del sole, anche tutti i cattivi pensieri del giorno.
"E adesso? Devo cercarmi un bravo psicologo?” – fu la prima cosa che mi venne in mente, prima di iniziare a leggere e rileggere centinaia di volte la lettera di Helen, ben oltre l’inabissarsi del sole in fondo all’Adriatico. Leggevo, rileggevo e vedevo scorrere le immagini di tutta una vita, delle avventure di due “imprenditori” che pieni di debiti, ma ricchi di energia e progetti avevano superato anni “bui e tempestosi”  e che ora messa in sicurezza l’impresa in acque riparate, uno dei due aveva deciso unilateralmente e senz’appello che la rendita di quel capitale accumulato non era più di suo interesse.
Una cosa su tutte però mi faceva imbestialire: Helen aveva ragione.
Mi conosceva talmente bene da sapere che avrei rispettato la sua decisione, che non l’avrei cercata e che neppure avrei tentato di farle cambiare idea, sebbene invecchiare insieme per me non era un’idea insopportabile, ma costituiva il progetto ultimo della mia vita e non mi consideravo affatto come un capitalista teso alla percezione delle rendite derivanti dal patrimonio accumulato, bensì pensavo alla vecchiaia come ad un periodo di nuove emozioni, avendo la possibilità di concludere la mia parabola vivendo in pace tempi nuovi ed impensabili nella mia città, Trieste, dopo essere stato costretto a girare il mondo e l’Italia come giornalista della RAI.
Rispettai, come avevo sempre fatto, anche quell’ultimo colpo di testa di Helen: del resto mi ero innamorato di lei proprio per quella sua totale incapacità al compromesso e alla mediazione, di quel suo agire immediato e deciso, senza ripensamenti e senza curarsi delle conseguenze, quando era convinta di una propria idea e di un proprio sentimento.
Io invece, totalmente incapace a qualsiasi “colpo di testa”, sempre pronto a mediare, sempre teso a capire il punto di vista degli altri, specialista ad ingoiare anche i rospi più grandi pur di evitare “spargimenti di sangue”,  in lei avevo trovato tutto ciò che non ero e che forse avrei voluto essere.
Non era stato forse un micidiale “colpo di testa” decidere a 20 anni di rimanere a Trieste, un luogo tormentato che all’epoca non si sapeva bene neppure di chi fosse e alle dipendenze di chi fosse destinato, per amore di un coetaneo di cui a malapena capiva la lingua, squattrinato e ricco solo di progetti per un futuro incerto, invece di rientrare a casa sua, in Inghilterra, nazione vincitrice dell’ultima guerra mondiale? La decisione di lasciarsi alle spalle la sua vita ed i suoi affetti sulla soglia dei 60 anni per  ritornare in Cornovaglia, rientrava perfettamente nella sua logica.  
Accettai quella scelta fino in fondo: ancora oggi, in questo grigio inverno 2008, non so se la mia Helen ascolta i silenzi della sua Cornovaglia oppure quello del Regno dei Cieli: per me la cosa coincise da quella sera dell’8 agosto 1992.
Non molto tempo fa il più piccolo dei miei nipoti, mi ha chiesto se, quando morirò, anch’io andrò in Cornovaglia: gli ho risposto di si, perché non vedo l’ora di fare un dispetto alla nonna e scoprire com’è invecchiata.

(ESTRATTO DEL RACCONTO - LA RENDITA PRESUNTA - GIA' INSERITO NEL BLOG NEL MESE DI MARZO)

mercoledì 16 agosto 2017

OSSERVAZIONI FENOMENOLOGICHE SULLE CASERME DISMESSE

  

