venerdì 28 aprile 2017

ELOGIO DEI LUPI

Deve mangiar viole l’avvoltoio?
Dallo sciacallo, che cosa pretendete?
Che muti pelo? E dal lupo?
Deve da sé cavarsi i denti?

Chi cuce al generale
la striscia di sangue sui pantaloni?
Chi trancia il cappone all’usuraio?
Chi fieramente si appende la croce di latta
sull’ombelico brontolante?
Chi intasca la mancia, la moneta d’argento,
l’obolo del silenzio?
Son molti i derubati, pochi i ladri;
chi li applaude allora, chi li decora e distingue,
chi è avido di menzogna?

Nello specchio guardatevi:
nessun inganno è abbastanza cretino,
nessuna consolazione abbastanza a buon prezzo,
ogni ricatto troppo blando per voi.

Pecore, a voi sorelle son le cornacchie,
se a voi le confronto.
Voi vi accecate a vicenda.
Regna invece tra i lupi fraternità.
Vanno essi in branchi.

Siano lodati i banditi.
Alla violenza voi li invitate,
vi buttate sopra il pigro letto dell’ubbidienza.
Tra i guaiti ancora mentite.
Sbranati volete essere.
Voi non lo mutate il mondo.

 (da: DIFESA DEI  LUPI CONTRO LE PECORE)
Hans Magnus Enzensberger

Considero personalmente  questi versi dello scrittore e poeta tedesco Hans Magnus Enzensberger, oltre che tra i più belli in senso estetico che abbia letto, un vero e proprio patrimonio dell’Umanità, un manifesto che dovrebbe essere affisso in ogni aula di ogni scuola di ogni ordine e grado.
In modo particolare in Italia.
Così quando ho appreso dalla stampa locale che l’autore sarebbe stato ospitato a Pordenone per l’edizione 2009 del festival della cultura “Dedica”, ho sentito di congratularmi intimamente con gli organizzatori per la scelta assai felice e nel contempo il dispiacere per essere impossibilitato a recarmi “di là de l’aghe” per ascoltare di persona i pensieri del poeta tedesco.
Fortunatamente il Messaggero Veneto ha dato grande risalto alla circostanza pubblicando ampi passaggi del suo intervento; in modo particolare domenica 14 marzo 2009 addirittura in prima pagina, sotto il titolo, foto di Enzensberger e occhiello: “L’atto di accusa di Enzensberger: che pena l’Italia con questo governo”.
Ho provato un certo stupore nel leggere.
“Ma com’è possibile che l’autore di quei meravigliosi versi, che mi hanno subito colpito per tensione civile, per quell’imperiosa esortazione alla responsabilità individuale, per quell’atto di accusa senza tentennamenti verso il disimpegno vile ed egoistico, possa aver esordito con il più classico, marcatamente italico e qualunquistico “Piove governo ladro?”.
Mi sono buttato a capofitto nella lettura di tutto l’intervento contenuto nella pagina della cultura per trovare una spiegazione più in linea con le mie aspettative ed invece, la delusione è aumentata, in considerazione della tesi sostenuta: ovvero che la cattiva fama attuale nell’Italia nel mondo è dovuta dall’inadeguatezza del corrente governo e che la speranza e la forza del nostro paese è la civiltà ed il fermento culturale e di idee che animano la provincia italiana, come ad esempio Pordenone.”
Leggere quel passo è stato uno shock, avendo a mente che l’autore è lo stesso che ha scritto i versi con i quali ho inteso aprire il mio contributo alla rivista di questo quadrimestre.
Non posso credere che Enzensberger ignori che la “fama” della politica italiana all’estero non abbia mai goduto di buona “fama”, non solo con questo governo ma neanche con quello precedente e quello precedente ancora e così a ritroso probabilmente fino al 1861, anno in cui venne proclamato il Regno d’Italia e che a questa  impressione si possa salvare, con buona pace dell’attuale Presidente del Consiglio, solo il ministero De Gasperi che si trovò impegnato nella ricostruzione del paese dopo le sciagure del secondo conflitto mondiale e ad avere il durissimo compito di negoziare il Trattato di pace con le potenze vincitrici.
Il che, ahimè, è ancora più tragico, visto che Alcide De Gasperi mosse i primi passi della sua carriera politica nel Parlamento di Vienna, quale rappresentate del Trentino allora incluso nell’Impero d’Austria-Ungheria.
Una seconda considerazione mi è sorta spontanea: chissà se Hans Magnus Enzensberger è al corrente che le fortune elettorali dell’attuale Governo nascono proprio in quella “provincia” italiana da lui definita così ricca di fermento culturale e di idee ed indicata come la salvezza del nostro paese e di cui il pordenonese, citato come modello, certo non è eccezione quanto a comportamento elettorale per le elezioni di Parlamento nazionale e Consiglio regionale.
Spero di no, perché altrimenti stenterei davvero a credere che l’autore dei versi e l’ospite del festival pordenonese siano la stessa persona, e l’ipotesi che quelle parole siano state pronunciate solo perché probabilmente gradite a platea ad organizzatori non la voglio neppure prendere in esame, proprio in ragione dell’ammirazione che ho per la statura ed i contenuti di tutta l’opera del poeta tedesco, sicuramente tra i massimi esponenti del mondo intellettuale europeo contemporaneo.
Ho fatto queste considerazioni con una persona che si è occupata attivamente di politica durante il politico noto a tutti come “Prima Repubblica”, il quale ha concluso il suo pensiero più o meno così: “ La verità è che in Italia si stava meglio quando si stava peggio: aver azzerato i vecchi partiti politici con la pretesa di moralizzare la vita pubblica è stato devastante: ora chiunque può improvvisarsi amministratore pubblico, non esistono regole comportamentali condivise, chiunque con un po’ di denaro da spendere si crea il suo seguito ed i partiti sono stati sostituiti da comitati elettorali che, una volta concluse le elezioni e distribuiti i compensi promessi, si sciolgono e  non hanno più contatto con la società civile.”
Mi sono sentito di dissentire quasi completamente: nella cosiddetta prima Repubblica sicuramente la formazione della classe dirigente era una necessità sicuramente avvertita e veniva svolta in maniera professionale anche in ragione dell’organizzazione e della struttura che avevano assunto i partiti politici, ma nonostante ciò, questi politici formati nelle scuole di partito non sono stati in grado di evitare ed anzi hanno avvallato un modello di sviluppo economico sociale basato sulle clientele e sull’esplosione del debito pubblico ogni oltre misura ragionevole, circostanze che hanno intossicato in maniera profonda la vita del nostro paese.
Per non parlare poi dell’uso che il sistema partitico della prima Repubblica aveva fatto delle regole costituzionali, allora si veramente disattese e svuotate di ogni significato materiale, visto che tutte le decisioni avvenivano nelle sedi delle segreterie di partito e non certo nelle sedi degli organi istituzionali, che svolgevano praticamente solo funzioni di ratifica quasi notarile.
Come sempre diffido di chi pensa che la risoluzione dei problemi del presente possa avvenire riproponendo gli schemi che hanno già fallito nel passato: lo “si stava meglio quando si stava peggio” è quasi sempre figlio in realtà del pensiero “si stava meglio tanto tempo fa perché eravamo più giovani”; infatti in aderenza a questo stesso schema mentale si sente dire ancor oggi persino che “Era meglio ai tempi del Duce” oppure “Quando c’era Tito le cose funzionavano meglio”.
Su di un punto però mi sento di dover concordare con i nostalgici della “Prima Repubblica”: considerare che la causa di tutto erano i “partiti politici” in quanto tali e che una volta eliminati quelli, la società civile avrebbe potuto prendere in mano le redini della politica e quindi garantire maggiore democraticità e trasparenza è stata una grande ingenuità.
Sono scomparsi i luoghi in cui permanentemente le persone potevano portare le loro istanze e contribuire al formarsi di idee e programmi politici da sottoporre poi al corpo elettorale ed è venuta a mancare qualsiasi forma di formazione politica della classe dirigente, per cui oggi chiunque, se in grado di staccare sostanziosi assegni, può passare dal consiglio comunale all’aula del parlamento.
Cancellare la funzione di cinghia di trasmissione tra la società e le istituzioni dei partiti politici è stato buttare il bambino assieme all’acqua sporca.
Il nostro passato prossimo ed il presente lo dimostrano ampiamente: dal 1994 ad oggi ad ogni tornata elettorale si sono presentati continuamente nuovi emblemi e nuovi raggruppamenti, quasi tutti contraddistinti dai nomi del leader di riferimento e quelli si invece quasi sempre immutabili.
Nessuno o pochi si domandano, dietro ai nomi di persona quale sia il programma politico, quello si considerato un inutile orpello di un passato morto ingloriosamente e sepolto; non ci si chiede più “cosa” voglia fare quel tal comitato elettorale, ma “chi” ne fa parte e “chi” lo capeggia.
I più curiosi magari osano chiedere “chi” c’è “dietro” quel nome.
La “rivoluzione” del 1992 sorta dalle indagini giudiziarie da parte di una magistratura che fino ad allora era rimasta silente ha puntato l’accusa sulla “politica” tout court, attività intesa come la madre di tutti i guai del nostro paese.
Personalmente ritengo invece che il grande problema del nostro Paese sia l’assenza della Politica: dal consiglio comunale sino all’aula del Parlamento.
Forse anche per questo, le città in cui viviamo sembrano assomigliare al mondo, neanche tanto immaginario descritto qui sotto e che, ahimè, trova la sua ragion di esistere nei versi scritti Hans Magnus Enzensberger e citati all’inizio:

