venerdì 30 luglio 2021

LA SVOLTA: 1990 -1991

Il caso ha voluto che questa settimana mi sia trovato a celebrare il martedì i 30 anni dalla prima edizione del  Mittelfest (19-29 luglio 1991) ed il giorno dopo i 19 anni di mio figlio. Le due circostanze ravvicinate hanno messo in moto una serie significativa di ricordi che a loro volta mi hanno portato ad alcune riflessioni che desidero condividere. Tutto è incominciato a Teatro quando, con mia grande e gradita sorpresa, l'attuale Presidente dell'Associazione Mittelfest, ha inteso leggere ai presenti durante l'incontro letterario-musicale organizzato per la circostanza, la lettera che l'allora Sindaco di Cividale Giuseppe Pascolini aveva inviato alla cittadinanza nei giorni immediatamente precedenti la prima edizione del Festival. Un passaggio di quel testo concepito 30 anni orsono e dunque figlio del suo tempo,  descriveva magistralmente il "sentire" di quell'epoca e lo sguardo tutto teso con grande ottimismo agli anni a venire: " ... improvvisamente questa Regione (il Friuli-Venezia Giulia ancora scritto con il trattino) si trova al centro di un mondo e non più alla periferia di ciò che una volta si chiamava mondo occidentale."

La Cividale in cui oggi vive mio figlio - trascurando per un attimo l'insistenza quasi biennale della pandemia da Covid-19 - è una cittadina di 11 mila abitanti e spiccioli in cui uno dei suoi monumenti più simbolici - il Tempietto Longobardo - fa parte del Patrimonio dell'Umanità della WHL dell'Unesco, da diversi anni è insignita della bandiera arancione del Touring Club Italiano, ogni anno da trenta a questa parte ospita un festival internazionale, dal 2016 non ospita più reparti dell'Esercito Italiano e oggi il dibattito politico si svolge attorno alla riconversione del complesso dell'abbandonata Caserma Francescatto, un tempo addirittura sede di Brigata Meccanizzata con tanto di Generale nell'ufficio Comando. 

Un luogo in cui nella centralissima piazza Paolo Diacono la fontana con i quattro leoni e la Diana proveniente dal parco di villa Manin è tutta circondata da bar e caffè con tavolini all'aperto come nelle grandi città europee e che dista ancora circa 25 KM da un confine, ma che dal 2007 è diventato tale solo sulla carta e passato il quale ci si può liberamente muovere per tutta la Mitteleuropa fino ai Carpazi e al Baltico.  

Un centro in cui dal 2000 nel mese di agosto, il giorno del suo patrono, quasi tutta la popolazione scende in costume medievale nelle vie e nelle piazze per un fine settimana e sa trasformarsi nel palcoscenico dell'evo medio, riempendosi di migliaia e migliaia di turisti.

Una cittadina che da un anno è stata scelta per sviluppare un progetto sportivo di respiro sovraregionale nel basket, con l'arrivo delle Aquile Giallobù targate Gesteco che hanno già sfiorato la promozione in serie A2 nel palazzetto di Via Perusini, impianto costruito a partire dal 2001 dove prima insisteva parte del complesso dismesso dell'Italcementi.  

Per cui, agli occhi di mio figlio e dei suoi coetanei, quella frase forse può sembrare banale e priva del valore, anche visionario, che invece aveva nel momento in cui fu trascritta.

La Cividale in cui vivevo quando avevo più o meno l'età di mio figlio era sempre una cittadina di 11 mila abitanti e spiccioli ma in Piazza Paolo Diacono c'era solo un bar con qualche tavolino all'aperto e la fontana di Diana sembrava un pezzo della Fortezza Bastiani, isolata in mezzo al deserto dei Tartari.

E Cividale stessa era una sorta di Fortezza Bastiani, dov'erano acquartierati permanentemente da 40 anni 2000 militari dislocati tra 4 caserme, tutti dispiegati nell'attesa di un possibile attacco da est dei "Tartari", attacco che fortunatamente mai ci fu.     

Era un luogo a 25 km da un confine militarmente controllato e che segnava ai nostri occhi ignoranti e ingenui "la fine della civiltà e del mondo libero", un posto inteso davvero come il capolinea di qualsiasi possibile viaggio.

Poi nel 1989 il muro di Berlino crollò improvvisamente come un castello di carte e tutte le coordinate valide fino ad allora incominciarono a sparire prima dalle mappe geografiche e poi, molto più lentamente, da quelle mentali per cui si aprì un epoca in cui il futuro sembrava fatto di qualsiasi possibilità, in cui ogni cambiamento era già lecito prima che a portata di mano.

