martedì 29 settembre 2020

CALCIO VS BASKET OVVERO MOBIAM UDINE VS MEL DAVIS

 

La prima volta che misi piede al Palasport "Primo Carnera" fu il 14 gennaio 1979, circa sei mesi dopo la mia "prima volta" allo stadio Friuli ed ebbi così modo di sperimentare le emozioni del gioco che ha conteso, e tutt'ora contende, il posto principale nel mio cuore di appassionato sportivo. In realtà, i due sport convivono bene nei miei affetti, perché trattasi di due esperienze complementari e non antitetiche. Il calcio è stato il "primo amore", lo sport la cui pratica negli anni '70 costituiva per tutti i maschietti in età scolare la via più rapida per accedere al mondo esterno dei pari: bastava la palla e qualsiasi spazio, dal cortile della scuola alla piazzetta della chiesa o al prato vicino casa, due cappotti, due cartelle o due alberi avvicinati per finire direttamente dentro lo stadio di San Siro. E su quegl'improvvisati campetti trovavi avversari di tutti i tipi, dal ricco al povero, dal più piccolo al più grande, dal secchione al Lucignolo di turno. Insomma tutti, e se non facevi parte delle poche famiglie ricche o almeno agiate e volevi avere una qualche specie di vita sociale, non potevi astenerti dal saper "dare due calci al pallone". Il basket era diverso. Non era per tutti. Per costituzione: se volevi praticarlo era necessario accedere ad una palestra o ai pochi campetti con canestro e tabellone che sorgevano di solito nei Ricreatori. E a Cividale, appunto, ce n'era solo uno. Il pallone da basket, poi, non poteva essere surrogato da stracci o pezze avvolte o da sfere di plastica dal prezzo accessibile, doveva essere da basket e solo da basket e non era acquistabile risparmiando per un po' di mesi la misera paghetta dei genitori. Neanche in società. E non si poteva giocare in quanti si voleva o in quanti c'erano, al massimo si poteva arrivare a dieci. E non potevi dire all'ultimo principiante arrivato: si usano solo i piedi e devi fare gol tirando la palla tra i due alberi oppure, più probabile, se vai in porta con piedi, mani e tutto quello che vuoi devi impedire che la palla ci passi in mezzo. Non potevi cavartela dicendo: lancia la palla nel canestro usando solo le mani; e il terzo tempo? e i passi? e la doppia? e la palla accompagnata? e i tre secondi? E il due su tre? E i cinque falli? E il time-out? Insomma, per farla breve, il basket era il gioco dei "fighetti", di “quelli del centro”, delle famiglie “bene”, fisicamente dotati in statura e che sublimavano il loro senso di superiorità rispetto alla massa - calciofila - praticando uno sport "non per tutti" con “regole d'ingaggio" sicuramente più evolute e sofisticate rispetto a quelle rudimentali del "balòn". Fino agli otto anni, per me, che vivevo in una famiglia né agiata e né particolarmente interessata allo sport, il calcio non poteva che diventare il mio primo e unico amore, a cui ho dedicato tanto sudore e molte ginocchia sbucciate su tutte le superfici, durante l'infanzia. Poi, nel 1975, a Pordenone, dove da poco mi ero trasferito con i miei genitori, l'allenatore delle giovanili di basket del Ricreatorio San Lorenzo di Rorai Grande, mi "strappò" dal campo da calcio per mettermi su quello da pallacanestro. Obtorto collo e con molte resistenze da parte mia. Come mai?? Anche a Rorai, quartiere popolare, volevano una squadra di basket e così incaricano un appassionato insegnante di educazione fisica locale e amico del Parroco, di selezionare una quindicina di ragazzi da avviare al minibasket. Impresa complicata, in quel mondo che pullulava di calciatori in erba, che alla fine si risolse "obbligando" i più alti ad aderire e, visto che durante l'infanzia la natura mi aveva dato una statura decisamente superiore alla media, non furono sufficienti tutti i miei pianti per evitare di lasciare i compagni del calcio per diventare un pioniere della pallacanestro. A distanza di anni, anche se non lasciai in seguito tracce degne di nota nel mondo della palla al cesto, non posso che ringraziare quell'insegnante che mi fece imparare nell'anno successivo i fondamentali e i rudimenti necessari per giocare a basket, sport che incominciai ad apprezzare ed amare tanto da essere stato selezionato, sicuramente data l'altezza, per trasferirmi a fine stagione nelle giovanili della Postalmobili, allora prima squadra della città sul Noncello. Quel trasferimento non ebbe mai luogo, perché la famiglia ritornò ad abitare a Cividale, dove, la mancanza in quegl'anni di una società sportiva di pallacanestro con settore giovanile, mi fece riabbracciare convintamente e definitivamente il mondo dei pallonari, relegando la pratica del basket ai tornei scolastici e a occasionali sfide, post compiti del pomeriggio, tre contro tre nel campetto del Ricreatorio. Quell'anno di basket però fu sufficiente per farmi innamorare anche di quello sport, così diverso dal calcio, sia in relazione agli skills necessari per la pratica, che per la prassi, i rituali e le emozioni della partecipazione passiva. Eccoci qui, finalmente. La partecipazione passiva. Fu come scoprire un’altra galassia, per un “pallonaro” che aveva appena incominciato a fare i conti con la tempra necessaria per assistere il calcio, dal vivo allo stadio, fronteggiando nell’ordine: la calca feroce alle biglietterie, gli assembramenti e le code interminabili per l’ingresso, l’esposizione diretta per qualche ora alle intemperie sui gradoni in cemento della curva prima e durante la partita, la ressa infernale per acquistare un panino durante l’intervallo in mezzo ad un’umanità, quasi esclusivamente di sesso maschile, composita ma accomunata da un generalizzato e continuato uso “approssimativo” del galateo. E guardandosi bene dall’incrociare lo sguardo con qualcuno “degli ultras”, soggetti dai quali era meglio stare alla larga non solo allo stadio ma anche ai baracconi e di cui molti già ben noti alle forze dell’ordine.