Lei esce di casa al mattino, va al supermercato per comperare il prosciutto e vede la moglie del poliziotto che ha il compito di verificare la bilancia uscire con le borse della spesa ricolme: la donna ha fatto la spesa gratis mentre lei ha pagato la carta allo stesso prezzo del prosciutto.
Ritorna a casa e si accorge che un tubo perde e chiama l’idraulico: questo arriva, ripara e le chiede il conto: “Con fattura 100 euro, senza fattura 80 euro”; naturalmente lei paga 80 euroi e ringrazia per lo sconto, perché tanto a due isolati da casa sua nello stesso istante, all’Ufficio delle Imposte, un distinto signore ed un funzionario si salutano con una stretta di mano: una busta fatta scivolare tra le carte della scrivania ha appena annullato una presunta evasione.
Una volta salutato l’idraulico, si ricorda che deve andare in banca e passare dal benzinaio perché l’auto è a secco: il benzinaio avrà sicuramente modificato l’erogatore per lucrare sulle impercettibili differenze di litro per euro ma che però a fine di ogni giornata diventano belle sommette, mentre in banca le proporranno di investire i suoi miseri risparmi in titoli che presto diventeranno carta straccia.
Poi immagino che abbia avuto noie con la giustizia a causa del suo passato, ma anche qui niente paura, l’avvocato che ha mercanteggiato con il Giudice una pena simbolica lo avrà ben pagato con un lauto compenso.
Dietro casa sua è stata costruita finalmente la nuova stazione dei treni: i lavori sono potuti iniziare grazie al versamento da parte del titolare dell’impresa di contributi ai membri della giunta municipale, i quali sono poi stati divisi con precisione matematica in base al peso politico.
Ieri era sabato? Giusto? Sicuramente allora sarà andato allo stadio a vedere la partita di calcio, so che lei ne è un grande appassionato… e purtroppo avrà visto perdere la sua piccola squadra contro la prima in classifica per un rigore dubbio fischiato dall’arbitro, omaggiato qualche giorno prima con un bell’orologio di marca dai dirigenti della grande squadra.
E che dire,  infine, di quel dannato incrocio vicino casa, dove ogni sera tardi distinti signori contrattano le grazie di ragazzine importate da paesi ancora più poveri con l’inganno e ridotte in schiavitù a forza di violenza e minacce?
Che c’è? Non si sente bene? Non si preoccupi… per quanto ne so lei si è riciclato ancora come dipendente pubblico impiegato nella gestione dell’archivio comunale…  quindi può sempre farsi fare dal suo medico un certificato di malattia e passare la giornata di domani a meditare; sempre sperando di non ammalarsi per davvero e finire in un ospedale dove i farmaci vengono acquistati da industrie che offrono convegni ai medici e loro familiari in località esotiche e, in ogni caso non legga troppo attentamente i giornali: sono pieni di articoli scritti da colleghi invogliati!!
(Gherardo Colombo – Sulle Regole)


E con tutto questo, qualsiasi Governo c’entra poco.

venerdì 21 aprile 2017

VELENO

Un dolore improvviso,
localizzato,
due denti aguzzi
che entrano nella carne,
debole e molle,
in tutta la loro profondità.
Poi un bruciore,
localizzato,
forte come se la tua pelle
bruciasse viva
nel cuore dell’Inferno
e tutti i tuoi pensieri
vengono travolti
da una paura ancestrale,
la paura di morire,
di spegnerti in solitudine.

E a folate continue
le cose ed i volti vissuti
si mescolano
ad un elenco infinito
di troppe cose non terminate
di troppe cose neppure iniziate
di cose che non termineranno
e non inizieranno mai.

E inizi a piangere
piangere… piangere … piangere
fino a che gli occhi
ti fanno talmente male
da non riuscire a piangere più.

Poi ti addormenti
senza forze e al risveglio
il dolore ed il bruciore
sono scomparsi,
resta solo il segno della ferita
per ricordarti che non è stato
solo un brutto sogno.

E ti il illudi che il peggio sia passato,
che non proverai più niente di simile.

Ancora non sai
che il Veleno è già in circolo
dentro il tuo sangue,
subdolo e silenzioso.

E senza che tu ne abbia percezione
… lentamente … inesorabilmente …
Ti sta intossicando.

E così ti spieghi
perché il tuo intestino
non smaltisce gli escrementi come un tempo,
perché i tuoi polmoni
respirano a fatica
perché il tuo cuore
ha perso il suo ritmo armonico,
a volte batte così forte da sembrarti pronto
ad uscire fuori dal tuo petto,
a volte invece è talmente lento che hai paura
possa tra un istante non battere più.

E così ti spieghi
perché i tuoi muscoli
non hanno più la potenza
di un tempo che fu,
perché il tuo cervello
non riesce più ad inviare
ordini giusti a tutto ciò
che attende i sui comandi.

Non trovi più le parole giuste …
Ti trovi sempre nel posto sbagliato
al momento sbagliato …
Ti trovi in un luogo e ti chiedi il perché
senza trovare la risposta.

