domenica 28 novembre 2021

UN 125° INSIPIDO PER I BIANCONERI: UDINESE BLOCCATA DAL GENOA AL FRIULI

  


L’incrocio tra bianconeri friulani e grifoni rossoblù, società accomunate dall’essere le più antiche nel panorama calcistico italiano avendo dato i primi calci rispettivamente nel 1896 e nel 1893 e oggi dal navigare nei bassifondi della classifica della serie A, era di quelli che quando si tireranno le somme a fine stagione potrebbero risultare determinanti per il futuro delle due compagini.

Il Genoa è sceso sul prato del Friuli con l’indisponibilità di molti titolari quali Caicedo, Criscito, Destro, Fares, Kallon e Maksimovic mentre Gotti aveva a disposizione l’intera rosa per centrare i tre punti, guadagnare posizioni in classifica, allontanare la zona pericolo, lasciando i grifoni in un mare di guai. Come 5 anni fa contro il Bologna, l’Udinese è scesa in campo con una tenuta completamente nera per celebrare i 125 anni della fondazione e con la speranza che questa circostanza potesse portare la stessa fortuna della volta precedente, quando i friulani piegarono con un gol di Danilo negli ultimi minuti altri rossoblù, quella volta provenienti da Bologna. In questa occasione invece la gara è terminata con un insipido pareggio che serve a poco ad entrambe le squadre, probabilmente condizionate dalla posta in palio, e che hanno dato vita ad un match piuttosto soporifero ed assai avaro di emozioni e spunti degni di nota.

L’avvio è equilibrato con le due squadre che, a dispetto della delicatezza dell’incontro, sembrano cercare subito di farsi pericolose, con i genovesi ad alzare il baricentro e i friulani ad agire di rimessa con un’incursione di Beto al 12’, andato via di forza dalla propria metà campo e che per poco non riesce a servire Deulofeu solo davanti a Sirigu. I piani di Gotti devono essere rivisti solo un minuto dopo perché Pereyra, rimasto contuso in uno scontro di gioco, deve uscire dal terreno di gioco lasciando il posto a Pussetto. Ancora pericolosi sono i padroni di casa al 21’ quando in seguito ad una mischia nell’area ospite sugli sviluppi di un calcio d’angolo, Arslan calcia dal limite dell’area alto sulla traversa di Sirigu, a testimonianza di un buon momento per i friulani che hanno decisamente preso in mano il controllo del match, pur mantenendo sempre un atteggiamento forse troppo prudente. Alla mezz’ora è Walace a concludere verso la porta rossoblù, defilato sulla destra, dopo una bella azione personale e ancora Becao un minuto dopo con un tiro dal limite a concludere una lunga azione nell’area avversaria da parte dei bianconeri, sempre più insidiosi con il passare dei minuti. Al 33’ è il Genoa a farsi finalmente vivo con un tiro di Rovella dai 20 metri e che impegna Silvestri alla sua prima parata degna di nota e al 42’ Ekuban si costruisce la prima vera palla gol dell’incontro, mettendo a lato dopo essersi presentato a tu per tu davanti al portiere bianconero lasciando sul posto Samir. Il tempo si chiude nei due minuti di recupero, con un tiro al volo da appena dentro di Arslan che calcia sulla respinta di Sirugu su tiro d’angolo. Nella ripresa Gotti osa l’ingresso dal primo minuto di Samardzic al posto del capitano Nuytinck, retrocedendo sulla linea difensiva un poco propositivo Udogie, per cercare di dare maggiore incisività e imprevedibilità alla manovra dei suoi. Al 54’ il tecnico friulano a sorpresa rimescola ancora le carte inserendo Makengo e Perez per Arslan e Molina con l’intento di riequilibrare l’assetto ma la musica non cambia, l’Udinese non riesce a trovare varchi e cambiare il passo di una partita povera fino a qui di emozioni e spunti in grado di riscaldare il pubblico del Friuli che deve aspettare il 65’ per assistere ad un’incursione di Udogie che calcia alto dal limite dell’area genoana. Improvvisamente, nel torpore generale, a dieci dal termine si vede al tiro Beto che da pochi passi riesce a smarcarsi in area e a calciare verso Sirigu che devia sul palo. All’85’ Gotti manda in campo Success per uno stanco Deulofeu nella speranza che il nuovo entrato riesca a trovare il guizzo vincente in un match davvero deludente quanto ad intensità e trame di gioco. La mossa non dà i frutti sperati e l’unica e ultima emozione dei sei minuti di recupero concessi dal sig. Meraviglia è un gol di Udogie annullato, senza proteste, per fuorigioco al 94’ con il pubblico di casa annoiato e deluso che accompagna sonoramente il triplice fischio finale.

Al termine della gara alla soddisfazione del tecnico genoano Shevchenko per il primo punto conquistato in serie A "su di un campo difficile", si vede invece un Gotti più rassegnato che deluso dall'incapacità dei suoi nel riuscire a sfruttare le occasioni per sbloccare il risultato, pur ammettendo che oggi non sono state neppure molte "perchè in campo ci sono anche gli avversari".


UDINESE – GENOA 0-0


UDINESE: (3-5-2) Silvestri 6, Becao 6, Nuytinck 5,5 (46’ Samardzic 5), Samir 6, Molina 6 (54’ Perez 6), Walace 6,5, Arslan 6 (54’ Makengo 5,5), R. Pereyra s.v. (14’ Pussetto 5), Udogie 5,5, Deulofeu 5,5 (85’ Success s.v.), Beto 5,5.

Allenatore Luca Gotti

GENOA: (3-5-2) Sirigu 6,5, Biraschi 6, Vasquez 6, Masiello 7, Sabelli 6, Sturaro 6 (90’ Traore’ s.v.), Badelj 6 (71’ Hernani s.v.), Rovella 6, Cambiaso 6, Ekuban 6,5, Bianchi 6 (71’ Pandev s.v.).