Il clima del Palazzetto era invece paragonabile a quello di un salotto: seduta confortevole, riscaldamento, musica di sottofondo, buona visibilità, venditori di bibite e panini che si muovevano agevolmente tra gli spettatori, possibilità di spostarsi tra un settore e l’altro delle gradinate per osservare molto più da vicino i giocatori, pubblico molto più educato e addirittura ragazze sugli spalti! E gli “ultras”, che pure c’erano, sembravano decisamente “più civili”. Agli occhi di un ragazzino di 13 anni un senso di grande sicurezza, rispetto alla vertigine e al battito impazzito del cuore sperimentati la prima volta in mezzo alla folla dello stadio. Ragionamento semplice: se il basket era il gioco dei “fighetti”, “fighetti” – e fighette -  non potevano che esserlo anche i sostenitori e gli appassionati. Se andare ad assistere alle partite dell’Udinese al “Friuli” era come partire per una battaglia da campo in mezzo ad una compagnia di alpini, andare al “Carnera” a vedere la Mobiam aveva invece il sapore di essere invitati ad una festa di capodanno per dirigenti e quadri di un istituto bancario. Per questo i miei amori per il calcio e il basket hanno potuto convivere pacificamente ed in modo parallelo: cose troppo diverse per essere messe a confronto, così negl’anni ho potuto partecipare sempre con grande trasporto ad entrambe gli eventi e rammaricarmi solo per i lunghi periodi in cui disastrose vicissitudini societarie e sportive del basket udinese mi hanno privato delle frequentazioni nel salotto del “Carnera”, “condannandomi” a rimanere ostaggio del solo stadio Friuli. Il mio “primo giorno” al palazzetto vide “la palla a due” tra i verdi della Mobiam Udine e i rosa della Manner Novara, che si contesero i due punti in palio nella penultima gara del girone d’andata della stagione regolare del campionato di A2 1978/79. Era una specie di “testa-coda” perché mentre la squadra guidata dall’esperto tecnico “Dido” Guerrieri ambiva a riportare Udine nel massimo campionato dopo i freschi fasti snaiderini veleggiando nelle posizioni di alta classifica, la Manner aveva trasferito a Novara i diritti di Genova e cercava di abbandonare l’ultimo posto in graduatoria ed evitare la retrocessione diretta in serie B. Era anche un altro basket rispetto a quello odierno: non c’era il tiro da tre punti, gli arbitri erano solo due, il possesso era di trenta secondi, vigeva ancora la regola del due su tre ai liberi e c’erano due tempi da venti minuti ciascuno, e solo due stranieri per squadra tanto in A1 che in A2. Per dire solo delle cose più rilevanti. Lo spettacolo c’era lo stesso, eccome se c’era.  Quella sera, come da pronostico, vinsero i “mobilieri” di casa con un pirotecnico punteggio da NBA: 123 – 105. La cosa che però mi rimase per sempre ben impressa nella mente di quella prima volta, non è legata ai beniamini di casa, bensì a quello che fece pochi istanti prima della fatidica “palla a due” per l’inizio del match.la “stella” degli avversari: tale Melvyn Jerome “Mel” Davis, ala-centro di 2 metri scarsi e con un passato nell’NBA con i celebri New York Knicks, 

Il riscaldamento stava per concludersi, diversi giocatori erano già accanto ai rispettivi coach presso le panchine, le luci delle gradinate già spente e i due arbitri al centro del campo quando il “califfo” in maglia rosa pensò di incutere timore ai suoi avversari terminando il warm-up con una potente e spettacolare schiacciata in terzo tempo, appendendosi al ferro. Risultato? Il tabellone di vetro esplose letteralmente in mille pezzi con un fragoroso botto. Partita rinviata di 45 minuti per sostituire canestro e tabellone – allora i ferri non erano a prova di schiacciata - con il “feroce” Mel portato d’urgenza al pronto soccorso dove gli praticarono una decina di punti di sutura in testa.

Unforgettable, specialmente per un ragazzino di tredici anni al debutto in un palazzetto.

Il risultato finale ci racconta di un largo successo della Mobiam, che incontrò un unico ostacolo durante il match: il redivivo Mel Davis che, dopo pochi minuti dall’inizio della gara, rientrò sul parquet con una vistosa fasciatura in testa e mise a segno 33 punti finali, con uno score di 9/10 ai liberi 5/16 da fuori, 7/12 da sotto e 8 rimbalzi, risultando di gran lunga il migliore dei suoi.     

Così qualche anno fa, mentre assistevo a Cividale nel palazzetto di Via Perusini al riscaldamento di uno dei tanti match di A2 della GSA – erede dell’APU e quindi anche di quella Mobiam -  e mi ritornò ancora alla memoria il ricordo di Mel Davis, decisi di fare delle ricerche per sapere che fine aveva fatto quel “califfo” che per sempre aveva segnato la mia memoria baskettara.

Grazie a Google l’impresa, che "una volta" avrebbe il richiesto tempo e la dedizione di una ricerca archeologica, oggi mi ha sottratto il tempo del panino e con un po’ di destrezza e controllo delle fonti ho scoperto che “Big Mel”, nato nel 1950 a New York e dopo aver frequentato le scuole medie a Brooklin si iscrisse alla St, John University dove conseguì una laurea in Marketing e nel campionato universitario, nonostante fosse un’ala di 2 metri, risulta essere ancora il settimo rimbalzista di tutti i tempi.