I tuoi occhi
non percepiscono
più i colori come un tempo …


… Il blu diventa giallo … il bianco diventa nero.

Poi tutti diventano un colore solo:
il grigio.

In tutte le sue tonalità.

Quando è troppo tardi
inizi a conoscere il Mostro
che celandosi dentro di te,
ti ha completamente distrutto.

E di nuovo ritorna
quella paura ancestrale
che pensavi di non provare più.

Ti pare di sentire ogni giorno
quei due denti aguzzi
che penetrano dentro
la tua carne debole e molle
e allora inizi a lottare con il Mostro
dentro di te.

Che lotta impari e segnata!

Più ti muovi
più lotti
e lui più ti fa male.
Più cerchi di sciogliere
le tossine e più queste si disperdono
dentro di te.

Fino a che, esausto,
completamente esausto,
ti spegni
e il grigio diventa nero.

NERO.

Adesso il Mostro,
finalmente,

ti ha lasciato libero.

giovedì 20 aprile 2017

IL SEGRETO DELLA BRDA

Cividale del Friuli, autunno 2009

Con l’approssimarsi del 9 novembre mi sembrava naturale, persino ovvio dedicare lo spazio riservatomi dalla redazione per il numero che chiuderà il 2009 alla “celebrazione” di quel fatale giovedì di 20 anni fa, il giorno che i tedeschi chiamano “Die Wende”, la svolta, ovvero la “caduta del muro di Berlino”.
Impossibile non prendere in considerazione il “tema” e cadere nella trappola, visto il tam tam mediatico a cui si è stati sottoposti quest’anno: pubblicazioni, memorie, analisi ex post, documentari, persino festival teatrali dedicati, figuriamoci poi per uno come chi vi scrive, la cui vita si è interamente svolta in una regione di confine profondamente incisa dalle vicende legate alle cause che prima hanno portato alla costruzione, poi al lungo permanere ed infine al crollo repentino del Muro.
Infatti con decisione avevo iniziato il “lavoro” fino a quando, intento a scrivere, l’occhio per un attimo si è posato su di un libro di poesie slovene che mi è stato recentemente regalato: “Alojz Gradnik – Pesmi” (Poesie).  
Di botto ho pensato che forse era meglio commemorare la caduta del Muro gettando nel cestino virtuale del PC il lavoro fin lì svolto, come gli effetti del crollo del comunismo fecero sulla mia avviata tesi di laurea sul commercio italo-jugoslavo iniziata nel settembre 1989 e finita nella spazzatura reale nell’estate del 1991 per la non immaginabile e sanguinosa fine della Repubblica Federativa Socialista di Jugoslavia.
Cosa mai potevo aggiungere che non sapesse di già sentito e di già detto? Meglio farsi venire qualche idea meno scontata; così ho cancellato il file, sono sceso in strada, ho preso l’auto e sono partito da Cividale in direzione Venko per raggiungere il borgo di Medana nella Goriška Brda.
Con questi pensieri sono arrivato a Medana, piccolo borgo costruito intorno alla Chiesa sulla cima di una delle tante colline che costituiscono la Brda, e ho raggiunto la casa dove è nato e vissuto il poeta Alojz Gradnik; l’edificio si trova fuori dal borgo ed è attualmente in stato di abbandono,   nonostante nel giardino si tenga ogni anno in estate dal 1998 un festival internazionale di poesia a lui dedicato.
Il posto è magico: sedersi e rimanere in silenzio a scrutare all’orizzonte i riflessi del mare Adriatico che viene limitato dalla pianura friulana la quale a sua volta, senza discontinuità oltrepassa la conca di Gorizia e incontra le riva del mare slavo che termina a Vladivostock, è un esperienza da provare anche per gli animi meno sensibili alle domande a cui tutti, prima o poi, cerchiamo vanamente una risposta convincente.
Alojz Gradnik nacque a Medana il 3 agosto 1882 e morì a Lubiana il 14 luglio 1967; il padre nato a Trieste era sloveno e in povertà si trasferì nel Collio dove fece una fortuna con la coltivazione della vite, mentre la madre, anch’essa di umili origini, era friulana e proveniva da una famiglia residente a Medea.
Il padre mandò il giovane Alojz  prima a Gorizia per frequentare il prestigioso e plurilingue Ginnasio di Stato e poi a Vienna, dove nel 1907 conseguì la laurea in legge e si avviò alla professione di magistrato.
Dal 1907 al 1909 operò in Cormons e le sue lingue veicolari furono l’italiano e il friulano, tanto che nel 1957 in occasione del Congresso annuale della Società Filologica Friulana in Cormons, nel numero unico di “Sot la Mont e sot la Nape” ricordò i suoi parenti friulani e la latinità del periodo cormonese.
Successivamente dal 1909 al 1920 prestò servizio a Pola, a Gorizia ed in altre località minori del litorale, per poi emigrare nel Regno di Jugoslavia a seguito della fine dell’Impero di Austria-Ungheria e del passaggio del Goriziano all’amministrazione italiana; a Belgrado fu consulente del Ministero della Giustizia e dal 1936 al 1941 a Zagabria fu membro della Corte di cassazione con giurisdizione sui territori già facenti parte dell’Impero asburgico.
A seguito dell’invasione della Jugoslavia da parte delle forze dell’Asse e la creazione dello Stato indipendente di Croazia, le autorità fasciste di Zagabria lo espulsero quale persona indesiderata ed Alojz Gradnik trovò riparo a Lubiana, dove le autorità italiane, lo fecero internare nel campo di Gonars; terminata la seconda guerra mondiale, nonostante Gradnik fosse sempre stato un convinto antifascista, un simpatizzante del Fronte di Liberazione Nazionale ed avesse persino scritto dei poemi che sostenevano la lotta di liberazione contro i nazi-fascisti, il regime comunista jugoslavo lo costrinse ai margini della vita sociale a causa del suo intimo sentimento religioso e per lo stile dei suoi scritti ritenuti troppo ispirati ad una visione del mondo conservatrice e troppo basata sulle antiche tradizioni e quindi non conformi al realismo socialista.
Solamente in seguito alla caduta del regime e alla nascita del nuovo stato Sloveno sovrano, la figura di Alojz Gradnik è stata “scoperta” ed elevata al rango di poeta della nazione slovena, tanto che il recente studio dei suoi scritti ha notevolmente influenzato la poetica dei poeti sloveni contemporanei.
Passeggiando per il giardino della sua casa io credo che definire Alojz Gradnik un poeta sloveno, sia riduttivo, a meno di non considerare la popolazione di lingua slovena che abita da secoli il Litorale e la Brda per quello che è: un’incredibile spugna che, mantenendo e difendendo fieramente le sue tradizioni linguistiche e culturali, ha saputo assorbire fecondamente gli echi delle tradizioni linguistiche e culturali a lei contermini ed in primis quelle del mondo latino e friulano.
Alojz Gradnik ne è testimone vivente: i suoi natali ove si è mescolato il sangue sloveno a quello friulano, le vicende storiche che hanno fatto sfondo non neutro alla sua vita, la sua copiosa opera letteraria in lingua slovena tutta tesa al “canto” dei valori che non mutano nei secoli nonostante il progresso e soprattutto la sua opera di traduttore poligolotta.
Nonostante le pene inflitte alla sua condizione umana e professionale dal regime fascista, Alojz Gradnik fu grande amante della letteratura italiana al punto da tradurre in sloveno i primi due canti della Divina Commedia e diverse opere di Francesco Petrarca, Michelangelo, Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi, Giosuè Carducci, nonché dal friulano allo sloveno le poesie di Novella Cantarutti, Aurelio Cantoni e Dino Virgili.
Alojz Gradnik oltre allo sloveno, al friulano, all’italiano parlava correntemente in tedesco, serbo-croato, inglese e francese e conosceva il russo, l’ungherese, lo spagnolo, il latino, il greco antico e studiò diverse lingue orientali tra cui il sanscrito, il persiano ed il cinese mandarino; l’opera di mediazione culturale tra la letteratura mondiale e quella slovena compiuta dal poeta di Medana è straordinaria, se si pensa che grazie a lui in Slovenia furono fruibili in lingua slovena le opere di Tagore, Rolland, Omar Khayyam, Chechov, Petöfi, Garcia Lorca, Ramon Jimenez e di molti altri ancora.
Dalla casa di Alojz ho fatto a piedi poche centinaia di metri e ho raggiunto il cimitero dove riposano le spoglie di questo “grande”, certamente sconosciuto ai più ma la cui opera e la cui vicenda umana, penso possa rappresentare nei secoli dei secoli, un luminoso esempio.
Ecco svelato il segreto che un animo sensibile potrà far suo vagando senza meta tra i tanti piccoli paesi arrampicati sui dolci colli della Brda.
Sono rientrato a Cividale in tarda serata, constatando a ritroso come passando il “confine”, il paesaggio umano perda ai miei occhi i toni dolci e curati della Brda  per scemare nell’abbandono e nella tristezza: l’esatto opposto di ciò che accadeva 20 anni fa, quando facevo in senso contrario quel viaggio per riempire il serbatoio della mia auto, prima della caduta del muro di Berlino e l’inizio de “Die Wende”.    