Allenatore Andrij Shevcenko


Arbitro Francesco Meraviglia della sezione di Pistoia, 7

Assistenti: Scatragli e Muto

Quarto Uomo: Minelli

VAR: Mazzoleni

Avar: Carbone

Spettatori 11.537 di cui 3.458 paganti e 8.079 abbonati

sabato 27 novembre 2021

LA GESTECO PORTA A SETTE LA STRISCIA VINCENTE: MA CHE PAURA!

Per il treno lanciato a tutta velocità della Gesteco, reduce da 6 vittorie consecutive, nella nona giornata di andata la stazione da superare per continuare l’inseguimento ravvicinato alla locomotiva Mestre, prima e ancora imbattuta, era rappresentato dalla Virtus Padova, formazione che fatica nella parte bassa della classifica con soli tre successi nelle prime otto gare. Le aquile godevano dei favori del pronostico, anche per il fatto di scendere in campo nel fortino inespugnabile di Via Perusini (una sola sconfitta in oltre 40 gare di campionato disputate dall’ottobre 2020), e sono riuscite alla fine a mantenere l’inviolabità stagionale, nonostante se la siano vista davvero brutta nelle battute finali di un match in cui di certo non hanno offerto una delle prestazioni all’altezza delle loro possibilità.

Pillastrini rimescola le carte rispetto alle gare precedenti e parte con Chiera, Rota, Battistini, Ohenhen e Laudoni e i suoi senza troppo dannarsi riescono a portarsi avanti quasi d’inerzia grazie al contributo importante di Ohenhen e di Chiera in attacco e dell’inconsistenza dei patavini in fase offensiva ed il punteggio è di 13-9 a 4’01” quando il coach richiama in panchina Battistini e Rota per Miani e Cassese. Il cambio non giova ai ducali che stentano al tiro, perdono concentrazione in difesa, subiscono alcune incursioni di Cecchinato e il pareggio sul 15-15 è cosa fatta a 1’32”, con il vantaggio esterno che si concretizza al 59” (15-16) e la prima frazione si chiude sul 16-18 con Rota a ridurre il vantaggio degli ospiti con un tiro dalla lunetta. L’inizio del secondo quarto è ancora sottotono per la Gesteco che continua a non trovare la via del canestro, a giocare contratta e con poca intensità e bisogna attendere il 7’33” per vedere un canestro di Paesano sottomisura per impattare sul 18-18 e poi una tripla di Cassese e ancora Paesano a riportare avanti le aquile sul 23-20 a 6’13”, con il coach ospite costretto a chiamare minuto per stoppare la ritrovata vena della Gesteco. Ci pensa ancora Battistini con un gioco da 3+1 a 4’33” ad allungare sul 30-22 per il massimo vantaggio cividalese, ridotto poi a 5 lunghezze da un gioco da 2+1 dell’ex capitano APU Michele Ferrari. Il ritorno in campo di Ohenhen ha un buon impatto, con il numero 34 ducale che a 2’29” cattura un bel rimbalzo offensivo e infila la retina ospite e tiene Padova a 7 punti (35-28). Nel finale di tempo la Gesteco spreca alcune occasioni per allungare ancora e permette ai veneti di riportarsi a meno 3 (35-32) a 5” dall’intervallo lungo. Due tiri di Rota a seguito di un ingenuo fallo antisportivo degli ospiti e un canestro di Miani a fil di sirena riportano Cividale avanti di 7 con il tabellone che segna 39-32.

Il terzo quarto si apre con la Gesteco che cerca l’allungo decisivo e si trova a +10 con un bel canestro da sottomisura di Laudoni a 7’02” (44-34), vantaggio conservato al 6’29” con piazzato di Paesano (46-36); nella seconda parte della frazione i “pistoleri” ducali s’inceppano per 2 minuti e consentono invece agli ospiti di rientrare sul 48-44 a 2’24”, prima che una tripla di Miani riporti il punteggio a 51-44. Nel finale di tempo, sfruttando il maggior tasso tecnico, le aquile riescono a mantenere il controllo e chiudono avanti 53-46, vantaggio comunque ancora non rassicurante in vista del finale. L’ultima frazione vede ancora la Gesteco “sparare” a salve e i veneti che tenacemente si rifanno sotto sul 53-50 a 7’36” con coach Pillastrini che rimanda in campo Chiera e Battistini per cercare di far riprendere la “navigazione” ai ducali, mentre Ferrari avvicina ancora i suoi sul 53-52.

A questo punto il pubblico che aveva fino ad ora seguito in maniera tiepida i propri beniamini cerca di dare la scossa con un incitamento più partecipe, ma sul campo l’equilibrio non si schioda: 55-54 a 4’14” dalla fine. Padova si porta avanti a 3’57” (55-56) e fa scendere il gelo sul Paladucale per un finale di match tutto in salita e sicuramente inatteso; a 2'35” è ancora parità (57-57) dopo un tiro su due di Laudoni dalla lunetta ma un tiro di Ferrari e un tecnico a Battistini a 1’58” tengono i veneti avanti sul 57-58 a 1’29”. Purtroppo lo “show” negativo al tiro continua e un altro tecnico a Laudoni a 1’04” mettono Padova nelle condizioni di mettere a segno il colpaccio che non t’aspetti. A 41” una penetrazione di Rota fissa il 59-59 e il successivo tiro in lunetta porta avanti i padroni di casa 60-59 mentre Padova fallisce il tiro del nuovo sorpasso e ancora Rota si guadagna un fallo che lo manda in lunetta per il 61-59. Il Palagesteco può liberare la gioia per il passato spavento quando la tripla del successo esterno dell’ex capitano APU Michele Ferrari s’infrange sul ferro a 2 secondi dalla sirena finale.