Ingaggiato dai leggendari New York Knicks nel 1973 vi giocò fino al 1977, prima di passare un anno ai Nets, con uno score finale della carriera in NBA di 5,3 punti a partita e 4,3 rimbalzi a gara.

Arrivato in Italia con il soprannome di “the Killer”, in virtù del fisico da “Big Jim”, delle cicatrici sul volto eredità delle risse da strada collezionate in gioventù a Brooklin ma soprattutto per un diretto destro da KO più volte azionato durante le fasi calde dei match sui parquet dell’NBA, non ebbe molta fortuna nella scelta delle compagini in cui militò.

Dopo il primo anno a Novara, targato Manner, dove le sue notevoli prestazioni non bastarono ad evitare l’ultimo posto e la retrocessione in B per una società che già a metà campionato aveva esaurito l’ossigeno finanziario e non riusciva a pagare gli stipendi, l’anno seguente si trasferì a Milano, sponda Pallacanestro Milano griffato Amaro 18 Isolabella, e anche qui, a fronte del quarto posto assoluto nella classifica marcatori con una media di 25 punti a partita e settimo in quella dei rimbalzi totali, cambi di allenatore e tracollo economico determinarono la retrocessione in A2 prima e la scomparsa del club dai professionisti poi.

Lasciata l’Italia per una breve parentesi in Svizzera, dove i sui conti al ristorante mandarono in crisi la dirigenza elvetica, Mel fece ritorno nella sua New York in tempo per ottenere un master in psicologia e counseling alla Fordham University e uno in pianificazione della carriera alla N.Y. University.

La leggenda narra che in Svizzera “Big Jim” fosse abituato a consumare pasti che prevedevano un bis di carbonara seguita da due polli arrosto interi oppure dodici trote salmonate, con l’immancabile accompagnamento di patate fritte, dolce e cappuccino finale.

Lasciato il basket, per un periodo è stato supervisore per la commercializzazione della Pepsi per poi occuparsi di programmi per l’orientamento delle matricole NBA e per la transizione nel mondo del lavoro dei giocatori in prossimità di terminare la carriera professionistica. Nel 2005 l’NBA ha nominato Mel Devis direttore esecutivo dell’Associazione Nazionale Giocatori in Pensione, ente che si occupa di sostenere gli ex giocatori con problemi di droga, alcolismo, salute e povertà.

Nel novembre 2005 è ritornato in Italia, quale rappresentante dell’NBA, assieme a Julius Erving per l’inaugurazione del palazzetto dello sport di Rieti intitolato alla memoria di Willie Sojourner, altro indimenticato “califfo” del campionato italiano di fine anni ’70.

Per quanto riguarda la Mobiam, perdendo nettamente l’ultima gara di campionato al “Carnera” contro i cugini della Pagnossin Gorizia del cannoniere Roscoe Pondexter guidata dal “santone” Jim Mc Gregor perse l’occasione di essere promossa direttamente in A1 e fu costretta disputare uno spareggio a quattro per la promozione assieme agli stessi goriziani, al Bancoroma di Nello Paratore e alla Pintinox Brescia. Spareggio che si concluse con una beffarda vittoria contro la Pagnossin e due sconfitte con le altre due contendenti, con conseguente fallimento dell’obiettivo stagionale.

Concludo, per gli amanti delle statistiche, con il tabellino di quel mio debutto al “Carnera”, in una domenica di gennaio del 1979 in cui l’Udinese di Massimo Giacomini in serie B, si faceva rimontare un gol di vantaggio in quel di Cesena e l’allora “mia” Juve trapattoniana e zeppa di nazionali perdeva in casa contro il Lanerossi Vicenza di Paolo Rossi non ancora Pablito Re di Spagna.

 MOBIAM UDINE – MANNER NOVARA 123 – 105 (p.t. 60 – 47)

Arbitri Guglielmo e Giuliano di Messina

 MOBIAM

Andreani 4 (2/2, 1/1, 0/3) Otello Savio 16 (4/5, 3/6, 3/3) Gianpiero Savio 15 (1/2, 3/8, 4/9) Piùbello (-,-, 0/1) Vidale n.e., Cagnazzo 18 (2/2, 0/1, 8/9) Bettarini n.e., Tonin 2 (-,-, 1/1) Garrett 41 (1/1, 8/13, 12/16) Gallon 27 (5/6, 1/5, 10/17)

Allenatore Guerrieri

 MANNER

Buscaglia (-,-,-) Papetti 7 (1/1, 1/3, 2/4) Foster 14 (-, 2/3, 5/7) Mottini 19 (3/3, 5/12, 3/4) Cantamessi 22 (-, 8/15, 3/3) Dordei 10 (2/2, 2/5, 2/4) Pozzati (-,-, 0/2) Ceron (-,-, 0/3), Marsano n.e., Mel Davis 33 (9/10, 5/16, 7/12)

Allenatore Tanelli

giovedì 24 settembre 2020

QUANDO IL PALLONE FINI' "AR GABBIO"