 ALOJZ GRADNIK

RIVA DEGLI SCHIAVONI

Mostravi rispetto per gli armeni
e per i torvi schipetari dalle lunghe gambe,
per i neri africani, per gli imperatori di Bisanzio
e per tutti gli elleni infedeli e sanguemisti.

Invece, noi sloveni, cos’eravamo per te?
“Degli Schiavoni”. E’ il segno del disprezzo
un tal nome? Siamo stati barbari
forse, servi per te a buon mercato?


Apri il libro della Storia!
Chi ti ha dato per la tua laguna i tronchi
da lunghi secoli ormai lambiti dal mare?

Chi ti ha difeso dalla luna musulmana,
chi guidava le tue navi alla vittoria,
e poi – da dove veniva il tuo doge Grandenigo?


EROS – TANATOS

Ti ho bevuta ma non sino alla fine, Amore.
Come vino profumato di dolci viti
t’ho gustato tanto da inebriarmi
e da non capire che tu sei la Morte.

Ho guardato nelle paurose tenebre dei tuoi abissi:
ma avendo lo sguardo velato dall’amarezza
non ho visto, o Morte,
che sei tu il più segreto Amore.


martedì 18 aprile 2017

UNA STORIA ... VERA

Praga, giugno 2006

L’appuntamento con la nostra protagonista è fissato per le 18,00 di questa sera, presso il suo piccolo appartamento situato nel centro della Città Vecchia e così ho approfittato per perdermi, come consuetudine, tra i vicoli di Praga, con il medesimo stupore e con il batticuore di sempre, interrogandomi sulle ragioni di questi stati d’animo, che mi accompagnano ogni volta che la sorte mi concede di passeggiare liberamente e senza meta per queste vie.
Dopo aver gustato un paio di buone birre in uno dei tanti bar all’aperto che colorano la piazza di Staro Mesto, assorto in tali pensieri senza trovare neanche questa volta una soluzione convincente e mentre mi domando se per il cuore di questa Città meravigliosa siano state più pericolose e devastanti le invasioni degli eserciti stranieri, a partire dalla guerra dei trent’anni sino a giungere a quella sovietica del 1968, o lo siano quelle che ormai quotidianamente si verificano dal 1990 ad opera di orde di turisti giunti da ogni parte del pianeta, i battiti dell’orologio della Torre bruscamente mi segnalano che è tempo di fare la conoscenza di Vera Caslavskà.

Buonasera Signora Caslavskà e grazie per avermi accordato questa intervista.

Buonasera. Lei è davvero fortunato… lo sa? Non ringrazi me comunque, ma mia figlia Radka, l’unica persona di cui mi fidi e a cui permetto solitamente di farmi visita qui a Praga, quando non sono a Bohnice, a curare la mia depressione.. Se ho deciso di parlare con lei dipende solo dalle insistenze di Radka, che a quanto pare ha un debole per l’Italia e per gli italiani mezzi matti come lei… Non si aspetti però da me grandi cose o chissà quali rivelazioni.. se è qui per questo rimarrà molto deluso, prima lei dei suoi lettori.

No, no… non cerco lo “scoop”,  ma solo di portare in Italia la sua storia raccontata dalla sua voce…  Radka mi ha lungamente parlato della sua infanzia Signora Caslavskà, trascorsa durante gli anni ‘40 in una Praga appena uscita dalla guerra… Lei cosa ricorda di quel periodo?

Non molto per la verità, visto che sono nata il 3 maggio del 1942… più che fatti precisi ricordo suoni, melodie… nonostante le difficoltà di quel tempo nel soddisfare i bisogni primari e la famiglia numerosa, mia madre volle che io ed i miei quattro fratelli imparassimo ad amare la musica, addirittura ancor prima delle persone: ci diceva che la musica era la strada più diretta per conoscere la nostra anima ed i nostri sentimenti e che quello era ciò che più contava nella vita… magari qualche giorno poteva mancare il cibo alla nostra tavola, ma il nostro maestro di violino veniva regolarmente saldato...

Una musicista mancata allora…

No, assolutamente… la musica mi piaceva solo ascoltarla, fui proprio una delusione per mia madre.. la mia anima, il mio essere, trovavano la loro via per esprimersi compiutamente attraverso la danza, la musica era solo la scintilla che accendeva la fisicità…

E all’inizio questa “fisicità” si manifestò attraverso la pratica del pattinaggio artistico… Giusto?

Si, è esatto; tutti i miei istruttori dicevano che ero una predestinata, che in quella disciplina avevo un futuro radioso. Quell’astro si spense a soli quindici anni, quando un fortuito incidente in allenamento, oltre che rischiare di segnare il mio viso in modo permanente,  mi fece abbandonare per sempre i pattini…

E qui inizia un’altra storia, la sua storia. Il suo talento viene invece messo a frutto nella ginnastica artistica, dove sotto la guida della futura campionessa olimpica di Roma 1960, Eva Bosakovà, entra in breve a far parte della nazionale del suo paese.. e qui mi limito a leggere l’almanacco: ottava ai Mondiali 1958, oro europeo alla trave nel 1959, ottava nell’individuale e sesta alla trave a Roma 1960 gareggiando assieme alla sua maestra, cinque ori europei sia nel 1965 che nel 1967, tre ori olimpici a Tokio 1964 e quattro successi mondiali tra il 1962 ed il 1966… poi arriva la consacrazione definitiva a Città del Messico, Olimpiadi 1968..