 Ancora una volta tutto è bene quello che finisce bene, anche al termine di una prestazione sottotono delle Aquile con percentuali inusuali al tiro e che stavolta hanno visto davvero da vicino la sconfitta casalinga e permesso agli avversari di rimanere troppo a lungo nel match, nonostante la loro sterilità offensiva (1/15 il tiro dall’arco).

 

UEB GESTECO Cividale – VIRTUS Padova            61 – 59

(16-18, 39-32, 53-46)

 

UEB GESTECO CIVIDALE

Miani 5 (1/4, 1/3), Chiera (k) 10 (1/4, 2/8), Cassese 5 (1/2, 1/5), Laudoni 8 (2/5, 0/3), Rota 7 (1/2, 0/4), Battistini 10 (1/10, 2/3) Balladino n.e., Paesano 8 (4/7),  Furin n.e., Rocchi (0/1, 0/5) Micalich n.e., Ohenhen 8 (3/4)

Allenatore: Stefano Pillastrini

Vice: Giovanni Battista Gerometta e Marco Milan

Tiri liberi 15/23, Tiri da due 14/39, Tiri da tre 6/31, Rimbalzi 51 (30 dif. 21 off.)

 

VIRTUS PADOVA

Cecchinato 9 (2/6, 1/5), Pellicano 14 (3/4, 0/2), Bocconcelli 11 (5/10, 0/2), Schiavon (k) 2 (1/3, 0/2), De Nicolao 2 (1/2), Marangon n.e., Ferrari 12 (4/7, 0/1), Lusvarghi 9 (2/7, 0/1), Balducci (0/1), Lovisotto (0/3, 0/2).

Allenatore: Riccardo De Nicolao

Vice: Alberto Garon e Luca Pittarello

Tiri liberi 20/24, Tiri da due 18/43, Tiri da tre 1/15, Rimbalzi 40 (31 dif. 9 off.)

 

Arbitri: Federico Barra e Regis Mauro Ferrero

Spettatori 650 circa

domenica 14 novembre 2021

PERCHE' SCRIVI?


Se Parigi era sempre stata nel cuore di Rubén la città che meglio di tutte le altre al mondo rappresentava il suo modo di vivere l'Amore ideale, Praga era invece quella che più si armonizzava su come lui avesse in realtà vissuto il rapporto con Eros.

Quel tardo pomeriggio di fine giugno, seduto ad un tavolino della terrazza panoramica dell'Hotel U Prince, mentre era intento a scrivere su di un taccuino, assaporava soddisfatto e a piccoli sorsi la celebre birra quasi nera con la schiuma scura e dal sapore forte, compiaciuto oltre che dal gusto della bevanda anche dal il nome che dal 1874 fa bella mostra sulle sue bottiglie: Kozel, ovvero "caprone" in ceco.

L'abitudine di scrivere qualcosa ogni sera era nata improvvisamente nell'animo del pittore spagnolo proprio durante il suo soggiorno praghese, periodo che durava oramai da più di tre settimane ovvero da quando era stato incaricato dall'Ambasciata di Spagna a curare, assieme all'addetto culturale dell'Istituto, una mostra sulla "trinità" dell'arte figurativa iberica Goya - El Greco - Velàzquez, da tenersi nelle sale dello splendido Obecnì Dum, il palazzo civico situato proprio alle spalle della piazza della città vecchia  e nei pressi di Prašná brána, la torre delle polveri.

Come tutti i neofiti che improvvisamente si sentono attratti da una qualche forma di arte o di una qualsiasi più semplice attività, gli esordi erano stati contraddistinti da una sorta di frenetica bulimia, tanto che Rubén, puntualmente, ogni sera, terminati gli impegni connessi al piacevole incarico da svolgere nella città di Kafka che solo lievemente era appesantito dal necessario rapporto quotidiano con il terribile burocrate che gli aveva affiancato l'ambasciata, raggiungeva la terrazza, si godeva per qualche minuto l'incantevole panorama e poi iniziava con foga a riempire d'inchiostro un taccuino acquistato per quello scopo preciso a Josefov, il quartiere ebraico. Sempre sorseggiando almeno un paio di Kozel, appunto.

Quel tardo pomeriggio il sole si era oramai  addormentato dietro le guglie di Hradcany e il cielo si era colorato di tutte le possibili sfumature del rosa, conferendo a quel luogo l'aspetto delle cittadine medioevali che i nonni di tutta Europa cercano in ogni modo di evocare ai piccoli nipoti quando ambientano le fiabe che raccontano loro, sempre infarcite con bellissime Principesse puntualmente salvate all'ultimo minuto grazie all'eroico intervento di Principi o Cavalieri, altrettanto avvenenti, senza macchia e senza paura e capaci di mettere fine ai tremendi incantesimi orditi da orrende megere oppure di strappare le fanciulle dagli artigli di mostri ripugnanti, spesso draghi dall'alito incendiario. Ovvero gli ingredienti perfetti per rendere facilmente contagiabili i poveri nipoti da futuri abbagli, allucinazioni e travisamenti amorosi, sempre gravidi di sofferenze non proprio insignificanti. 