Il fenomeno dovrebbe essere noto: è sufficiente spostarsi da un paese qualsiasi all'altro del Friuli, in modo particolare nella sua fascia più orientale, per imbattersi in complessi militari (caserme) in avanzato stato di "decomposizione". Di tutte le dimensioni e situate un  po' dovunque, qualcuna nel centro storico, qualcun'altra in periferia, altre ancora in aperta campagna; con una valutazione "spannometrica" un buon 90% di queste sono accomunate dallo stesso miserabile destino: l'abbandono.
Personalmente ho concluso che siamo una popolazione per lo più amante del paesaggio "gotico", un insieme di inguaribili romantici affascinati dalle visioni di ruderi decadenti che ci rimandano ad un lontano passato; se poi il bene è di proprietà pubblica, ne amiamo così tanto il disfacimento che, tramite i nostri legislatori liberamente eletti e l'apparato amministrativo al "nostro servizio", capaci di interpretare alla perfezione questo comune sentire, ne tuteliamo così bene lo stato di abbandono con un sistema di norme e orpelli burocratici che ne rendono di fatto quasi impossibile la riconversione ad altri usi in tempo utile.
Sappiamo che quelle caserme avevano una funzione vitale per il nostro paese dal 1945 al 1991; poi il mondo è cambiato con una velocità impressionante e non seriva più tenere in Friuli i 2/3 dell'Esercito di Leva, poi le dogane e la polizia di frontiera. Cosa si è fatto? E' stata abolita la leva, è stato ridotto il personale doganale e di polizia, si sono svuotati centinaia di immobili, si è chiusa la porta alle spalle e si è persa in qualche caso anche la chiave. Poteva andare diversamente? Forse no, visto che è andata come è andata.
O forse si, se passiamo il confine con la Slovenia e vediamo cosa hanno fatto i nostri "vecchi nemici" che pure loro, quando erano comandati da Belgrado e non da Lubiana, avevano schierato un bel po' di soldati e realizzato parecchie opere difensive.
Se avete caro il problema, vi invito a fare un giro anche distratto nelle amene località della valle dell'Isonzo o in tutta la fascia vicino al confine, in modo che lo possiate vedere con i vostri occhi che i nostri vicini sono molto meno affascinati dal gotico e sono assai meno romantici di noi e vi sfido a fare un inventaario di quanti spazi ex militari giacciono allo stato di rovina archeologica.
Non ne troverete molti, vi voglio semplificare il lavoro. In compenso vedrete come un complesso militare di grandi dimensioni come l'ex caserma degli alpini di Tolmino è divenuto un quartiere pulsante del paese con supermercati, concessionarie, bar e spazi per il tempo libero a favore dei residenti e dei turisti che praticano gli sport estremi, oppure come il grande acquartieramento di San Pietro del Carso (Pivka) anch'esso costruito con fondi del Regno d'Italia tra le due guerre mondiali per far sede alle guardie di frontiera e poi caserma del IV corpo corazzato dell'Armata Popolare Jugoslava è diventato un po' alla volta, con fondi comunitari, un attrezzato e visitato museo di storia militare. Non parliamo delle piccole postazioni di confine, ora ristoranti, casinò o campeggi.   
Mi si dirà che dipende dal fatto che la Slovenia è più piccola, che hanno avuto i fondi comunitari, che hanno norme più semplici e che fisicamente Lubiana è più vicina a Kobarid di quanto lo sia lontana Stupizza da Roma.
Sarà quel che sarà, cantava un tempo Tiziana Rivale vincendo a Sanremo nel 1983.
La Yugoslavia e l'Urss non esitono più dal 1991.
Osservando come uno stesso fenomeno che riguardava due popoli ha avuto esiti diametralmente opposti, personalmente concludo che "noi", rispetto ai nostri amici e vicini sloveni, lo ripeto alla noia, siamo più romantici e appassionati all'archeologia. A parte quella minoranza di "pazzi" visionari che combatte durissime e disperate battaglie contro la burocrazia cercando in tutte le maniere d'inventarsi modi di recuperare e ridare dignità a spazi che sono stati, se non altro, il teatro della gioventù di gran parte della popolazione italiana di sesso maschile ancora vivente.
 

giovedì 10 agosto 2017

FRAMMENTI DI UNA LEZIONE DALL'ALTA VALLE DELL'ISONZO

Majda Koren è nata nella primavera del 1914, nel villaggio di Livek, neanche una decina di chilometri da Mlinsko, più in alto di 600 metri sul livello del mare, forse a un chilometro con il confine oggi tra le Repubbliche di Italia e Slovenija, all’epoca tra la Contea Principesca di Gorizia e Gradisca, parte dell’Impero d’Austria - Ungheria e la Provincia del Friuli, parte del Regno d’Italia. Si è seduta vicino ad una vecchia stufa, che ogni tanto apre per introdurre i ciocchi di legna che con cura verifica ed estrae da una cesta ricolma, e continua a fissarmi in silenzio; nonostante un certo imbarazzo non riesco a distogliere lo sguardo: i suoi grandi occhi di un celeste chiarissimo, mobilissimi e vivaci, che chissà quanti cuori devono aver rapito in gioventù, riescono ad oscurare tutto il resto: lo spoglio arredo della stanza, il forte odore della legna bruciata, l’esile e minuto corpo della donna, il suo volto quasi incartapecorito e avvolto in un fazzoletto nero. Mi sembra di vedere gli occhi vivi e colmi di curiosità di un bambino, incastonati come due gemme luminose nel corpo spento di una mummia; non posso non pensare di avere di fronte la prova vivente di come il nostro corpo, le nostre membra, altro non siano che il luogo fisico incaricato di dare temporaneo “rifugio” al nostro “spirito”.