L'anno seguente fu la Cultura ad interpretare al meglio quel sentimento e Cividale, assieme a Villa Manin di Passariano, ospitò dal 2 giugno al 30 settembre del 1990 la prima mostra nazionale su "I Longobardi", che ebbe un successo di pubblico tale da essere prolungata ancora per due mesi oltre la data inizialmente calendarizzata mentre si chiudevano le caserme e ai militari iniziarono a sostituirsi i turisti e la città iniziò a rifarsi il trucco.

L'anno dopo fu l'arrivo straordinario di Mittelfest a consolidare la rinascente vocazione di Cividale all'ospitalità e ad essere luogo ideale di scambio fecondo di idee e culture, iniziando a sbarazzarsi prima del velo che per anni aveva nascosto le sue bellezze per poi più decisamente metterle a nudo ed abbellirle, cercando di diventare di anno in anno sempre più seducente.

Forse Cividale e il Friuli Venezia Giulia non sono ancora diventate il centro di un nuovo mondo, come auspicava il Sindaco Pascolini nel 1991, ma sicuramente non sono più la periferia del mondo occidentale e per questo chi ha ideato e poi, a qualunque titolo, contribuito a realizzare la Mostra dei Longobardi e il Mittelfest, sono stati gli Artefici di questo "miracolo", a cui noi tutti, cividalesi di ieri e di oggi dobbiamo guardare se non altro con riconoscenza. 

  

  

     