Il 23 marzo 1980 per la maggioranza degli appassionati di calcio italiani di ogni età è uno spartiacque, rappresentò la fine dell'età della felice ingenuità e dell'idea che calcio professionistico fosse un mondo popolato da eroi senza macchia e senza paura o più semplicemente, vista l'enorme popolarità che godeva ad ogni livello della società italiana, un angolo "inviolabile" per ogni possibile tentativo di valutarlo utilizzando lo stesso metro in uso per ogni altra attività sociale, giammai dalla giustizia penale. Un mondo dominato dai principi di lealtà sportiva e quindi fuori dalle regole del mondo ordinario. E in effetti, in quella primavera di quarant'anni fa che fosse al di fuori delle regole, lo si scoprì nella maniera più traumatica possibile. Chiedo al lettore che non ha vissuto nell'epoca ante internet, social network e smart phone, di fare lo sforzo di tentare di capire quale fosse il valore e la modalità di trasmissione dell'informazione e quindi di provare a comprendere lo shock che andrò a descrivere. Nel 1980 l'informazione viaggiava solo sulla carta stampata e per mezzo dei telegiornali dei due canali della TV di Stato (si pensi che Rai 3 aveva iniziato le trasmissioni a partire solo dal dicembre 1979 e le TV private erano in fase di gestazione), per cui solo il fatto che una notizia venisse diffusa ne conferiva alla stessa un valore quasi "sacrale", avendo l'accadimento dovuto superare un vaglio tra le tante e poi la circostanza che questa scelta fosse compiuta da un emanazione dello Stato o da testate giornalistiche che godevano di ben altra fama rispetto all'era contemporanea, ne certificava l'importanza. Nel 1980, assieme alla Messa, l'altro rito fondante delle domeniche italiane per la popolazione rigorosamente di sesso maschile era la trasmissione "Novantesimo Minuto", che a seguito della fine degli incontri di serie A trasmetteva brevi filmati su tutte le partite dalle rispettive dalle sedi RAI regionali con la conduzione dallo studio di Roma da parte di Paolo Valenti. Erano le prime - e uniche - immagini dei gol che si potevano vedere fino alla tarda serata, quando andava in onda l'altro cult per tutti i calciofili dello stivale: "La Domenica Sportiva", condotta allora dallo stesso "mezzo busto" RAI che aveva dato l'annuncio dello sbarco del primo uomo sulla luna: Tito Stagno. Bene. Provate a pensare la potenza dell'annuncio, in diretta e con relative immagini, dell'ingresso di un auto civetta gialla della Guardia di Finanza e una delle Polizia sulla pista dello Stadio Olimpico, mentre Gianpiero Galeazzi dava conto della notizia che arrivava dagli spogliatoi, ovvero che i finanzieri stavano procedendo agli arresti di alcuni giocatori del Perugia per tradurli direttamente al Carcere di Regina Coeli. Analoghe notizie di seguito arrivarono dagli inviati di Milano e Pescara per gli arresti di altri giocatori del Milan e della Lazio. A fine giornata in totale furono 13 (Della Martira, Zecchini, Casarsa del Perugia, Albertosi e Giorgio Morini del Milan, Giordano, Wilson, Manfredonia, Cacciatori della Lazio,  Stefano Pellegrini dell'Avellino, Magherini del Palermo, Merlo del Lecce e Girardi del Genoa con l'aggiunta del Presidente del Milan campione d'Italia 1978/79, Felice (!) Colombo. Decine di altri, tra cui Paolo  Rossi, Dossena, Savoldi, Petrini, Zinetti e Damiani "invitati" in Procura per accertamenti. Le società coinvolte in serie A sono Milan, Lazio, Juventus, Avellino, Bologna, Perugia, Pescara e Napoli mentre in B Genoa, Taranto, Palermo, Lecce e Pistoiese. Un terremoto. L'opinione pubblica resta stupefatta e sbalordita. L'iniziativa della Procura della Repubblica di Roma che ordina lo spettacolare blitz ha preso le mosse da un esposto-denuncia presentato il primo marzo 1980 da Alvaro Trinca e Massimo Cruciani, rispettivamente un ristoratore e un commerciante all'ingrosso di frutta e verdura  della capitale, con il vizio di scommettere ingenti somme sull'esito delle partite di calcio presso gli allibratori clandestini. I due, stando alle accuse, riferiscono di aver puntato milioni di lire su alcuni incontri di serie A e B in concorso con alcuni giocatori e con il concordato e, spesso prezzolato, impegno di questi ultimi a pilotare nel senso desiderato i risultati finali. Il maturare di diversi risultati rispetto a quanto concordato ebbe l'effetto di indebitare in breve tempo Trinca e Cruciani per un paio di miliardi nei confronti degli allibratori clandestini e così i due, finanziariamente rovinati, presentarono l'esposto per truffa alla Procura della Capitale. A soli tre mesi dall'inizio del campionato europeo che doveva tenersi proprio in Italia, lo scandalo fu enorme e l'eco superò i confini nazionali, perché scoperchiava un vero e proprio vaso di Pandora da cui emergeva una realtà parallela rispetto a quanto spettatori, appassionati, giornalisti e anche dirigenti erano convinti di assistere. Indagini e processi furono immediati e si risolsero con una velocità anomala per l'esperienza nazionale: la Giustizia sportiva entro il mese di agosto era giunta ai verdetti definitivi con il secondo grado di appello, mentre quella ordinaria giunse a sentenza, non appellata dal PM, già il 22 dicembre del 1980.  Milan e Lazio furono condannate alla retrocessione in serie B, Avellino, Perugia, Bologna, Taranto e Palermo a cinque punti di penalizzazione da scontarsi nella stagione successiva mentre vennero assolte Juventus, Pescara, Napoli, Genoa, Lecce e Pistoiese. Per quanto riguarda i singoli tesserati, mi limito a segnalare che gli azzurri Paolo Rossi, Bruno Giordano e Lionello Manfredonia furono squalificati rispettivamente per 2 anni e 3 anni e 6 mesi, perdendo così la possibilità di disputare con la nazionale l'Europeo 1980. La squalifica di Paolo Rossi si concluso il 29 aprile 1982, dandogli la possibilità di essere convocato da Enzo Bearzot per i mondiali di Spagna del giugno 1982, di vincere il torneo e la classifica marcatori, circostanza che, "ironia" della sorte diede l'impulso alla FIGC per condonare tutte squalifiche ancora pendenti a quella data. Fece molto discutere l'assoluzione della Juventus per la presunta combine della partita con il Bologna, terminata sull' 1-1 con una colossale papera del portiere felsineo e una altrettanto spettacolare autorete del difensore bianconero Brio. Mi limito ad osservare che la condanna della Juventus, dove giocavano ben 6 titolari della nazionale, sarebbe stato un colpo durissimo per una Federazione e una squadra che doveva ospitare di lì a pochi mesi una competizione europea tra le favorite. Tutt'altra storia sul fronte dell'inchiesta penale, dove alla spettacolare azione di polizia giudiziaria, come spesso accade nel nostro paese, non corrispose riscontro altrettanto grave al vaglio della magistratura giudicante, con l'assoluzione di tutti i 38 imputati, senza che il PM, come anticipato, ravvisasse la necessità di proporre appello. Il Tribunale di Roma, pur accertando l'esistenza del pactum sceleris, ravvisò contemporaneamente l'insussistenza del reato di truffa per mancanza dei requisiti che integrano la fattispecie delittuosa, stante che l'ordinamento penale dell'epoca non contemplava il reato di frode sportiva. Illuminante sul punto questo stralcio della sentenza emessa dalla quinta sezione penale, Presidente Battaglini e giudice estensore Viglietta