Sono nata nel 1914 da una famiglia di contadini-montanari insediata in questa valle da almeno 1400 anni… Mio padre e mia madre erano nati qui 20 anni prima, così come i loro padri e le loro madri e via via indietro fino alla notte dei tempi, presumibilmente fino a quando, provenienti da un’area dei Carpazi nel VI secolo d. C., una delle tante tribù slave giunse in queste terre, spinte dalla violenta avanzata della popolazione turcica degli Avari, prima che a loro volta, intorno all’anno 900, dopo essere stati sconfitti da Carlo Magno, venissero dispersi per sempre dai Magiari, i quali si stabilirono nei territori dell’attuale Ungheria, della Transilvania, della Vojvodina e di parte dell’attuale Slovacchia. 

L’introduzione storica così accurata non mi colse particolarmente di sorpresa, sapevo bene che Majda si era laureata in Slavistica all’allora neonata Università di Lubiana nel 1937...

Scommetto che anche lei sta pensando che sono una vecchia noiosa, che non perde l’occasione per far trasparire la passione per la storia del suo popolo e che non riesce a nascondere l’orgoglio per essere stata una delle prime laureate dell’Università di Lubiana.. Non è vero? 

Questa volta si che fui colto di sorpresa! Non bastava l’incredibile luce che emanavano i suoi occhi a rendermi agitato, quella donna sembrava persino in grado di leggermi nel pensiero… 

Non serve che mi risponda, amico mio… riprese Majda, dopo aver invano atteso da parte mia un cenno di risposta… Anzi, le dirò di più, non mi servono nemmeno le sue scuse; se lei è venuto qui deve aver già calcolato l’incomodo di colloquiare con una donna che guarda costantemente all’indietro, anche quando gli occhi fissano l’orizzonte… Non è forse in fondo questo che cerca?

Ha ragione signora Majda, sono qui per sapere quello che scrutano i suoi occhi all’indietro, anche adesso che mi fissano e mi mettono a disagio, perché sono convinto che quelle sue “visioni” sono le uniche che mi possono aiutare a guardare in modo consapevole il mio presente e soprattutto a cercare di vaticinare il mio futuro in maniera più obiettiva.. risposi in maniera ferma, cercando di essere il più convincente possibile.

No, la prego, non sia così banale.. non mi deluda subito! Riponevo grande interesse in questa visita, pensavo di incontrare finalmente una persona originale, ero curiosa di conoscere da vicino questo “cacciatore di fantasmi”, colui che mi dicevano si rifiuta di cercare i “grandi” personaggi; colui che invece di rincorrere quelli che riempiono i libri e che con le loro decisioni si dice abbiano “fatto” la Storia, vaga alla ricerca degli “anonimi” che l’hanno subita e che per questo l’hanno “fatta” davvero… Altro che originalità, lei invece esordisce con l’aforisma più noto che si ricordi, quando si cerca di dare a noi stessi un alibi alla nostra insana passione per le cose ingiallite e polverose e di imporre agli altri un preteso nobile valore al tempo che non dedichiamo alle occupazioni più utilitaristiche in senso economico… mi interruppe subito Majda, usando un tono che aveva il sapore di un deluso rimprovero.

Si riferisce a “La Storia è maestra di vita?”

Appunto! Io non voglio credere che lei riempia i suoi taccuini in ossequio a quella colossale sciocchezza… la Storia non ha mai “insegnato” nulla a nessuno…

Mi permetta, Signora, La Storia insegna eccome, sono i suoi “allievi” che non intendono imparare le lezioni…

Lei insiste nel volermi deludere, amico mio? La prego, mi dica che lo sta facendo apposta ad essere così convenzionale… Un vero Maestro è colui che trova sempre il modo di accendere scintille di conoscenza nei suoi allievi, non quello che li riempie di nozioni e poi declina al senso del dovere dei suoi scolari la responsabilità dell’apprendimento… Lasci perdere ogni tentativo di dare un senso nobile al suo “tarlo”… con me può essere sincero fino in fondo, condividiamo lo stesso “furore”… Lei riempie le sue pagine ed insegue i “fantasmi” in ossequio allo stesso “fuoco misterioso” che bruciava dentro di me quando studiavo la storia del mio popolo cercando documenti nelle canoniche polverose delle Pievi che si trovano nelle mie vallate. Non c’è nulla di nobile o eroico in questo, ma solo rispondere senza fare opposizione al nostro destino. Lo stesso destino che spinge lo speculatore a rischiare le sue fortune giocando in borsa o il chirurgo a “macellare” il corpo dei suoi pazienti…

O il ladro a rubare in banca… arrivo a questo se seguo il suo ragionamento!