Quell'incanto gli aveva portato alla mente una vecchia discussione intavolata tra lui e la sua amica del cuore Dolores, quando una mattina di molti anni prima a New York dopo aver visitato Ellis Island alla foce dell'Hudson, avevano percorso a piedi tutta la strada che dallo sbarco del battello a Battery Park li aveva condotti quasi senza accorgersi nientemeno che all'ingresso del Central Park, attraversando tutto il cuore di Manhattan per rientrare al Plaza, dov'erano ospitati. 
I taxi gialli che riempivano le strade della City come fa il sangue nelle vene, la marea inesausta di persone multicolori che inondavano i marciapiedi e che sgorgavano o sparivano dalle fermate della metro come le risorgive di pianura o le sorgenti di montagna, i suoni dei clacson, delle sirene di ambulanze, auto della polizia e dei pompieri, i fumi di vapore che si alzavano dai tombini, il profumo del lusso che usciva dai negozi della quinta, l'odore di fritto che permeava le vicinanze delle centinaia di bar e tavole calde disseminate lungo il percorso e il sapore dei gas di scarico vomitati nell'atmosfera, non erano riusciti a distrarli da quella discussione.
Avessero camminato sulla battigia di qualche spiaggia incontaminata delle Maldive sarebbe stato lo stesso: tutta la loro attenzione e i pensieri erano agganciati per rispondere motivatamente al quesito di partenza che aveva posto Dolores a Rubén: se esistesse davvero "la città dell'Amore" e se si, quale doveva essere per ciascuno di essi. 
I due erano partiti da un'ampia rosa di nomi di metropoli o centri più piccoli sparsi nei cinque continenti, tutti evocati in base a vissuti personali o da esperienze letterarie, per restringere infine le candidature a due luoghi soltanto, sicuramente non originali e ben noti nell'immaginario di qualsiasi vittima di Cupido: Parigi e Venezia.
Dolores si era dichiarata senza tentennamenti per Venezia mentre Rubén con altrettanta sicurezza si era dichiarato per Parigi e la discussione si era incendiata quando fu il momento di dar conto di quella scelta. "Venezia tutta la vita, Rubén! - aveva esordito la donna con occhi scuri e fiammeggianti - Venezia è una città che non ha nessun tipo di eguali al mondo, nonostante i tanti tentavi di replica a tutte le latitudini! E' letteralmente sospesa sull'acqua ed eleva sul mare una quantità insuperabile di opere d'arte: ogni palazzo, ogni casa, ogni chiesa sono uno scrigno che contiene tesori e fascino inesauribile e non c'è scorcio, ovunque tu ti possa trovare che non sia in grado di rimandarti le note di un inno perpetuo alla bellezza. Puoi ritornaci mille e mille volte e in ogni occasione ne resterai ammaliato e ogni volta che la lasci provi sempre dispiacere che puoi compensare solo con il desiderio del ritorno.
Tutto questo per me, caro Rubén, è la perfetta metafora dell'Amore ideale: unico, insostituibile, pieno di bellezza in ogni gesto, dal quale riesci a staccarti solo perché hai la certezza del ritorno e che ogni giorno non finisce mai di ammaliarti. Cosa può opporre a fronte di tutto questo la "tua" Parigi? Non c'è il mare e senza mare non potrai mai avere il senso d'infinito di cui deve nutrirsi l'Amore. E poi, come la mettiamo con tutti quei parigini così snob da esibire senza freni la loro convinzione di vivere nel posto più bello del mondo? L'Amore non può che essere gentile con chi lo abita e sempre rispettoso del sentire altrui." 
"Mia cara venexiana - aveva finalmente replicato Rubén - io invece scelgo Parigi tutta la vita, perché per me l'Amore ideale è un'altra cosa. Non posso negare la bellezza unica della città dei Dogi davvero insuperabile nel suo "mood", ma è una bellezza "statica" e quindi "morta". Un grandissimo museo a cielo aperto che ogni anno si svuota di abitanti e viene invasa da turisti mordi e fuggi che la violentano, senza neppure capire cosa li circonda. 
E' un inno a ciò che fu, un Amore perennemente con lo sguardo all'indietro, contemplativo, incapace di evolversi in qualcosa di ancora più bello in armonia con le necessità del tempo nuovo che procede incessantemente e senza possibilità di fermata. Un posto dove recarsi per festeggiare un anniversario, ma dal quale fuggire subito il giorno dopo. L'Amore ideale per me è un viaggio che si, deve sempre circondare di bellezza e di gusto estetico ogni suo gesto, ma deve altrettanto possedere lo slancio, il desiderio, la creatività e la forza di rinnovarsi e guardare avanti, custodendo gelosamente i ricordi ma nel contempo aprirsi a nuove esperienze da far convivere e armonizzare con ciò che c'è e che va tutelato. E proprio questo invece è Parigi, dove c'è il Louvre, c'è il medio evo dell' Île de la Cité, i colori di Montmartre, il Sacre Coeur, l'inno al progresso della Tour Eiffel, il romanticismo del lungo Senna, ci sono i turisti che tentano la violenza ma vicino a tutto questo e altro ci sono i parigini, che saranno pure snob come dici tu, ma vivono la loro città anche con i grattacieli della Défense, si spostano una delle metropolitane più diffuse ed efficienti, usano tre aeroporti e riempiono ogni sera cafè e ristoranti per ogni genere di incontri: d'amore, di lavoro e d'intelletto. Insomma vivono e divengono, giorno dopo giorno, beandosi dei loro tesori ma soprattutto mescolandoli con tutto il meglio che il mondo può offrire nel tempo presente e con l'occhio al futuro. E poi dentro ognuno di quei palazzi, dal primo piano alla mansarda, pulsa la vita vera, di abitanti vivant mica il vuoto degli splendidi, ma sempre più abbandonati palazzi veneziani."
Ne era seguita un'accesa replica con controreplica e avanti così passo dopo passo, con i grattacieli di Manhattan che li circondavano ed impedivano ai raggi del sole di portare un po' di luce al loro cammino e alla fine, davanti all'ingresso del Plaza avevano trovato un punto d'incontro: non esisteva "la Città dell'Amore Ideale" ma tante città dell'amore, quanti erano gli Amori Ideali e quindi potenzialmente qualche miliardo, vista la soggettività con cui gli esseri umani hanno definito, definiscono e definiranno cosa sia il loro "Amore Ideale". 
"E ammesso che ci riescano per davvero, visto che l'unico elemento certo che definisce l'Amore è il Mistero."  Era stata la chiosa finale di Dolores sulla vexata quaestio, qualche ora dopo a cena nel ristorante del celebre hotel della Grande Mela, con piena approvazione di Rubén che alla fine aveva proposto un brindisi sul perfetto accordo raggiunto, ordinando una bottiglia di Sauvignon del patriarca californiano Robert Mondavi, visto che una di champagne avrebbe avuto il sapore della sfida. "Al Mistero!" aveva alzato il calice Rubén subito imitato da Dolores: "Al Mistero, scintilla dell'Amore Ideale". "E a Parigi e Venezia!", avevano chiuso all'unisono con una bella risata i due amici, tra i sorrisi compiaciuti di camerieri e altri ospiti del Plaza.