Una partita di calcio è avvenimento così complesso – essendo determinato dal comportamento di ventidue persone, l’arbitro, eventuali altri giocatori e il caso – che, in condizioni di equilibrio delle forze in campo, sfugge ad ogni analisi scientificamente o razionalmente attendibile, dell’efficienza causale dell’azione del singolo nel contesto dei comportamenti dei compagni e avversari e dell’evoluzione successiva del gioco.
E’ proprio questa la ragione per la quale l’ordinamento sportivo ricollega sanzioni direttamente a comportamenti quali l’omessa denuncia, l’accettazione della promessa o utilità al fine di “alterare una gara”, indipendentemente da ogni indagine sull’incidenza della frode sul risultato.

Naturalmente non fu che l'inizio, non bastarono certo le condanne sportive esemplari ad estirpare il fenomeno di cui si era per la prima volta appresa l'esistenza e le dimensioni; seguirono il "Calcioscommesse bis" del 1986, "Passaportopoli" del 2000, "Calciopoli" nel 2006, "Calcioscommesse tris" nel 2011 e solo per citare gli altri scandali con maggior estensione su scala nazionale. 
Come dire che, dopo il 1980, era tutto una sorta di "deja vù" o  di "upgrade" rispetto allo schema iniziale. Ci eravamo abituati, non eravamo più vergini.
La verginità e l'innocenza le avevamo perdute senza rimedio nel 1980, niente era ormai in grado di stupirci in quel modo, così come mai più fu vasta l'eco e lo sconcerto nell'opinione pubblica rispetto ai fatti del 1980.
Il primo "tononero" non si scorda mai. 
 





venerdì 4 settembre 2020

L'EPOPEA DEL "TEATRINO"























Quello che conosco sulla storia ante 1980 del “Teatrino” annesso al Ricreatorio “Sacro Cuore” lo devo alle chiacchierate con Mario Ellero, ad alcuni suoi scritti che recentemente mi ha fatto avere Paolo D’Agostini e dai racconti del mio nonno paterno. 
Quello che ho sempre trovato ingiusto era il nome con cui veniva identificato, “Teatrino” appunto, perché in realtà era una struttura pensata, realizzata e completa di tutto il necessario per l’esercizio dell’arte teatrale in misura stabile, se non addirittura esclusiva. 

La struttura che ebbi modo di conoscere a partire dal 1975 era dotata di un palcoscenico ampio e profondo con pavimentazione in legno, un elegante sipario alla greca di panno rosso porpora, boccascena con botola per il suggeritore, quinte, cieli e fondale in tela giallo ocra e un impianto d’illuminazione con luci della ribalta fisse e due file di americane con gelatine intercambiabili agganciante alla graticcia costituita da morali in legno. Sotto il palcoscenico un corridoio portava alla botola del suggeritore e alla sua destra si poteva accedere a tre stanze, una adibita ad ufficio, una a ripostiglio e l’atra a servizio igienico mentre alla sinistra c’era l’ingresso ad un ampio camerino per gli attori. 