Il volto di Vera Caslavskà a questo punto si contrae in una smorfia, ed i suoi occhi, che mentre procedevo in quell’elenco di trionfi sportivi si erano fatti via via sempre più gonfi, fissano ora le mille guglie ed i tetti di Praga visibili dalla finestra del suo piccolo e scarno appartamento, e rilasciano due lacrime, che scorrono veloci tra solchi della pelle del suo viso…
Il silenzio nella stanza, in quel momento, sembra urlare più della folla dei palazzetti e delle palestre che hanno assistito alle sue vittorie e da parte mia l’imbarazzo cresce… mi sento bloccato dalla paura nel formulare la prossima domanda…  Fortunatamente è Vera che mi anticipa…

Prima di Città del Messico accadono molte altre cose… non so cosa lei possa sapere e comprendere di quello che fu la primavera del 1968 per noi praghesi…mentre a occidente ovunque i giovani si ribellavano per abbattere il “sistema capitalistico” sventolando le bandiere ed i simboli del comunismo, nel nostro paese un’intera società e non solo le nuove generazioni, accoglievano con entusiasmo le timide auto-riforme che il regime comunista aveva lanciato dall’alto e per portare quello stesso regime ben oltre le sue intenzioni e con una velocità non compatibile nel mondo del 1968…

Queste però sono considerazioni con il “senno di poi”.. mi permetta signora Caslavskà… allora mi pare voi tutti vi illudeste che il sistema si potesse trasformare, diciamo così, senza colpo ferire. Anche lei se non sbaglio, assieme agli intellettuali e a molte altre personalità del suo paese, firmò il “Manifesto delle duemila parole”, il famoso documento con cui si chiedeva un deciso passaggio verso un sistema democratico e la fine di ogni forma di censura…

Guardi, nella primavera del 1968 io avevo 26 anni, per di più ero innamorata di un mezzofondista e passavo quasi interamente le mie giornate in palestra senza interessarmi di politica.. però respiravo l’aria che c’era nel mio paese ed era impossibile, per chiunque fosse onesto con se stesso, non parteciparvi e non lasciarsi trasportare dalla speranza e anche se, come lei forse saprà già, quella firma in seguito mi causò un mare di guai, la rifarei comunque ogni giorno della mia vita!

Nuovamente il volto della donna sembra essere distorto dal ricordo e a stento Vera trattiene le lacrime, anche se questa volta, i muscoli del viso sembrano essersi contratti per la rabbia e non per la commozione, come qualche momento prima.
Segue un altro silenzio carico di grida e rumori, gli stessi che Vera Caslavkà sembra udire anche adesso, che i suoi occhi si sono posati di nuovo sulle mille luci che iniziano ad illuminare la città al calare delle prime ombre della sera.
Sono i rumori della notte del 20 agosto 1968, dominata in tutta la Cecoslovacchia dallo sferragliare dei seimila carri armati del Patto di Varsavia, dal rombo dei Mig a bassa quota, dal crepitare isolato delle raffiche dei Kalashinokov e dalle urla della folla incredula.
Come prima, Vera non attende la mia prossima domanda, e riprende il suo racconto.

Come avevano previsto quelli che la maggioranza di noi definiva ingenuamente  pessimisti, nel mese di agosto arrivarono i russi con i loro carri armati per rimettere le cose a posto… e le rimisero, eccome se le rimisero…scatenarono una vera e propria caccia alle streghe! Dopo neanche una settimana uno dei miei fratelli, Vaclav, fu prelevato dalla polizia segreta con l’accusa di propaganda antisovietica ed io, il giorno dopo, temendo di subire la stessa sorte, lasciai il mio campo di allenamento in Moravia per raggiungere il piccolo paese di Sumperk, tra i monti Jeseniky, vicino ad Ostrava…

Ma se non sbaglio mancava meno di un mese all’inizio delle Olimpiadi di Città del Messico? Come fece ad allenarsi?

Veramente non ero neppure sicura di potervi partecipare, data la situazione temevo per la mia incolumità… Passai quelle lunghe giornate, nascosta come un ladro, spostando sacchi di patate per mantenere allenata la mia muscolatura e facendo esercizi alla meno peggio…
Ma all’ultimo momento il restaurato regime ritenne che io le fossi più utile in Messico a rappresentarlo, che in Cecoslovacchia nascosta o in carcere… in fin dei conti all’epoca ero un’atleta di fama internazionale! Così qualche giorno prima dell’inizio dei Giochi Olimpici un’autovettura della Polizia mi prelevò per portarmi direttamente all’aeroporto di Praga, destinazione Città del Messico…

Il volto di Vera sembra farsi per un attimo raggiante.

E qui l’incredibile, nonostante i precari e rudimentali allenamenti dell’ultimo mese, il trionfo assoluto: 4 medaglie d’oro, sempre sul gradino più alto del podio, con le ginnaste sovietiche più in basso costrette ad udire l’inno nazionale ceco!

Come capita spesso anche a voi italiani nello sport,  è nei momenti di difficoltà più estrema che si trova il modo di esprimere il meglio di se stessi; è davvero sorprendente quello che è in grado di fare il nostro corpo quando entra in simbiosi con il nostro animo e la nostra più profonda volontà!

Ne devo prendere atto senza fiatare!  Nessuno a Città del Messico potrà mai dimenticare la sua finale dell’esercizio a corpo libero, sulle note della celeberrima “Raspa”, la danza messicana del sombrero!
Vera abbozza un sorriso, poi il suo sguardo sembra fissarsi sul vaso di fiori appoggiato in mezzo al tavolo del soggiorno... un nuovo silenzio che grida…
Dalla strada giungono voci di giovanotti che fanno baldoria… nella birreria al piano terra dell’edificio c’è una festa, si festeggia un amico che deve sposarsi di lì a pochi giorni..
Il volto di Vera è divenuto di  marmo; improvvisamente, i suoi occhi sembrano animarsi di nuovo e mi fissano, mi scrutano in profondità… lei sa che io conosco il resto della sua storia e cerca di capire che razza di uomo sono… se avverto che i suoi nervi sono resi fragili e tesi dalla vita come le corde del violino che la madre voleva imparasse a suonare da bambina…
 Ho capito che andare oltre questa soglia non sarebbe giornalismo, ma diventerebbe sciacallaggio, e così ho deciso di non proseguire l’intervista; questa volta sono io ad interrompere l’ennesimo silenzio che parla.

Signora Caslavkà, l’intervista è terminata…

Prima che io abbia il tempo di continuare, la donna che la stampa occidentale definì La donna dell’anno 1968 insieme a Jackie Kennedy, si è già alzata dalla sua sedia, ha allungato la sua mano versa la mia e l’ha stretta con dolcezza e teneramente mi ha baciato la guancia e accompagnandomi alla sua porta mi ha sussurrato:

Si faccia raccontare il resto della mia storia da mia figlia Radka e, se ritiene che gli italiani non siano tutti matti come lei, la scriva pure sul suo giornale. Arrivederci.