Scivolato via quel lontano e profondo ricordo, sorseggiando la birra ceca e lasciando cadere ogni tanto lo sguardo sulla piazza della città vecchia, Rubén s'interrogava ora su quale città invece rappresentasse al meglio qual era stato il suo rapporto e quello di Dolores con Eros.
Nel suo caso era proprio la capitale Boema: città splendida, per lunghi periodi persino capitale imperiale, spesso disponibile ad accogliere letterati e umanità varia di etnie diverse, riuscendo anche a trovare momenti di feconda integrazione ma spesso spazzata da invasioni straniere che ne hanno represso con la violenza a più riprese lo slancio vitale, fino a ridurla per tempi altrettanto lunghi in una sorta di una buia prigione a cielo aperto occupata e governata da potenze straniere per poi essere divenuta la capitale troppo grande e difficile da sostenere per uno stato troppo piccolo e quindi impossibilitata a recitare il ruolo che le spetterebbe nel panorama europeo ed internazionale, compressa inevitabilmente nella storia tra vicini più grandi e potenti come la Germania e la Russia. Un po' come le sue più importanti storie d'amore, in cui donne molto belle e sensuali si erano avvicinate a lui attratte dai suoi talenti speciali, dando vita anche a non brevi periodi di grandi passioni e trasporto emotivo ma poi fuggite o abbandonate per l'insorgere di necessità o complicazioni troppo grandi per essere risolte solo affidandosi ai buoni sentimenti o ai piaceri della carne, lasciando poi il pittore spagnolo ad affrontare penose e complicate ricostruzioni in una sorta di cattività esistenziale.
Pensando invece a Dolores, la città non poteva essere che Montreal, la capitale di uno stato come il Canada che mai si era posto con ambizioni di dominio sulla scena internazionale, ma aveva sempre svolto un ruolo di sostegno attivo nei confronti dei suoi abitanti e della corona britannica e in questo modo si era sempre tenuta alla larga dai guai e consentito una vita tranquilla, forse anche un po' noiosa ma pur sempre agiata ai suoi abitanti. Alla prima occasione ne avrebbe parlato con Dolores per vedere se fosse stata d'accordo con quell'impostazione.

Mentre sorridendo era alle prese con quel pensiero si avvicinò d'improvviso la bella e giovane cameriera boema che, con grande piacere di Rubén, ogni sera prestava servizio nel turno in cui lo spagnolo si trovava lì per il suo rituale letterario e a bruciapelo, in un inglese perfetto gli "sparò" dritto per dritto la seguente domanda: "Ma che cos'hai tu da scrivere così tanto ogni volta?"

Rubén fu completamente sorpreso da quella domanda e come un bambino colto nell'atto di rubare le caramelle dal bancone di un negozio, farfugliò imbarazzatissimo una risposta assolutamente insipida improbabile: "Ognuno ha le sue tristezze", tanto che l'intraprendente cameriera per nulla soddisfatta rilanciò subito: "Non mi sembri così triste! Ho capito va, non me lo vuoi dire" indirizzando a Rubén un sorriso malizioso, per poi concludere "Ok, se cambierai idea e vorrai dirmi la verità, come sai ogni sera sono qui e termino il turno a mezzanotte. A parte il lunedì, che devo dedicare al mio ragazzo" e poi dare la schiena allo spagnolo e rientrare in cucina.

Rubén, piacevolmente sorpreso dall'intraprendenza della ragazza, sulle prime pensò che questa fosse rimasta attratta dalla sua bizzarria e che non fosse abituata a vedere uno straniero non più giovane venire in quel posto da solo e scrivere ogni sera senza curarsi di nulla, ma poi spostò i suoi pensieri sul significato della domanda. Quel "Ma che cos'hai tu da scrivere così tanto ogni volta?" forse andava interpretato in "Perchè scrivi tanto tu?". La questione non era sul "cosa", ma sul "perchè". Già, perchè?

Lo spagnolo aveva sentito dire che scrivere fosse un atto simile al parto, perché permette di dare forma all’informe e rendere fruibile all’uomo ciò che arriva direttamente dal mondo platonico delle Idee e quindi da ciò che non è umano ma divino. Chissà, forse perché lui era maschio e poteva conoscere le gioie e i dolori della maternità solo per via indiretta come osservatore partecipe, la scrittura aveva iniziato ad esercitare  su di lui un fascino irresistibile, avendolo scoperto come un atto di creazione nel senso  accennato più sopra: trasformare il pensiero intangibile di un attimo fuggente in qualcosa di tangibile che lascia una traccia capace di arrivare ai sensi dell’altro, non solo per un istante effimero come fa la parola, ma addirittura di sopravvivere alla morte.