Proprio così! Anche il ladro a rubare in banca… se è quello che brucia nelle fiamme del suo “fuoco misterioso”…

E il “Libero Arbitrio”? Non mi dirà che anche questo è una sciocchezza priva di senso?

Certo che non lo è… ma dia retta a questa vecchia megera slovena: l’unico, il vero arbitrio che abbiamo è quello di decidere se lasciarci bruciare nel nostro “fuoco misterioso”, oppure se decidere di “spegnerlo”. Questa è l’unica cosa, che possiamo decidere nella nostra vita… e da questa scelta dipenderà il senso stesso del nostro “breve periodo”, nonché il modo con cui saremo destinati a fare i conti con i nostri giorni. 

Si può decidere insomma di sfidare il proprio destino ed di opporsi alla propria natura, se questa non ci piace?

Certo che lo si può decidere! Ma lo si può fare non per un moto egoistico, perché non ci “piace”… Decidere di spegnere il proprio “fuoco misterioso”, quello si che è vero eroismo, perché significherà di sicuro abbandonare il progetto a cui eravamo destinati ed inevitabilmente ci porterà grandi sofferenze interiori. Tutto questo lo si può fare solo se subentra o se viene a mancare un unico sentimento…

Non mi faccia indovinare…

Mi delude ancora.. speravo si cimentasse…

Questo sentimento è l’Amore?

Adesso si che non mi delude più! Alla fine ho fatto bene a seguire il mio istinto da vecchia megera e farla venire qui… mi dia però la prova che la sua non è stata una risposta casuale!

L’Amore è forse quel sentimento così forte che può permetterci di spegnere il “fuoco misterioso” quando bruciarci dentro ci farebbe da un lato si vivere compiutamente il nostro progetto, ma dall’altro ci allontanerebbe irrimediabilmente dai nostri affetti più profondi, così come la mancanza di questo sentimento può far morire sul nascere il “fuoco misterioso” per mancanza di ossigeno? Se questa è la risposta che lei reputa corretta, a me pare una gigantesca contraddizione… 

Lei lo pensa davvero? Non si fermi in superficie… Prima bisogna amare se stessi..

Intende dire permettere al “fuoco misterioso” di bruciare dentro di noi e dargli continuo ossigeno?

Vede? Se non ci si ferma in superficie… continui Lei adesso…

… e una volta che abbiamo imparato ad amare noi stessi siamo pronti per decidere di amare qualcun altro più di noi stessi e quindi se ho ben capito, a moderare l’intensità del “fuoco misterioso” fino al punto, se del caso, a spegnerlo?

Quasi tutto giusto… a parte il finale: il “fuoco misterioso” non si può mai spegnere del tutto… l’amore potrà togliergli l’ossigeno, ma in ogni caso Lui coverà sempre sotto la cenere!

Tutto questo è sicuramente molto interessante signora Majda, ma temo che i miei lettori rimarrebbero delusi, se raccontassi loro solo le sue impressioni “filosofiche” sul senso della vita…

(TRATTO DAL RACCONTO "LA VESTALE DI MLINSKO" GIA' PUBBLICATO PER INTERO NEL BLOG)



mercoledì 2 agosto 2017

IN DIFESA DI MEXICO 1986

Lo so. Spesso finisco per venir considerato l’avvocato delle cause perse; ma già resa palese apertis verbis tutta la mia simpatia per Don Quijote de la Mancha, la circostanza non mi disturba più di tanto e dunque oggi voglio accettare di buon grado una nuova missione impossibile. Rivisitare quello che fu il mondiale di Mexico 1986 per i colori azzurri, allo scopo di cercare di rendere giustizia a quella deludente, sotto il profilo del risultato finale, spedizione italiana per fare piazza pulita di alcuni luoghi comuni con i quali si tende a spiegare il non brillante risultato finale.