Dopo essere rimasto inebetito per qualche minuto dinnanzi alla porta chiusa della casa di Vera, mi sono di nuovo perso nei vicoli di Staro Mesto prima di raggiungere e passare il Karluv Most e finalmente, con l’animo in un tumulto crescente, ho raggiunto il mio albergo nella Nerudova Ulica a Mala Strana.
Non riesco a togliermi di dosso quel fremito e l’aumento del battito cardiaco che quella stretta, quel bacio di quella donna di 64 anni, tormentata dal male oscuro della depressione,  mi hanno provocato… Eppoi le sue ultime parole: “se gli italiani non sono tutti matti come lei, scriva pure il resto della storia”… la mia passeggiata notturna per Praga certo non ha attenuato i dubbi,  la strana magia  di quell’incontro e non mi ha chiarito l’opportunità di pubblicare il resto della storia.

Cividale del Friuli, luglio 2006

Sono rientrato in Italia da neanche due giorni, ho letto i giornali, ho ripreso la quotidianità  e ho subito  telefonato a Radka  per comunicarle la decisione di scrivere un seguito dell’intervista sulla base delle notizie che lei mi ha dato dopo l’incontro con Vera, pregandola di salutare affettuosamente sua madre e di ringraziarla per aver dedicato ad un matto italiano un po’ del suo tempo.

Dunque, dopo aver vinto l’ultima medaglia d’oro a Città del Messico ed averla dedicata ad Alexander Dubček, Vera Caslavskà sposò con rito cattolico, dopo il rito civile all’Ambasciata cecoslovacca, nella cattedrale di Plaza Xocalo nella capitale messicana,  il suo collega olimpionico  di mezzofondo e primatista mondiale dei 2000 metri, Josef Odlozil. Partecipò alla cerimonia nuziale il Presidente della Repubblica messicana Gustavo Diaz Ordaz, mentre nella piazza antistante la Chiesa si erano assiepate decina di migliaia di persone, giunte spontaneamente per festeggiare gli sposi.
Al ritorno in Patria, il restaurato Regime presentò  il conto da saldare per il trionfo messicano: divieto di rilasciare in interviste, divieto di espatriare ed esclusione dalla squadra nazionale; fino al 1974, quando la Caslavka ritrattò la sua firma al Manifesto delle 2000 parole, sarà privata anche della possibilità di allenare e lavorare nel settore dello sport.
Nel 1979, su richiesta del governo messicano, il regime la autorizzò a recarsi con il marito in Messico, per allenare la nazionale di quel paese; la permanenza in Centroamerica durò poco, Vera rientrerà in Patria nel 1980, quando il fratello Vaclav, in seguito alle torture subite dalla polizia politica, morirà a soli 33 anni ed i genitori, non riuscendo a resistere al dolore, morirono anch’essi a distanza di pochi mesi l’uno dall’altro.
Nel 1987, termina bruscamente anche il matrimonio con Odlazil e Vera resta sola con i suoi due figli Martin e Radka.
Il regime si frantuma nel 1989, in seguito alla caduta del muro di Berlino ed il nuovo Presidente della Repubblica Havel vuole vicino a sè Vera Caslavska, offrendole diversi incarichi di prestigio e lei accetta quello di Presidente del Comitato Olimpico Nazionale, carica che ricopre dal 1990 al 1993, quando viene designata quale membro del Comitato Olimpico Internazionale.
Ma non c’è lieto fine; un’altra notte d’estate risulterà fatale: quella del 6 agosto 1993, quando in seguito ad una rissa scoppiata tra giovani in preda ai fumi dell’alcol nella discoteca di Domasov, il figlio diciannovenne Martin ha un diverbio con il padre ed ex marito Josef Odlazil. Il diverbio degenera ed il padre, colpito da un pugno del figlio, nel cadere in terra riporta un trauma cranico, che prima lo conduce al coma ed infine, dopo 4 settimane, alla morte.
Il figlio Martin viene condannato per omicidio preterintenzionale a 4 anni di reclusione e, nel 1997, a seguito anche di una petizione sottoscritta da diversi firmatari dell’Appello delle 2000 parole tra cui Emil Zàtopek, viene graziato dal Presidente Havel.
Nonostante Vera non abbia né firmato e né chiesto nulla per il figlio, la seconda moglie di Josef Odlazil, la accusa sulla stampa di aver indotto il Presidente all’atto di grazia.
L’opinione pubblica si divide e qualcosa si spezza definitivamente anche in Vera Caslavska, che da allora trascorre, senza concedere interviste, la sua vita tra il suo appartamento nel centro di Praga e la Casa di cure psichiatriche di Bohnice.
Fino al 30 agosto 2016, quando da Praga ha spiccato l'ultimo volo verso l'Eternità.

L’angelo disperato di Città del Messico.

giovedì 13 aprile 2017

IL CAPITANO DELLO SLAVIA

Buongiorno, signor Kliment... da dove cominciamo?

Dal principio, come in tutte le storie! Naturalmente. Mi dica pure dove inizia la sua allora...
 La mia storia incomincia da quando sono venuto al mondo, come per tutti... Sono nato nel quartiere di Malastrana, a Praga il 15 marzo 1939... Mi permetta, mica una data qualsiasi... quel giorno il suo paese venne invaso dalle truppe della Wehrmacht! Dunque la sua prima infanzia si è svolta nel paese durante l’occupazione nazista! 

Le credo sulla parola,  ricordo poco o nulla in merito... quello che so l’ho appreso, come Lei suppongo, dal racconto dei miei genitori e dalla lettura di molti libri.. quindi non credo valga la pena di insistere su questo argomento. Eppoi, invasioni e dominazioni straniere non sono mai state situazioni “straordinarie” nel mio paese, forse l’anomalia sono i periodi di... “autogestione”!

Me l’avevano detto che Lei era un osso duro! Incominciamo allora dalla fine! Se non sbaglio la sua storia ha subito la svolta decisiva a seguito di una delle tante invasioni subite dal suo paese, ovvero quella sovietica dell’agosto 1968..

Come corre Lei! senza conoscere gli antefatti vuole subito passare alla fine? Ma che razza di giornalista è?

Mi arrendo... questa volta il diavolo è molto piu’ brutto di come me l’avevano dipinto! Senta, facciamo come è uso in Italia durante gli esami universitari: mi parli di un argomento a piacere!

Davvero si fa così in Italia? Un bel posto dove dare esami dev’essere... comunque lo stesso metodo lo usavo anch’io nei pochi anni che in cui ho praticato l’insegnamento, una volta terminati gli studi universitari; prima volevo conoscere quello che sapevano i miei studenti, in seguito con le mie domande verificavo fino a dove sapevano ed infine andavo alla scoperta di quello che non sapevano...

Lei, il mitico capitano della squadra di calcio dello Slavia Praga, il centravanti Kliment era un insegnante??

Si, di letteratura greca e latina... ma non lo sapeva? Non esistevano calciatori o sportivi professionisti durante il regime comunista.. eravamo tutti dei “dilettanti” con un altro lavoro, o meglio con un vero lavoro. Buffo, non trova? Mentre nell’Occidente i calciatori iniziavano a vivere di solo calcio, noi all’Est, che avevamo inventato il professionismo in questo sport già a partire dalla fine degli anni ’20, eravamo tornati ad essere dei dilettanti..

Mi racconta qualcosa di quel periodo?