Probabilmente c'era molto di vero in questo, ma in quelle sere lui scriveva per altro: avrebbe voluto rispondere più o meno così alla bella boema: "Per sopravvivenza. Per necessità di pulire la psiche dai troppi pensieri che altrimenti diventerebbero nella mente come una specie di criceto che corre all'impazzata su di una ruota e questo movimento isterico e senza sfogo finirebbe per togliermi ogni energia fino a farmi esaurire completamente, se non scagliassi con forza questi pensieri su di un foglio vuoto. In realtà "mia cara" mi piacerebbe molto spiegarti anche che ogni volta quando mi passi davanti e ti pieghi verso di me o di lato e permetti alla mia vista di intuire la pienezza e la tonicità dei tuoi seni che la camicetta, benché abbottonata, non riesce ad occultare e vorrei dirti anche quanto tu riesca a sollecitare il mio istinto animale a cui farebbe piacere assai toglierti d'impeto ogni impedimento che ostacola la tua fisicità a prorompere all'aperto." 

Il quesito adesso era: accettare o meno l'invito della cameriera a fornire, finito il turno, le adeguate risposte alla sua domanda, escluso il lunedì perché c'era il suo ragazzo?

Rubén si alzò dal tavolo, lanciò un ultimo sguardo alla vista mozzafiato della capitale boema ora illuminata nella notte, andò alla cassa, pagò il conto e prese l'ascensore per scendere a terra, attraversare la città vecchia e raggiungere il suo appartamento situato a Josefov, all'ultimo piano di un palazzo di fronte alla Sinagoga detta "Spagnola", farsi una bella doccia gelata per raffreddare tutti i criceti, ovunque questi si agitassero, e poi fumando il solito sigaro cubano sorseggiando un bicchiere di rum invecchiato seduto sulla terrazza del suo appartamento, decidere se accettare quell'inaspettato quanto pericolosissimo invito. Sicuramente non il lunedì.






sabato 6 novembre 2021

A CIVIDALE NON SI PASSA: ANCHE CREMONA KO IN VIA PERUSINI

 

Nella sesta di andata la Gesteco Cividale ritornava sul parquet di casa per continuare la serie aperta di 3 vittorie consecutive, incalzare l’invitta la capolista Mestre e dare ancora più consistenza alla fama di fortino “inespugnabile” che il palazzetto di via Perusini si è meritatamente guadagnato, essendo stato violato solamente da Montegranaro nella regular season dell’anno passato. Per centrare gli obiettivi le Aquile si presentavano anche per la prima volta con il roster al completo con il completo recupero di Laudoni e Ohenhen e determinate a superare la Juvi Cremona, giunta a Cividale appaiata in classifica al secondo posto con 8 punti. La Gesteco in avvio si affida ai collaudati Chiera, Battistini, Miani, Rota e Rocchi e grazie al solito Battistini fa subito intendere di non voler fare sconti agli ospiti che si dimostrano attrezzati per rendere complicata la strada ai padroni di casa e il punteggio così recita 6-6 a 6’50”. Una tripla di Miani e una di Chiera rompono l’equilibrio e fanno segnare il +6 a 5’39” ma le aquile non riescono a sfruttare la possibilità di allungare, complici diversi errori in attacco, e consentono così ai lombardi di rimanere attaccati sul 14-10 2’50”. Nella parte finale della frazione ci pensano Rota, con una tripla, ancora Battistini con un gioco da 3 punti a portare avanti gli uomini di Pillastrini sul 20-10 a 36”, con Nasello per gli ospiti ad accorciare sul 20-12 a fil di sirena. Il secondo quarto si apre ancora con Battistini sugli scudi e che in avvio tenta di compensare il momento no di Laudoni in attacco (0/3 al tiro in due minuti), ma la sterilità offensiva consente a Cremona di portarsi sul 22-18 a 6’33”, nonostante un time-out chiamato opportunamente da Pillastrini per riordinare i giochi dei suoi. I lombardi credono nella rimonta e grazie al totale black-out delle Aquile in attacco vanno prima sul 22-20 a 5’13”, poi completano la rimonta a 4’51” e infine mettono il naso avanti sul 22-24 con due liberi di Gobbato a 3’50” e poi sul 22-26, sempre con due liberi di Preti 3’02”. Battistini rompe il ghiaccio a 2’15” e poi Rota sgancia la bomba del 27-25 a 2’00”, interrompendo il film horror che i padroni di casa hanno messo in scena al tiro durante tutta la seconda frazione. Miani segna i liberi del 29-25 e ancora Rota con una tripla nei secondi finali della frazione stabilizza il tabellone sul 32-27. All’intervallo lungo Cividale vede tutti i punti ad appannaggio dei “senatori” (Battistini 11, Chiera 8, Miani 7 e Rota 6) e percentuali al tiro decisamente rivedibili (12/37 dal campo), compensate dalla supremazia ai rimbalzi (25 contro 18 degli ospiti) e la sensazione è che i ducali stiano giocando con il fuoco perché Cremona, senza l’imbarazzante 0/10 da tre, avrebbe ben altro punteggio. Dopo la sosta Cividale non riesce a dare seguito al finale del tempo precedente e continua a sparare “a salve” dalla lunga distanza, con il solo Battistini a portare punti sotto canestro, così che al 7’30” il vantaggio dei ducali è già “andato” e le due squadre sono di nuovo in parità sul 34-34 a 6’53”. La frazione procede con errori ripetuti da ambo le parti e a 4’17” la prima tripla degli ospiti li porta sul 39-39 a 4’17” mentre il finale è combattuto punto a punto, errore a errore, con le Aquile che riescono a chiudere ancora avanti sul 48-44 solo grazie alla freddezza ai tiri liberi di Rota e Miani. Con un punteggio decisamente basso si arriva così all’atto finale, senza che il copione riesca a mutare da ambo le parti e percentuali assolutamente insolite per le aquile, tenute a galla dalla supremazia a rimbalzo. I primi punti arrivano al 6’52” con un libero di Cassese (49-44), una tripla di Rota per il 52-46 e una penetrazione di Chiera (54-46) a 4’40” e così ci si avvia al finale del match con Cividale che cerca di complicarsi nuovamente la vita prima per un tecnico fischiato a Rota a 3’40” che “costa” il 54-47 e poi con un fallo fischiato in attacco a Paesano sul ribaltamento successivo. Le occasioni per allungare definitivamente non mancano, ma purtroppo per la Gesteco questa sera le sue “bocche da fuoco” sono caricate male e così i lombardi restano ancora incollati sul 54-49 quando mancano 1’23” alla fine. Ci pensa il solito Battistini (ancora una volta autore di una prestazione dalla sostanza e numeri importanti sia in attacco che in difesa: alla fine lo score dice 8/17 dal campo e 19 rimbalzi per 27 di valutazione e 18 punti a segno) a mantenere il + 7 (56-49) con un tiro dalla media distanza a 1’08” e consentire alla squadra ducale così una “serena” gestione dell’ultimo minuto, suggellato con due liberi di Chiera che portano il tabellone sul 58-51 finale. Pur senza incantare, anche stavolta al Palagesteco tutti i salmi finiscono in gloria per gli uomini del Presidente Micalich che così staccano Cremona, continuano così l’inseguimento ravvicinato alla capolista Mestre, passata a Monfalcone e fanno sognare i tifosi di rivivere un’altra entusiasmante stagione. Quanto ai lombardi, autori di una buona prova difensiva, perdono l’occasione di sfruttare la serata-no al tiro delle aquile, senza però poter recriminare più di tanto alla luce dell’imbarazzante 2/25 messo a segno al tiro dall’arco.