Primo su tutti: l’Italia giocò male e fu eliminata altrettanto malamente agli ottavi di finale perché il suo commissario tecnico, Enzo Bearzot, nei quattro anni seguenti al trionfo di Madrid non volle e non seppe rinnovare la squadra rimanendo nostalgicamente attaccato ai vecchi senatori spagnoli, i quali, oramai privi di stimoli e svuotati del furore agonistico che li aveva portati sul tetto del mondo, altro non potevano fare che uscire di scena senza gloria.

Andiamo con ordine. Nessuno vuole negare che il ricordo Mexico ’86 per i nostri colori possa suscitare grandi emozioni, in virtù del fatto che lasciammo presto la competizione senza incidere tracce memorabili con le nostre esibizioni.

Ma non fu certo il disastro di Sudafrica 2010, dove ci presentammo sempre da campioni del mondo in carica e fummo capaci di venire eliminati al primo turno, senza vincere una partita e ultimi in un girone che comprendeva squadre del “calibro” di Nuova Zelanda; Slovacchia e Paraguay. 

A Città del Messico disputammo una più che dignitosa gara d’esordio con la Bulgaria, che solo l’imprecisione nelle conclusioni sotto porta e uno svarione finale della difesa a 4 minuti dal termine ci impedirono di vincere; a Puebla nella seconda gara costringemmo l’Argentina di Maradona, futura campione del mondo, a rincorrerci dopo il nostro 1-0 iniziale e a lasciare sul campo l’unico punto del suo mondiale, mentre ci sbarazzammo senza troppi fastidi per 3-2 della Corea del Sud nell’ultima partita del girone.

La corsa poi si concluse a Città del Messico agli ottavi di finale, perdendo 2-0 e sbagliando completamente partita contro la Francia di Le Roi Platini, una nazionale nel pieno del suo ciclo calcistico e piazzatasi terza alla fine della competizione, mica un avversario qualsiasi!

E ora veniamo alla presunta nostalgia di Bearzot e al mancato rinnovo della squadra.

In quel mondiale giocarono con continuità solamente tre dei titolari fissi di Spagna ’82: Scirea, Cabrini e Bruno Conti, mentre Bergomi e Altobelli, che vennero impiegati in tutte e 4 le partite di Mexico, quattro anni prima erano delle secondo linee e andarono in campo solo in 3 gare su sette e neanche tutte per intero; non conteggiamo Giovanni Galli e Wierchowod, portiere e stopper titolari in Messico e solo “turisti” in Spagna. Degli altri “grandi vecchi” presenti nel 1986, ovvero Collovati, Tardelli e Paolo Rossi solo il primo scese in campo per sostituire lo squalificato Bergomi nella partita con la Corea, mentre gli altri due "senatori" furono nulla di più che degli sparring partners durante gli allenamenti. Su 22 convocati ben 14 erano debuttanti in un mondiale e la squadra titolare ne comprendeva ben 6 (Giovanni Galli, Wierchowod, Bagni, De Napoli, Galderisi e Di Gennaro) su 11.

La parabola discendente iniziata dopo il trionfo di Madrid e terminata a Città del Messico non va ricercata quindi nell’immobilismo di Bearzot o in un illogico attaccamento ai “suoi ragazzi”; questa presunta incapacità innovativa può essere imputata semmai solo per il primo anno dopo la vittoria di Spagna, quando a giocarsi le qualificazioni europee per Francia 1984 il C.T. friulano lasciò intatta la squadra campione, convocando come novità il solo Ancelotti e in una partita Bettega in luogo di Causio, per dargli il posto fin lì appannaggio di Graziani. La scelta iniziale di puntare per le qualificazioni sul gruppo “mundial” può sembrare “inetta” solo a posteriori: anche qui dopo due iniziali pareggi casalinghi, che furono vittorie mancate per un soffio contro Cecoslovacchia e Romania, la squadra iniziò a dare segni di cedimento nella gara contro Cipro e nella sconfitta di misura in terra rumena, ambiente storicamente ostico per le maglie azzurre, per crollare definitivamente nel giugno 1983 a Goteborg contro la Svezia nell’ultima partita disputata dal capitano Dino Zoff e con l’ossatura juventina ancora sotto choc per la sconfitta di Atene in Coppa dei Campioni e il resto del gruppo provato per la lunga stagione alle spalle.