Le squadre piu’ seguite nella Cecoslovacchia prima dell’avvento del regime comunista erano lo Sparta e lo Slavia Praga,  clubs divisi da una sana rivalità sportiva che nasceva dalla provenienza dei rispettivi giocatori; mentre lo Sparta era l’espressione dell’alta borghesia della capitale e nella sue fila militavano i suoi ricchi figli, lo Slavia trovava grande seguito nelle classi meno abbienti e che dalla periferia si erano trasferite a Praga. In pratica loro erano i ricchi e noi i poveri... per semplificare le cose. Dalla creazione del campionato professionistico nel 1925 e fino al 1947 però i risultati del campo spesso sovvertirono i valori sociali... lo Slavia fu campione di Cecoslovacchia ben 13 volte su 23 edizioni disputate!!  Lo sport era così diventato un mezzo di riscatto sia economico che sociale.

E dopo cos’è accaduto? Curiosando tra le statistiche ho scoperto che dal 1947 ad oggi lo Slavia ha vinto un solo titolo e per di piu’ nel 1996!

Dopo la fine della guerra e con l’instaurazione del regime comunista la situazione mutò radicalmente. Naturalmente fu vietato il professionismo e qualsiasi pratica sportiva passò sotto la gestione dello Stato e quindi del Partito, come qualsiasi altra attività di interesse collettivo. La “scomparsa” della borghesia cambiò l’essenza dello Sparta, che divenne semplicemente la squadra del Partito, mentre lo Slavia divenne di colpo la squadra di coloro che avversavano il regime, attraendo tra i suoi giocatori diversi intellettuali e dissidenti in genere. Questa tendenza divenne molto forte a partire dalla fine degli anni ’50, proprio quando io feci il mio debutto nel massimo campionato.

E Lei entrò nello Slavia come intellettuale o come dissidente?

Io vi entrai semplicemente perchè mi piacevano la foggia della casacca ed i suoi colori sociali, il bianco ed il rosso! A 10 anni, quando entrai nelle squadre giovanili dello Slavia, ero un gracile monello molto piu’ simile ad uno dei ragazzi della via Pal che ad un filosofo e l’unica dissidenza che praticavo con determinazione era nei confronti dei miei genitori, quando questi insistevano perchè andassi a letto nel pomeriggio.
Quando poi, irrobustito nel fisico dalla pratica sportiva e nella mente dalle letture “proibite” dei classici greci e latini, ho debuttato a 20 anni nel campionato, ho sempre e solo pensato che quello che stavo facendo era il gioco che più mi piaceva al mondo e che non avrei mai cambiato casacca, perchè con quella ero “sportivamente” cresciuto; una specie di seconda pelle, insomma... Nulla a che vedere nè con la politica, nè con l’economia, nè a ben vedere con il calcio di oggi.

I risultati della squadra furono però molto deludenti, retrocedeste addirittura in seconda divisione!

Come cercavo di spiegarLe, lo sport in quegli anni era un monopolio del Partito, che se ne serviva molto in campo internazionale per aumentare il prestigio del regime e dunque non erano tollerate “voci” alternative. Se lo Sparta era la squadra del Partito e l’esercito aveva pure fondato un suo club, il Dukla Praga, erano queste due che dovevano primeggiare e godere in Patria del seguito della maggioranza degli appassionati. Per un regime che era in grado di condizionare le semplici azioni e le più normali abitudini della vita quotidiana di milioni di individui, crede che fosse difficile dare qualche indicazione a qualche arbitro? O decidere la sorte di qualche giocatore troppo bravo in qualche squadra scomoda? E’ davvero così stupefacente?

No, non lo è... ha ragione, del resto oggi anche in Italia, nonostante il professionismo e l’apparente economia di mercato nel sistema dello sport, negli ultimi 14 campionati, 6 volte ha vinto la Juventus e 6 volte il Milan... Ritornando alla sua vicenda, nel 1966 però riusciste a ritornare nel massimo campionato...

Si, il regime si era dimenticato di noi, ormai pensava di averci messo fuori gioco ed in piu’ iniziavano anche all’interno del partito a farsi sentire, seppur timidamente, le voci che chiedevano un cambiamento, una maggiore apertura della società... i tempi erano ormai maturi per l’avvento di Dubček e per l’inizio della famosa “primavera”...

Già… la famosa primavera. Cosa ricorda, come sportivo, di quel periodo?

Dopo anni di immobilismo, improvvisamente, come un fuoco che divampa dopo aver covato sotto la cenere da tempo, tutta la società e quindi anche il mondo sportivo, furono percorsi da una grande euforia. In generale, ci si illudeva che quella serie di cambiamenti e di aperture, in principio introdotti timidamente e poi via via in un crescendo che lasciava stupefatti, potesse non aver fine e condurre il paese a riacquisire la propria sovranità. Come sportivi s’incominciava persino a considerare le nostre attività non solo in funzione delle maggiori possibilità che queste ci davano di viaggiare al di fuori del blocco sovietico, e quindi magari di chiedere asilo politico.

Possiamo definire quindi la “primavera” come una perestrojka ante litteram e Dubček un antenato di Gorbaciov?

La storia non si ripete mai allo stesso modo, così come tutti gli uomini sono nella stessa misura uguali ma diversi; quello che mi sento di dire a proposito di quello che Lei mi chi chiede è che sia perestrojka che “primavera” avevano lo stesso peccato originale: erano riforme decise e coordinate dall’alto, anche se la “primavera” ebbe un riscontro molto più intenso e partecipato nella società cecoslovacca dell’epoca, rispetto a quello della perestrojka, che lasciò praticamente indifferenti i popoli delle varie repubbliche dell’URSS, mentre mise in moto le varie “rivoluzioni” nei paesi satelliti sino a portare alla fine del blocco, con la caduta del muro di Berlino del novembre 1989.
Quanto al confronto che Lei fa tra Gorbaciov e Dubček, mi limito ad osservare che Gorbaciov era nella posizione di  potersi permettere di fare il Dubček, ma non certo viceversa.

Crede che ora sia il momento giusto per giungere alla fine della sua vicenda?

Si, il momento è giunto, se non altro perché il tempo che ho deciso di riservarle sta per scadere. Orbene, con l’arrivo della “primavera” lo Slavia era ritornato a gareggiare ai livelli che una volta gli erano abituali, conquistando il diritto a partecipare anche alle competizioni internazionali per la stagione 1968/1969 ed io mi ero fatto persino coinvolgere nel clima di libertà ed in qualità di esperto letterario avevo iniziato a collaborare con una delle numerose riviste a sfondo politico che allora nascevano come funghi, dopo il ritiro della censura nell’aprile del 1968. Per me era una sorta di rinascita, una perfetta simbiosi tra le aspettative dello sportivo e le aspirazioni dell’Uomo libero…

Poi, il 20 agosto 1968 i Russi troncarono quella specie di “rinascimento socialista”, sia per Lei che per il suo popolo. Giusto?

Più o meno. Ci sentimmo violentati e sbattuti di nuovo all’indietro… in pieno medio-evo. Molti erano assolutamente increduli, incapaci di accettare che i “compagni” avessero potuto farlo; in realtà altro non poteva essere che la logica e naturale conclusione, dati i tempi. Per quanto mi riguarda, non dovetti aspettare molto per capire cosa sarebbe accaduto in concreto alle nostre vite. Nel mese di novembre del 1968 fui prelevato al campo di allenamento da due uomini della polizia segreta e condotto alla centrale, dove venni trattenuto una settimana, prima che un funzionario mi chiedesse di firmare dei documenti, nei quali ritrattavo tutti i miei articoli scritti durante i mesi precedenti e di sottoscrivere una dichiarazione di lealtà allo Stato socialista.