Giuseppe Passoni

 

UEB GESTECO Cividale – JUVI Cremona 1952                  58 – 51

(20-12, 32-27, 48-44)

 UEB GESTECO CIVIDALE

Miani 9 (1/3, 1/2), Chiera (k) 12 (2/6, 2/6), Cassese 3 (1/3, 0/4), Laudoni (0/3, 0/3), Rota 14 (1/1, 3/8), Battistini 18 (8/13, 0/4) Cuccu n.e., Paesano (0/3, 0/2) Furin n.e., Rocchi 2 (1/1, 0/5) Micalich n.e., Ohenhen n.e.

Allenatore: Stefano Pillastrini

Vice: Giovanni Battista Gerometta e Marco Milan

Tiri liberi 12/15, Tiri da due 14/33, Tiri da tre 6/34, Rimbalzi 50 (35 dif. 15 off.)

 JUVI CREMONA 1952

Boni n.e., De Martin n.e., Milovanovikj 9 (2/4, 1/7), Bona n.e., Nasello 11 (5/10, 0/1), Tonello n.e., Fumagalli 6 (2/6, 0/4), Vacchelli (k) (0/1), Giulietti 8 (4/5, 0/1), Preti 12 (4/8, 1/8), Zoccoli n.e., Gobbato 5 (2/5, 0/3).

Allenatore: Alessandro Crotti

Vice: Maximiliano Moreno

Tiri liberi 7/10, Tiri da due 19/38, Tiri da tre 2/25, Rimbalzi 39 (32 dif. 7 off.)

 Arbitri: Diego Secchieri e Filippo Castello

Spettatori 602.