Persa la qualificazione per Parigi in realtà Enzo Bearzot smantellò completamente la nazionale Mundial sin dall’amichevole con la Grecia a Bari nel settembre 1983 e iniziò una serie continua di nuovi inserimenti e di nuove convocazioni, tali da far diventare il club Italia una sorta di cantiere permanente senza più riuscire a trovare il bandolo della matassa e senza la possibilità di cementare un gruppo vero, data la mancanza di gare “vere” nei tre anni successivi, in cui la nostra nazionale, esentata dalle qualificazioni in quanto campione in carica, disputò una lunga serie di amichevoli con avversari di modesta caratura internazionale.

In questo davvero Enzo Bearzot stupì i più attenti osservatori: l’uomo che era sempre stato accusato di non fare mai esperimenti e di convocare sempre gli stessi giocatori, anche quando questi non giocavano al meglio in campionato, ora pareva negare la sua filosofia, convocando chiunque riuscisse a giocare bene una decina di partite di fila in serie A.

L’elenco è lungo e lascio ai curiosi la ricerca della lista completa, limitando a citare solo “alcuni” esperimenti illustri che non furono poi neanche convocati in Messico: Sabato, Fanna, Roberto Mancini e Righetti. 

La parabola discendente in realtà fu causata dalla fine fisiologica del ciclo agonistico di un eccezionale gruppo di giocatori, per lo più della Juventus, che partiti dal Mundial argentino del 1978 erano cresciuti e si erano compattati attorno al C.T. friulano fino a raggiungere il loro apice nel 1982; Enzo Bearzot, contrariamente alla vulgata dominante, di questa circostanza prese tempestiva consapevolezza e cercò, eccome, il ricambio in quanto di meglio offriva in quel momento il campionato italiano.

Due fattori gli remarono sicuramente contro: il venir meno in quegli anni di un club di riferimento su cui basare l’ossatura della squadra e cementare lo spirito di gruppo, vera grande risorsa del tecnico di Aiello del Friuli e il continuo, incessante disputarsi di gare amichevoli in cui lo spirito era quasi sempre quello celebrativo della squadra “campione del mondo” che non esisteva più, ma che era passata alla leggenda.

Detto questo, il C.T. fece fino in fondo la sua parte, guidando nella calura e nell’altura messicana il suo “gruppo” non più prevalentemente bianconero (a Madrid erano 6 su 11 gli azzurri di Madama) ma “multicolore” (a Città del Messico i titolari erano 1 della Fiorentina, 2 della Jeventus, 2 del Verona, 1 dell’Avellino, 1 del Napoli, 1 della Roma, 1 della Sampdoria e 2 dell’Inter).

Il risultato non fu disastroso ma solo … insipido, come lo erano probabilmente gli ingredienti a disposizione del “Cuoco”. Si poteva “cucinare” meglio? Domanda senza risposta certa, per definizione.

In ogni caso, coerentemente con il suo stile, Enzo Bearzot rassegnò le dimissioni il giorno dopo l’eliminazione patita con i cugini transalpini. 

Da contratto, doveva guidare gli azzurri fino ad Italia ’90.

martedì 1 agosto 2017

TERRAZZA DI PRAGA 2.0

 Udine, novembre 2006

Con l’avanzare dell’età mi accorgo sempre più spesso che i miei pensieri viaggiano all’indietro, alla ricerca dei volti che hanno frequentato la mia vita. Tra i tanti, fa sempre capolino con prepotenza quello di Aranka Koubikova ed il ricordo di quella mattina di 38 anni fa su quel piccolo terrazzo affacciato su Vaclavske Nàmesti.
Le scrissi molte volte senza avere risposta e non ebbi più sue notizie, fino ad una mattina di fine novembre del 1989, quando il postino mi consegnò un pacchetto proveniente da Sušice;  lo aprii e all’interno c’era solo una scatola di fiammiferi: il retro, in piccoli caratteri, recava la scritta: “Prodotto dalle industrie Solo – Sušice (CS) – La capitale mondiale dei fiammiferi”. All’interno, tra i bastoncini trovai un foglietto arrotolato minuziosamente; lo srotolai e vi lessi: “Nel caso la sua credenza ne fosse priva – Non smetta di credere alle leggende: l’importante non è raggiungere Itaca, ma non smettere mai di correrle incontro ”.

Udine, agosto 2017

Il volto di Aranka Koubikova di tanto in tanto fluttua ancora nei miei pensieri ma quando accade è solo una dolce immagine che accende un sorriso colmo di tenerezza: da quella mattina di novembre 2006 ho conosciuto molte nuove leggende di cui ignoravo completamente l'esistenza e non ho mai più smesso di correre incontro a Itaca. Che pur rimanendo sempre la stella polare del mio viaggio, resta ben lontana dall'essere raggiunta. E meno male.

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