martedì 20 luglio 2021

JOHN KOENIG E IL PIANETA COVID-19

Negli anni '70 del secolo scorso (!) l'infanzia e l'adolescenza mia e quella di tanti coetanei fu segnata da una serie Tv ante litteram che già dal titolo - Spazio 1999 - nel tempo presente parrebbe a prima vista "old" e irrimediabilmente "out". A beneficio dei contemporanei che non conoscono la saga, qualche breve informazione: ideata da nel 1973 da Gerry e Sylvia Anderson, coprodotta dalla britannica ITC con la RAI, fu trasmessa in Italia in due stagioni da 24 episodi di 50 minuti per  stagione sui canali RAI 1 e 2 da gennaio 1976 a marzo 1980 e narrava l'odissea nello spazio degli abitanti della base lunare ALPHA a partire dall'allontanamento del nostro satellite oltre i confini del sistema solare, dopo che il 13 settembre 1999 una terrificante esplosione causata dall'innalzamento repentino ed inatteso del campo magnetico nei depositi lunari di scorie nucleari provenienti dalla Terra, aveva fatto uscire la Luna dall'orbita terrestre. Il successo della prima stagione fu enorme, mentre la seconda ne segnò il declino a causa della separazione tra Gerry e Sylvia Anderson e al subentro dei capitali privati del produttore americano Fred Freiberger che comportò un minor budget con conseguente perdita di alcuni personaggi chiave, set ridotti e meno accurati con un taglio diverso nella sceneggiatura di episodi divenuti copia uno dell'altro e dai dialoghi meno filosofici e assai più banali. I personaggi principali della prima serie, quali il comandante John Koenig, la dottoressa Helena Russell, lo scienziato Victor Bergman e il capitano delle Aquile Alan Carter divennero delle icone ed erano interpretati rispettivamente da attori del calibro di Martin Landau, Barbara Bain, Barry Morse e Nick Tate, così come di primo livello erano le guest-star che arricchivano i singoli episodi: Christopher Lee, Joan Collins, Peter Cushing, Catherine Schell e Orso Maria Guerrini, solo per citarne i più noti.     
Tutta la prima stagione ruotava intorno al desiderio dei "naufraghi" di trovare un pianeta compatibile per condizioni alla vita antropica e sui cui riprendere un'esistenza umana, abbandonando la claustrofobica clausura in cui erano relegati sulla base lunare; naturalmente il desiderio rimane frustrato per tutta la serie, perché ogni incontro con luoghi e civiltà aliene, anche quelli all'inizio più promettenti, cela sempre un incompatibilità di fondo nei casi migliori e addirittura una minaccia per la sopravvivenza di Alpha stessa nelle altre situazioni. 
E così se da un lato ogni episodio si concludeva invariabilmente con "e gli alphani continuano il loro viaggio nello spazio infinito...", dall'altro ogni nuova puntata iniziava con la speranza di aver finalmente trovato o di essere vicini alla soluzione del loro confinamento.
Ieri sera, dopo l'ennesimo notiziario che diffondeva la prospettiva di nuove e prossime probabili restrizioni dovute alla ripresa nella diffusione e nel numero dei contagi da COVID-19, il mio sguardo spostandosi con rassegnata frustrazione dal televisore al soffitto ha incrociato per caso il cofanetto che costudisce i DVD della prima stagione (rigorosamente!) di Spazio 1999.
Altro che "old" e "out"!!! La serie di John Koenig and Helena Russell è stata  - in profondità - molto più profetica della  saga prodotta dalla BBC sempre nel 1975  dal cristallino titolo "I sopravvisuti" e che invece si focalizzava su vicende post-apocalittiche di superstiti inglesi dopo che l'umanità era stata colpita da una pandemia dovuta ad un virus sconosciuto sfuggito ad un laboratorio cinese (!), e che aveva risparmiato soltanto una persona su 5.000 dell'intera popolazione mondiale.
Come possiamo, oggi, non condividere l'esperienza e il destino degli Alphani? Per Koenig e i suoi un evento improvviso - ma non imprevedibile - come l'accumulo smisurato scorie nucleari dalla Terra crea le premesse per un esplosione che espelle la Luna dall'orbita terrestre e trancia per sempre i legami con l'umana quotidianità, costringendo gli abitanti della base a vivere reclusi in uno spazio angusto lontani per sempre dalla vita vera. Un evento che segna per sempre un "prima" e un "dopo" dove il prima si sa molto bene com'era e sul "dopo" invece non v'è certezza, se non l'angoscia che nasce ogni volta che si prova a dare un contorno meno vago a ciò che può riservare il futuro.
Per noi invece quel momento è la sera del 9 marzo 2020, quando in TV a reti unificate l'allora Premier Giuseppe Conte annunciava l'inizio del "lockdown" e della corrispondente nascita dell'Italia in zona rossa e noi tutti come gli Alphani il 13 settembre 1999, tra l'incredulo e lo sconsolato, iniziavamo a capire che un evento improvviso - ma non imprevedibile - ci stava allontanando dall'orbita della nostra quotidianità, dalla nostra zona "scontata" di comfort verso qualcosa che ancora non capivamo (e non capiamo) bene ma che intuivamo avrebbe stravolto in profondità la nostra umanità, scagliandoci in remote regioni inesplorate della nostra psiche. Anche per noi un "prima" e un "dopo".
Un dopo che sia per il prof. Bergman, il vicecomandante Paul Morrow, l'operatore al computer Kano e tutti gli altri sulla Luna e per tutti noi in Italia - e nel mondo - sarebbe stato caratterizzato da una claustrofobica permanenza negli spazi più o meno angusti della base lunare o delle nostre abitazioni.
Accompagnati dai lutti che un po' alla volta sono arrivati sotto i colpi degli alieni - in carne ed ossa ma immaginari per Alpha - e sotto forma di virus reale per noi.
Salvo i momenti più o meno lunghi di "libera uscita" in cui gli Alphani visitano i nuovi mondi che incontrano, rimanendo poi sempre delusi e frustrati nel verificare l'impossibilità di convivere nell'ambiente incontrato e che li costringe a serrarsi di nuovo sine die dentro la base.  
Per noi invece quei momenti, più o meno lunghi di libera uscita, sono rappresentati da tutte le volte che l'effetto di chiusure, restrizioni, distanziamenti, uso di mascherine e guanti ci hanno illuso di poter ritrovare "il mondo perduto" osservando il diminuire di morti e contagi fino a giungere all'uso dell'arma che doveva essere quella risolutiva per sconfiggere il nemico: i vaccini. E che invece ancora sembrano non bastare, almeno nell'immediato, a sconfiggere un virus che con tutte le sue varianti muta pericolosamente sfuggendo ancor più di Maya, la mutante interpretata da Catherine Schell nella seconda stagione. 
E così ancor oggi, passati più di 16 mesi dal "breakdown" di Giuseppe Conte, non sappiamo se in sicurezza potremo mandare i nostri figli a scuola in presenza, se potremo ritornare in uno stadio o ad un concerto, se potremo prenotare una vacanza, se potremo ancora abbracciare chi desideriamo e se, malauguratamente una volta contagiati, potremmo essere curati nel caso in cui il nostro sistema immunitario faccia ancora flop nei confronti dell'alieno, con o senza difese inoculate.
In poche parole, non sappiamo più se potremo vivere in pieno la nostra condizione umana, sferzata duramente da un virus comparso misteriosamente da un giorno all'altro e che ci ha condotto in un'esperienza e una quotidianità inimmaginabile, fatta della stessa tensione psichica che affliggeva il comandante John Koenig quando fissava l'immensità dello spazio dalle finestre sigillate della sala comando che rendeva lui ed i suoi compagni contemporaneamente sicuri e prigionieri. 
Così in cerca di ispirazione su come continuare a sopravvivere sul pianeta COVID-19 mi sono rivisto un paio di puntate della prima stagione - in particolare "Sole Nero" e "Il Pianeta Incantato" - e alla fine non posso che condividere i pensieri John Koenig e del prof . Victor Bergman: quale sia la condizione esterna che ci circonda rimaniamo umani e dobbiamo adoperarci con tutta l'energia che abbiamo per mantenere ad ogni costo la nostra umanità che è fatta insieme di fragilità e incompletezza e di volontà nel comprendere e di grande fede nella capacità che la nostra mente ha di trovare le soluzioni. 
Da ragazzo adoravo il comandante John Koenig perché agiva sì con determinazione adamantina, ma solo dopo essersi consultato con il suo amico Victor, uomo di scienza, e aver ben compreso quanto gli veniva riferito, rifiutandosi di accettare acriticamente qualsiasi soluzione. Il tutto condito con la forza di volontà di chi non cederà mai, fino all'ultimo respiro, per la salvezza dei suoi compagni e della propria umanità. Che da sempre significa inscindibilmente gioia e sofferenza.
Per cui mi sono chiesto, cosa farebbe John Koenig, oggi, sul pianeta COVID-19? Risposta facile facile, ordinerebbe a tutti di vaccinarsi e vaccinarsi prendendo a cazzotti tutti i renitenti e, nel contempo, anche a calci in culo tutti coloro che dovessero girare a piede libero fottendosene del pericolo, come fecero gli Alphani sul pianeta Piri. Facendo magari un cazziatone terribile alla dottoressa Helena Russell e al prof. Victor Bergman se non gli avessero prima spiegato bene, con chiarezza e senza nascondere nulla come funzionano i vaccini e quali sono i rischi connessi, fregandosene alla fine bellamente anche dei rapporti elaborati dal computer di Kano, senza prima aver verificato se era stata fatta regolarmente la manutenzione e l'aggiornamento.
Senza aver la certezza di riuscire nell'intento di sconfiggere l'alieno, ma senza il dubbio di averci provato al meglio delle condizioni possibili, perché appunto siamo umani, fragili ospiti sottoposti alle Leggi dell'Universo.