Insomma le si chiedeva di mettere nero su bianco che si era accorto di essere stato un’idiota?

Piu’ o meno. Gli chiesi se avevo del tempo per pensarci; mi disse che se entro due settimane non firmavo quella “dichiarazione spontanea” potevo scordarmi di giocare al calcio e naturalmente di continuare ad insegnare nelle scuole: certo non era tollerabile che un nemico del popolo potesse continuare a svolgere delle mansioni così popolari e delicate, con l’aggravante che io ero anche da alcuni anni il capitano dello Slavia e che avevo dato un pessimo esempio durante i mesi precedenti. Mi invitò infine e non pensarci su molto, quelle dichiarazioni non sarebbero state pubblicate, ma solo tenute a disposizione nei loro archivi, che in fin dei conti era solo una questione burocratica e che dichiarazioni analoghe le stavano già firmando a centinaia in tutto il paese.

E Lei cosa fece?

Feci trascorrere invano quei quindici giorni e quando puntuali si presentarono al campo di allenamento, dissi loro che non avrei firmato. Dopo due settimane fui allontanato dalla squadra per scarso rendimento e persi il posto di lavoro di insegnante. Pensi che, siccome in Cecoslovacchia non era legalmente ammesso il licenziamento, mi sottoposero ad una visita medica di controllo, dove mi furono diagnosticate affezioni causate da turbe psichiche non compatibili con il lavoro che svolgevo. Pertanto anche il mio allontanamento dalla professione fu eseguito a “regola d’arte”, senza nessuna violazione di legge.
Dopo 2 mesi riuscì a trovare lavoro come imbianchino in una cooperativa e lì vi rimasi fino al 1990, quando dopo la definitiva caduta del regime fui assunto quale cronista sportivo da uno dei primi nuovi giornali.  Ironia della sorte, sono andato in pensione nel 1995, un anno prima che lo Slavia tornasse a vincere il suo primo campionato dopo il 1947!  Lei non può avere neanche l’idea di quale gioia avrei provato nel scriverne il commento!!

Ma perché non decise di abbandonare la Cecoslovacchia, come fece quasi tutta la sua squadra in quel periodo, che non rientrò da una trasferta di coppa giocata in Francia? Magari lì avrebbe potuto continuare ad insegnare o anche solo giocare ancora a calcio per qualche anno come professionista!

Perché io lo amavo e lo amo ancora il mio paese e non lo avrei cambiato con nessun altro posto al mondo, anche così imprigionato come lo fu dall’agosto 1968… Perché sarei dovuto andarmene? Lei crede che Loro siano stati in grado di rubarmi anche i colori del tramonto quando illuminano fiammeggianti le cupole dei palazzi della città d’oro? O pensa che abbiano potuto mettere sotto vuoto gli odori di Malastrana dopo una nevicata? E’ qui che ho voluto vivere ed è qui che  morirò! Così come non avrei mai indossato mai la maglia dello Sparta o del Dukla, io che ero il capitano dello Slavia. Io non ho voluto fuggire.. né dal mio paese né da me stesso; Mi hanno tolto il mio lavoro, i miei amici, il mio sport… ma non sono mai riusciti a togliermi il mio paese ed il mio diritto di dire no… ogni volta che ho voluto dire no. Lei penserà che sono stato un pazzo a rischiare la vita. Io Le dico che di una vita in maschera o peggio, di muta rassegnazione, non avrei saputo che farmene: meglio “essere” un insegnante che per vivere in pace con la sua anima ha deciso di “fare” l’imbianchino, che perdere la stima di se stessi per “fare” il professore ed il calciatore ed evitare di “fare” l’imbianchino! Ed ora mi vorrà scusare se, come avete inventato voi italiani nello sport, mi chiudo in silenzio stampa. Sono andato ben oltre il tempo che avevo deciso di riservarLe. Arrivederci e.. ora e sempre Forza Slavia!! Da noi è ancora solo uno slogan da urlare allo stadio… da voi non lo so!


Arrivederci. Mi inchino al coraggio e ai ricordi del capitano della Slavia… non posso non fare il confronto con il capitano della Roma e sussurarLe nell’orecchio quello che ho pensato!

mercoledì 12 aprile 2017

GEOGRAFIA POSTCOMUNISTA

Dedicare attenzione agli stati dell’ex blocco comunista può sembrare a prima vista un’operazione velleitaria o destinata a far sorridere, se pensiamo che ancor oggi in Italia, ma non solo, per i più Praga è rimasta sempre e comunque la capitale della Cecoslovacchia ed i suoi abitanti sono membri del popolo cecoslovacco. Recentemente mi è capitato di sentire (non al bar…) che il ceco e lo slovacco altro non sono che dei dialetti, delle varianti della lingua ufficiale, ovvero il cecoslovacco; udite quelle parole non ho resistito alla tentazione di chiedere agli interlocutori se sapessero indicarmi la collocazione geografica della Boemia e della Moravia, con i seguenti risultati: la Boemia è stata prontamente identificata grosso modo con la ex (per me, ma non per loro) Cecoslovacchia, essendone a loro dire un sinonimo,  mentre per la Moravia il percorso è stato molto più tortuoso ed è terminato con la seguente collocazione: un’imprecisata zona dell’Est Europa, sicuramente confinante con la Russia (credo venisse intesa l’ex Unione Sovietica) e forse con la Romania. Mi sono permesso di chiedere a lor signori se per caso non alludessero alla Moldavia; occhi sconsolati mi hanno fissato e dopo un attimo di silenzio imbarazzato, uno di loro si è fatto scuro in volto e mi ha rivolto un perentorio: “… ma che importa? Boemia, Moravia, Moldavia, sempre a est sono, o no? Sempre slavi sono, o no? Dunque stessa cosa sono!!” Improvvisamente mi è tornato alla memoria il successo che verso la fine degli anni ’80 ebbe una coppia di comici italiani, i gemelli Ruggeri, che durante la  trasmissione televisiva “Lupo solitario”  interpretavano, con il colbacco sulla testa ed un improbabile idioma protoslavo sottotitolato in italiano, i lettori del Telegiornale dell’unico canale televisivo di un’immaginaria repubblica socialista denominata Croda, la quale da ogni lato confinava comunque con l’Unione Sovietica. L’altro interlocutore fu ancora più brusco: “Ma non hai capito che ci voleva prendere in giro? Intendeva solo confonderci le idee e farci passare per ignoranti! Esiste la Moldavia! La Moravia non è una località od uno stato, ma il nome di un noto scrittore italiano: Alberto Moravia!! Smascherato!” “Questa ancora mi mancava, nel dizionario degli strafalcioni” ho pensato di botto, mentre sorridente e fingendomi colto in flagrante, annuivo: ”Ebbene si, mi avete beccato, questa volta l’avevo sparata proprio grossa, Vi chiedo scusa, non volevo offendere e per riparare propongo un brindisi ad Alberto Moravia!”. 

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