La sala, a cui si accedeva da un mini foyer con biglietteria laterale sovrastata da un piccolo spazio per eventuali proiezioni cinematografiche, era una platea con 198 sedie in legno a ribalta unite in file su due blocchi separati da un corridoio che portava da un lato ai servizi igienici e dall’altro ad un’uscita di sicurezza. Sul palco, dietro il fondale due lunghi e bassi armadi alloggiavano materiali scenotecnici, luci e attrezzatura varia. L’ingresso del pubblico avveniva dall’ingresso principale situato in fondo allo slargo in ghiaia situato dietro la chiesa di San Pietro ai Volti, mentre attori e tecnici potevano accedere da una porta posta in prossimità del campo di pallacanestro del Ricreatorio, aperta la quale ci si trovava in un piccolo atrio da cui si poteva salire direttamente sul palco, scendere nelle stanze del sottopalco oppure entrare nell’abitazione comunicante del sacerdote destinato alla gestione di tutta la struttura ricreativa. Non un “teatrino” ma un piccolo grande teatro, un vero “gioiellino”, che probabilmente si vide affibbiare l’antipatico diminutivo “grazie” alla presenza in città del Teatro Ristori che, con i suoi 600 posti divisi tra platea e galleria, il palco con la fossa per l’orchestra e con la sua tradizione di primo teatro cittadino, condannava il “nostro” ad essere indiscutibilmente un fratellino minore. In base a quanto testimoniato da Mario Ellero negli scritti che mi ha fatto pervenire Paolo D’Agostini, si parla per la prima volta dell’esistenza di un “Teatrino” in un manoscritto che normava il regolamento di una Filodrammatica, datato 6 ottobre 1906, a firma “Prete Vittorio Zuliani”; purtroppo dalla lettura del testo non è possibile risalire alla sua esatta ubicazione all’epoca. Esiste invece un documento autografo di Mons. Liva, datato 8 agosto 1921, che attestava la presenza del Ricreatorio e del “Teatrino”, funzionante come importante centro di aggregazione giovanile, tale da essere avversato negli anni dalla dittatura fascista che non vedeva di buon occhio un luogo di educazione e ritrovo fuori dal diretto controllo. Troviamo, sempre datato 1921, anche il Regolamento - Statuto del Circolo Filodrammatico “Riccardo Della Torre” di Cividale, che aderiva alla “Società della Gioventù Cattolica Italiana” e che dovette subire aggressioni con relativi danneggiamenti alle strutture da parte di alcuni facinorosi in camicia nera. 

A conferma dell’importanza assunta in maniera stabile del Teatrino, a partire dal primo dopoguerra, vanno ricordate le rappresentazioni delle repliche delle commedie in friulano dell’avvocato Giuseppe MARIONI, che non mancavano mai, dopo le prime al Teatro Ristori. 

Indimenticabili: “Il test di Sar Pieri Catùs”, il “Liron di Sior Bortul”, insieme a “No cjantin altri i rusignui” così come non devono passare all’oblio i nomi gli attori cividalesi di quelle commedie: sempre Mario Ellero ne raccolse 221 (!!), tra cui le “star” di quel periodo: Luigia DONATI (Gjigje muinie), Pietro (Pieri) FABRIS, Nives FRANCOVICH, Ida FIOR, Ettore FAGOTTO, Mario LUNAZZI, Carlo MUTINELLI, Alfredo ORNELLA, Nazarena RIZZI – CALDERINI, Oreste TACUS, Battista CLERICI, Antonio QUINTAVALLE. Ottavio COTTERLI, Giacomino FULVIO e Mario BROZZI. 

Si noti tra questi nomi la presenza di ben due direttori del Museo Archeologico Nazionale, Carlo Mutinelli e Mario Brozzi, a testimonianza della vitalità e dell’eccellenza della vita artistica e culturale cividalese di quel periodo. 

Ma la struttura fu capace di ospitare negli anni anche altre manifestazioni come i concertini con l’Orchestra Bernardi, le rappresentazioni di varietà, a volte anche accompagnate al pianoforte da Mons. Antonio FORABOSCHI, organista del Duomo e compositore, le conferenze rivolte ai giovani e persino proiezioni cinematografiche a passo ridotto. 

Negli anni ’60 e fino alla prima metà degli anni ’70 fu utilizzato, con minor frequenza rispetto al periodo precedente, ancora per conferenze, saggi di danza classica, concerti corali e per le rappresentazioni del gruppo teatrale del Liceo Classico Paolo Diacono. 

Un vero e proprio cuore pulsante della vita cividalese, un opificio di cultura e un centro di vitalità e creatività artistica, una vera palestra di vita per tanti concittadini: probabilmente – purtroppo – una stagione irripetibile. Fu in quel contesto e negli anni del secondo dopoguerra che Mario Ellero conobbe Mario Brozzi, con il quale curò successivamente l’ideazione, la scrittura e la rappresentazione di diversi spettacoli teatrali. Tra questi si ricorda de “Ridotta 126”, un dramma ambientato nelle roventi sabbie del deserto dove operava la Legione Straniera. 

Uno dei personaggi era Giordano D’AGOSTINI, il legionario ferito a morte che commuoveva la platea e impersonava il figlio del Capitano Duval interpretato a sua volta da Adelchi MARCUZZI; anche il coautore Mario BROZZI recitava la sua parte, quella del Sergente Du Pont, mentre Diego MEROI (il futuro “patriarca” della FIGC regionale) e Giuseppe MISSIO, interpretavano i legionari e l’altro autore, Mario ELLERO, nella parte del Maggiore Greville,, arrivava in ispezione nel terzo e ultimo atto, dopo che erano stati captati degli appelli di soccorso da parte del presidio per il legionario ferito a morte. 

Ma il sodalizio tra Mario Ellero e Mario Brozzi non si fermava al Teatro, con Brozzi che iniziava proprio in quegli anni le sue ricerche sui Longobardi a Cividale e a cui poi dedicò la vita con il raggiungimento di alti riconoscimenti per i suoi studi; i due scoprirono addirittura una tomba longobarda in fondo al vasto cortile del Ricreatorio, in prossimità dei muri di cinta, del Giardino Pubblico e della proprietà della Famiglia Guion. 

Il mio ingresso nella storia del Teatrino avviene invece nei primi anni ‘80, quando di quella formidabile stagione ricreativa e culturale non c’era più traccia, se non nei racconti del mio nonno paterno e nelle lunghe chiacchierate che feci con Mario Ellero, che non finiva mai di dolersi per la fine “ingloriosa” di quella struttura e della perdita di quei “buoni” riferimenti che avevano colpito le generazioni successive alla sua e che aveva decretato, a suo dire, la fine di quel periodo fecondo. 