       

mercoledì 7 luglio 2021

COME PRIMA, PIU' DI PRIMA

"Espana se queda fuera de la gran final tras ser muy superior a una Italia que se encerrò siempre atras". Questo riporta in prima pagina il giornale spagnolo "Sport" nell'edizione di oggi 7 luglio 2021 per commentare l'eliminazione delle Furie Rosse ad opera degli Azzurri dopo i calci di rigori che hanno deciso la semifinale di Wembley. Non dovrebbe essere necessaria la traduzione che comunque, a scanso di equivoci, riporto: "La Spagna esce dalla finalissima dopo essere stata di gran lunga superiore a un'Italia che si è sempre chiusa dietro". Siamo alle solite. Invece di prendere esempio dal CT iberico Luis Enrique che al termine dell'incontro ha fatto i complementi agli azzurri, arrivando anche a dichiarare di tifare per loro nella finale di domenica, oltre che a complimentarsi con i suoi per la gara di alto livello disputata, il giornale spagnolo rispolvera il solito spregio verso il "calcio all'italiana", tutto difesa e contropiede. Peccando oltremodo di banalità e accodandosi ad una lunga serie di "rosiconi" di tutte le bandiere sconfitti nel corso della storia dagli azzurri con il vituperato "catenaccio".
Qui non si vuole negare la grande partita giocata dagli spagnoli, che hanno interpretato al meglio il LORO modo di intendere il calcio, anzi: avessero vinto loro alla lotteria dei rigori o con un gol in più durante i 120' non ci sarebbe stato nulla da obiettare. Applausi e giù il cappello.
Ma quel gol in più non l'hanno fatto e questo non è certo per demerito dell'Italia e fino a prova contraria le regole del calcio prevedono sempre che a vincere sia sempre chi è stato capace di segnare un gol in più dell'avversario. Punto. Di quale sia in assoluto il metodo, lo schema, il sistema di gioco più efficace o come ci vuol far intendere il giornale spagnolo, "superiore", per riuscire a fare un gol in più degli avversari la discussione è aperta. Io non credo che quel metodo esista in assoluto e questo è il bello del calcio e dello sport: ognuno può scegliere di interpretare al meglio il sistema che più gli piace o per cui sente di sapersi adattare o di poter tradurre in pratica meglio degli altri. E per tale via vincere la partita seguendo le regole di quello sport specifico, perché, alla fine quello che conta per ciascuno sportivo non è "giocare bene" ma vincere senza barare. Poche balle. 
Per cui se ieri siamo riusciti a contenere una squadra che voleva metterci sotto attraverso il possesso prolungato della palla e alla fine, anche con con 11 uomini dietro la linea della palla per lunghi tratti, siamo riusciti a contare per numero le loro stesse palle gol di certo non siamo stati inferiori. Anzi.   
Mi è tornato in mente un pezzo che scrissi nel 2017.
Di seguito lo riporto integralmente, perché proprio non passa mai di moda.