Erano gli anni successivi al terremoto del 1976 e la struttura era caduta in uno stato di abbandono: da anni non veniva più fatta la manutenzione ordinaria, i servizi igienici fuori uso, il palco e la sala erano diventati una sorta di deposito degli inerti e magazzino-laboratorio per le diverse attività parrocchiali, le stanze del sottopalco abbandonate e anch’esse in stato di “avanzata decomposizione”. La vita culturale e ricreativa per i giovani cividalesi di quel periodo stava seguendo le sorti della struttura fisica, complice la tragedia del terremoto e la presenza sul territorio comunale di ben 2000 militari di leva. Ancora non potevo saperlo, ma assieme ai compagni di avventura che mi appresto a citare, fummo protagonisti delle ultime rappresentazioni teatrali in quel luogo di cui, allora, ignoravamo completamente il “glorioso” passato. 

La curia cividalese, proprietaria del complesso del Ricreatorio, del Teatrino e del Cinema Ducale (altro edificio che meriterebbe attenzione per il ruolo che svolse in quegli anni) aveva già deciso di cedere l’intera area edificabile e i suoi immobili ai privati, che acquisirono l’area e nel 1990 demolirono tutte le costruzioni per edificare una sorta di centro commerciale con annesso parcheggio. 

La “nostra stagione”, che accompagnò la fine della storia, iniziò nell’estate del 1983 quando insieme a Marco LANZUTTI, Michele GAGGIA, Livio GIACOMELLI, Emanuela GORGONE, Gerardo NOBILE, Moreno MAURI, Enzo MORASSI, Bruno ROIATTI e Manlio BOCCOLINI, decisi di reagire al “vuoto cosmico” in cui era immerso a Cividale chi, nell’adolescenza, era stato fulminato dal demone teatrale e insieme fondammo la Compagnia Teatrale Palcoscenico, associazione che riuscì a sopravvivere alla “morte” del Teatrino e a continuare la sua attività, tra alti e bassi, fino al 2018. Eravamo un gruppo di diciassettenni, compagni di scuola e di merende, pazzi scatenati, che senza il coinvolgimento di un adulto che fosse uno, all’insaputa persino dei genitori, riuscimmo ad ottenere da Don Claudio Snidero, il sacerdote a cui era affidata la gestione del Ricreatorio, le chiavi del Teatrino e l’autorizzazione ad utilizzarlo in esclusiva per la nostra attività. 

Dall’estate 1983 al giugno 1990 quella diventò per diversi di noi una sorta di seconda casa in cui passavamo più ore che nella prima e che, con i nostri risparmi iniziali e poi con gli incassi degli spettacoli, ripulimmo completamente e lo rimettemmo “in moto”, creando una struttura fissa per la scenografia e rendendo possibile riportare il pubblico in sala. 

Furono messi in scena “Chi l’ha dura la vince” tratto da “La Giara” di Luigi Pirandello, I Due Sordi di Giulio Moineaux, “L’Equivoco” di Eugéne Scribe ed il 28 aprile 1988 con l’ultima replica de “Il Sottoscala”, co-adattamento personale e di Marco Lanzutti dell’omonimo testo di Giuseppe Calenzoli, le luci si spensero per sempre sul “Teatrino” del Ricreatorio. 

Da allora, fino alla demolizione, lo utilizzammo come Teatro di Prova degli spettacoli che poi rappresentavamo al Teatro Comunale Adelaide Ristori. 

Nel periodo successivo alla fondazione della compagnia e fino all’ultima rappresentazione sulle assi di quello storico palcoscenico, recitarono anche Dario ROIATTI, Francesca LAURINO, Sandra COTTERLI, Clara FLEBUS, Carlo PASSONI, Alessandro PERABO’ ed Elisa MORANDINI. 

Chiudo qui il racconto, sicuramente parziale e dalle tante omissioni, di quell’epopea iniziata più di 100 anni fa. Anche perché la commozione mi impedisce di andare oltre, ricordandomi di aver vissuto i primi 30 anni della mia vita nella casa che fu quella dell’avvocato e commediografo Giuseppe Marioni, che mio nonno e suo fratello avevano acquistato dopo la sua morte nel 1957. 

Che fossero quei muri a custodire lo spirito del Demone della mia “Pazzia”? 



mercoledì 2 settembre 2020

RICORDO DI MARIO ELLERO



Lo scorso mese di agosto, mentre mi trovavo in ferie lontano da Cividale, ho appreso la notizia della morte di Mario Ellero, “grazie” ad un messaggio WhatsApp inviatomi da un amico con il quale ho condiviso pagine “gloriose” di parte di una storia che mi propongo di raccontare in un prossimo futuro e in che in qualche modo è legata anche all’illustre concittadino scomparso: quella del “Teatrino” del Ricreatorio, oggi solo un luogo della memoria, vista la sua demolizione fisica avvenuta nel 1990 per far posto ad un’area commerciale, ma che per quasi un secolo è stato il cuore pulsante della vita culturale cividalese e che tanto fu caro a Mario Ellero. 

La notizia giunta come un fulmine a ciel sereno mi ha provocato un brivido lungo la schiena e una sensazione di profondo smarrimento e tristezza, prima che la corteccia frontale riequilibrasse lo stato d’animo indotto dall’attivazione delle reti neurali della zona limbica del cervello: Mario Ellero aveva 93 anni, era parecchio tempo che non lo incontravo e le ultime notizie che avevo avuto sul suo stato di salute non erano del tutto rassicuranti. 

Nei giorni seguenti dalla memoria a lungo termine sono continuamente salite alla coscienza le immagini e i ricordi di tanti e tanti pomeriggi passati nel suo studio-biblioteca ricercando testi, discorrendo della comune passione, il Teatro, della vita culturale cividalese e il più delle volte sulle possibili scelte artistiche e dei problemi di crescita della compagnia teatrale di adolescenti di cui ero ideatore e co-fondatore. 

Lo avevo conosciuto nell’inverno del 1984, quando per il tramite di mio padre, che anni addietro aveva provato una parte nella “sua” Filodrammatica, ricevetti l’invito ad incontrarlo nel suo studio. 

Potete immaginare l’emozione di un ragazzo neppure diciottenne che, insieme ad alcuni suoi coetanei aveva appena messo in scena per il pubblico cividalese uno spettacolo teatrale completamente autogestito, veniva convocato da uno degli intellettuali più stimati della città. Era rimasto colpito da quello che eravamo riusciti a fare da soli e, mentre mi faceva entrare nella sua biblioteca, mi disse che dovevo considerarla a nostra disposizione così come lo era la “sua umile” persona per qualsiasi consiglio o parere avessimo ritenuto di aver bisogno. 

Varcare la soglia di quella stanza, per un ragazzo “invasato” dal Teatro e dalla sete di conoscenza e proveniente da una casa in cui l’unico libro, oltre a quelli previsti dall’obbligo scolastico, era l’elenco del telefono, fu come per Alì Babà entrare nella famosa caverna del Tesoro. 

Il “Signor Ellero” – come lo chiamammo per sempre tutti noi aspiranti artisti negli anni venire – aveva dedicato parte della sua vita a raccogliere testi, copioni, riviste, documenti sul Teatro, sulla sua Storia, in modo particolare su quella locale e sulla vita di Adelaide Ristori e, in un’epoca in cui internet e i social network non erano neppure immaginati, era molto più di un tesoro per chi voleva cimentarsi nell’arte scenica in una cittadina di 11.000 abitanti, 4 caserme, 2000 militari e prossima al confine italo-jugoslavo negli anni della guerra fredda. 

Fu grazie a quel tesoro che, per almeno 15 anni, trovammo le fonti e i materiali necessari ad allestire tutti i nostri spettacoli e consolidare il nostro gruppo, così come spesso furono decisive le sue esortazioni a “tener duro” o a “ricominciare da capo” per riuscire a superare i momenti di “bonaccia” che periodicamente e fisiologicamente minacciavano la navigazione della compagnia nel mare magnum dell’arte teatrale. 

Mi sono sempre sentito onorato e fortunato nel godere da allora della sua amicizia, anche nei momenti in cui ci siamo trovati in disaccordo sulle scelte artistiche e quando il procedere degli anni e della vita avevano reso i nostri incontri sempre più occasionali. 

Negli ultimi tempi ci incontravamo di tanto in tanto all’uscita dell’edicola di Manfredi Bront e lui non perdeva mai il “vizio” di chiedermi quando avrei rimesso in piedi la compagnia, “minacciandomi di scomunica” nel caso avessi deciso di abbandonare il palcoscenico. 

Da lui ho imparato, credo, una grande lezione di umiltà e competenza, osservando a posteriori come negli anni la sua presenza nella vita artistica della Compagnia sia sempre stata costante ma discreta, non imponendoci mai nessun tipo di scelta o indicazione, accompagnandoci con benevolenza, speranza e passione. Lasciandoci anche sbagliare. Non voleva riempirci la testa con le sue idee, ma fare in modo che noi concretizzassimo le nostre. 

Mandi, “Signor Ellero”

martedì 1 settembre 2020

PATENTE NAUTICA

Il termine governare nasce in mare, traendo il suo etimo dal latino gubernare = reggere il timone (gubernum - timone, timoniere), a sua volta derivato dal greco antico κυβερνάω (kubernao) - tenere la "testa" di una nave, mantenere la rotta. 

L’etimo è comune in tutte le lingue romanze, per cui abbiamo il francese gouverner, lo spagnolo gobernar, il portoghese governar e il rumeno a guverna; le cose assumono sfumature più “terrestri” nelle lingue anglosassoni dove l’inglese to rule origina dal francese antico riule a sua volta derivante dal latino rēgularegolo o squadra, asticella oggetto necessario per tracciare linee e confini, mentre il tedesco regieren affonda le radici direttamente nel latino rĕgĕre, participio passato del verbo rĕgo - regolare, correggere, fissare, tracciare i confini. 

Se vuoi conoscere un popolo impara la sua lingua, dicevano saggiamente gli studiosi di linguistica. 

Che la si voglia vedere alla latina – saper tenere la rotta di una nave in mezzo alle bizze del mare – oppure come gli anglosassoni – mettere i paletti e fissare le regole tra territori diversi e magari contesi, il “mestiere” di governare richiede la capacità di saper prendere decisioni coerenti con il percorso stabilito e aver poi la competenza e l'abilità di procurarsi le risorse necessarie per mettere in pratica le decisioni. 

Lasciando da parte tanto gli slogan e la facile demagogia, così come la negazione dei problemi o la minimizzazione degli stessi, per cercare da abili timonieri quale possa essere, se non il più sicuro, almeno il miglior porto d’arrivo date le condizioni.

In caso contrario, ogni azione sarà vana, costosa e inefficace, come ci ricorda da qualche millennio Lucio Anneo Seneca: ignoranti quem portut petat nullus suus ventus est - nessun vento è favorevole per il marinaio che non sa in quale porto vuole approdare (Lettere a Lucilio - LXXI, 3).

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