DIFESA DELLA DIFESA

Mi è capitato spesso di sentire da più parti - tifosi, giornalisti, allenatori, avversari, ecc. ecc. - che molte delle vittorie internazionali della nostra nazionale del passato lontano e anche più recente - quando ancora si vinceva -  campionati del mondo inclusi, sono state immeritate perché ottenute attraverso la difesa ad oltranza condita con isolati contropiede e quindi con il cronico non gioco e l'incapacità di creare "spettacolo". Insomma, quasi dovessimo vergognarci di aver vinto. Quasi fossimo solo degli abili borseggiatori di vittorie che spettavano di diritto agli altri produttori di spettacolo, quasi sempre tedeschi, a volte olandesi, brasiliani e francesi. Quasi che vincere esaltando la capacità difensive fosse una strategia figlia di un Dio minore.
La lista dei detrattori sarebbe molto lunga; mi limito ad osservare che erano quasi tutti avversari sconfitti. Ora, comprendo - e lo dico per esperienza diretta - che essere tifosi o fan di una squadra che punta a vincere attraverso la difesa per creare gli spazi e colpire di rimessa come un cobra esponga decisamente al rischio perpetuo delle coronarie - ma considerare questa strategia di gioco inferiore a quella che si basa sul continuo possesso palla e al pressing a tutto campo, condito magari dal fuori gioco sistematico, propRio non ci sto.
Sono solamente concezioni diverse che si possono scegliere di applicare in base alle capacità e alle caratteristiche degli uomini che un tecnico ha a disposizione.
Chi ha giocato a calcio sa bene che impostare una partita usando il gioco all'italiana - difesa e contropiede appunto - sia tutt'altro che semplice: bisogna avere a disposizione giocatori con grande capacità di resistenza tecnica e psicologica nel saper far bene "reggere" il fortino.
Ricordate la tanto vituperata semifinale di Euro 2000 dove gli azzurri di Zoff passarono ben poche volte la metà campo nei 120' e poi vinsero ai rigori? Che furto colossale! Che spettacolo orribile! Che vergogna! E che fortuna! Due rigori sbagliati dagli olandesi nei tempi regolamentari! Quasi che dovessimo vergognarci noi degli errori avversari e della bravura del nostro portiere...Voglio andare assolutamente contro corrente nel difendere quella prestazione. Ripeto, solo chi ha giocato a calcio sa che per resistere in inferiorità numerica contro una squadra che pratica il gioco d'attacco sistematico, in casa sua per di più, solo un grande carattere individuale e di gruppo, unite ad una grande competenza difensiva, ti permette di mantenere la porta inviolata. Cosa non da tutti.
Ripeto, puntare sulla difesa e sul contropiede è tanto nobile e complesso quanto cercare di vincere in altri modi. "Noi" italiani siamo stati maestri in questo campo e non dobbiamo e non dovremo mai provare vergogna - sportiva. Anzi, per quanto mi riguarda, rivendicarlo con orgoglio.
E con buona pace degli avversari e per gli amanti del "calcio spettacolo". Spesso sconfitti. Come le nostre compagini nazionali quando hanno rinnegato se stesse e tentato di imitare ora gli olandesi, ora i brasiliani. O come accadde ai brasiliani quando vollero imitare gli italiani o i tedeschi.
Considerazioni non valide per le squadre di club, ove da almeno 30 anni si è persa la cultura sportiva "nazionale" e le scelte di un tecnico si devono basare esclusivamente sulle caratteristiche tecniche e psicologiche dei componenti la Babele che compongono la rosa. Considerazioni in retrospettiva. Oggi anche a livello di squadre nazionali, la cultura sportiva-paese è assai sfumata, quasi impalpabile. E' la globalizzazione bellezza.

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