giovedì 4 novembre 2021

MORIRE A CAPRI


Con gli occhi che ancora bruciavano come due torce per un lungo ed ininterrotto pianto solitario, Rubén fissava dal punto panoramico di Villa Jovis il braccio di mare davanti a sé e che divide Capri da punta della Campanella, il punto più estremo che separa la penisola sorrentina dal golfo di Salerno e segna l'inizio di una costiera tra le più spettacolari che si possano percorrere sull'intero pianeta, allungandosi per meno di 40 chilometri da Positano e passando per Amalfi, giunge sino a Vietri sul Mare, comprendendo tra le altre località parimenti affascinanti come Praiano, Furore, Conca dei Marini, Atrani e Ravello. 
Un luogo di una bellezza naturale capace di togliere il fiato e divenuto un "must" per il jet set internazionale dopo il 1945, tanto da essersi meritato l'appellativo di "divina costiera", dove il "divino" non si capisce se derivi dall'opera creativa degli Dei che l'hanno forgiata tra scogliere a strapiombo, macchia mediterranea lussureggiante e mare smeraldo, oppure dall'essere abitualmente frequentata da donne e uomini tra i più potenti, belli, ricchi e famosi che ci siano sulla Terra, tutti più o meno soliti pensare di poter vivere nell'impunità, ritenendosi più vicini agli Dei che al resto degli umani. 
Un po' come si era sentito Rubén stesso, quando qualche giorno prima l'aveva percorsa in lungo e in largo in compagnia di Jasmine, via terra e via mare, dopo aver trascorso un intero pomeriggio proprio raggiungendo a piedi la torre di punta della Campanella, nei pressi della quale i due si erano fermati a lungo ad osservare l'avamposto occidentale di Capri, i celeberrimi faraglioni e quei cinque chilometri di mar Tirreno che separano i due estremi, distanza che un abile nuotatore ben allenato può colmare senza rischi eccessivi. O così almeno a detta del pescatore che una sera aveva portato i due ad osservare un chiaro di luna a largo dell'isola, cosa che Rubén, uomo legato alla terra e con scarsa familiarità ai flutti marini, si era disinteressato dall'approfondire. 
Quel pomeriggio si era davvero sentito anche lui il Re del Mondo, in quel luogo che pareva irradiare un'energia misteriosa, tanta era la bellezza che inondava la vista e recava allo stomaco la sensazione del vuoto che viene riempito da ondate che a loro volta creavano una sensazione di estremo benessere ed euforia. Il profumo del mare e della vegetazione che si mescolavano insieme trasportati da una gentile brezza e il sapore dei baci di Jasmine, unito al contatto della sua pelle liscia come la seta e il tutto sotto ad un cielo che più blu non si può ed un sole che riempiva ogni spazio di luce bianca, capace di creare mille riflessi d'argento sulle onde di un mare solo lievemente mosso, in quell'attimo facevano dubitare Rubén che mai Adamo ed Eva fossero stati cacciati dal Paradiso Terrestre.
 A pochi giorni di distanza, scosso dalla testa ai piedi, il pittore spagnolo era invece dall'altra parte dello stretto, a Villa Jovis, e punta della Campanella, ben visibile allo sguardo e a soli 5 chilometri, sembrava in realtà lontana quanto la Nuova Zelanda; il suo animo non era più in grado di abbracciare l'orizzonte com'era capitato sull'altra sponda ma sembrava essere stato inghiottito dal baratro che si apriva sotto ai suoi piedi: quel momento della sua vita ben si rispecchiava nella villa di Tiberio alla sua sinistra, ora in rovina dopo essere stata uno splendido palazzo imperiale in età antica; ma se il palazzo aveva impiegato più di qualche secolo per diventare un rudere, il suo Paradiso Terrestre era invece svanito nel giro di qualche ora, precisamente da quando quella mattina aveva aperto gli occhi nella sua stanza dell'albergo "la Scalinatella" e accanto a sé, dopo l'ennesima notte d'amore, non aveva trovato Jasmine ma un foglio di carta da lettere dell'Hotel riempito con un unica riga d'inchiostro nero. Nero come la pece. "Addio Rubén. 
Sei un uomo meraviglioso, ma la mia vita è altrove e tu non sei e non potrai mai essere l'Altrove. Jasmine". 
La forza distruttiva del Vesuvio che nel 79 d.c. aveva raso al suolo Pompei ed Ercolano nulla fu in confronto alla bomba emotiva che fece tremare da capo a piedi Rubén in quell'attimo. Le lenzuola, il cuscino, la stanza erano ancora invasi dal profumo della donna che da diversi mesi era entrata con la forza di un uragano nella sua vita, coprendo con la sua presenza non solo ogni spazio intorno allo spagnolo ma anche occupando ogni pensiero nella sua mente e tutta l'energia che scorreva nei suoi nervi e nei suoi muscoli. 
Ma a parte quell'eterea presenza, l'unico oggetto attribuibile a Jasmine nella stanza era quella tremenda carta da lettera, null'altro: niente vestiti, niente valige, neppure un fazzoletto, nulla di nulla. Rubèn, senza neppure accorgersi si era già rivestito alla meno peggio e aveva già raggiunto la hall dove il concierge gli aveva confermato di aver incrociato la "più bella donna che lui avesse mai visto a Capri" mentre usciva qualche ora prima trascinando di fretta un set di valige Vuitton. 
Animato dalla disperazione più nera iniziò una folle corsa attraverso le viuzze di quell'angolo di Paradiso che ora gli parevano più tetre dei gironi infernali, passò la piazzetta, prese la funicolare e scese come un ossesso verso le banchine di Marina Grande dove poté solo scorgere in lontananza uno dei traghetti che probabilmente facevano rotta verso Napoli. 
E adesso che era lì immobile, come una statua, e che l'energia impiegata in quella folle corsa non annullava più i suoi pensieri, iniziò a sentire un incendio pauroso che gli dilaniava lo stomaco e un'onda d'urto pari a quella di uno tsunami oceanico salire alla gola e prorompere verso gli occhi. I pensieri erano tremendi e così Rubén, per annullarli e per cercare di togliersi di dosso quella tempesta sensoriale, ricominciò a correre a perdifiato, ma stavolta a ritroso: prese la funicolare, attraversò la piazzetta e s'infilò a sinistra, alla ricerca di via Tiberio che poi percorse fino allo sfinimento, urtando a destra e sinistra e facendo imprecare i turisti che anch'essi salivano verso villa Jovis. 
Alla fine era giunto al punto panoramico e distrutto da quella folle corsa tutta in salita, stramazzò su di una panchina e iniziò a trasformare tutti i liquidi corporei in lacrime, crollando disidratato tra singhiozzi e spasmi, in un sonno simile alla morte. 
Quando si risvegliò non era neppure in grado di capire quante ore avesse dormito, ma intese che dovevano essere state parecchie perché il sole era ben lontano dal punto in cui l'aveva lasciato e aveva perso molto della sua forza e intorno a sè la luce non era più bianca e accecante, ma tendeva al giallo ed era molto più docile. 
L'onda d'urto lo aveva steso, ma quello stato di morte apparente gli aveva pulito la mente: da villa Jovis ora vedeva il mondo alla rovescia rispetto a come l'aveva osservato da punta della Campanella e comprese che la Verità stava tra le rovine della dimora tiberina, nella parte del mondo a rovescio. In fondo già da tanto tempo il suo Cuore sapeva bene che lo tsunami emotivo che l'aveva appena  devastato un giorno di sicuro sarebbe  giunto mentre quello che non poteva prevedere era solo il modo, la data e l'ora in cui si sarebbe scatenato e lui, contro quel "sapere", con la mente non aveva fatto altro che creare una barriera di auto-inganni se non per scongiurare il pericolo, almeno per allontanarlo temporalmente il più possibile. 
Il Cuore aveva capito benissimo che lui, per Jasmine, non sarebbe mai stato l'Altrove che lei vagheggiava morbosamente, in modo palese, senza inganni e che tutti i gli sforzi per raggiungere quell'Altrove mai gli sarebbero stati sufficienti e anzi non facevano altro che, paradossalmente, allontanarlo sempre di più dai desideri della donna. 
Più si era affaticato e più si era allontanato, non solo da Jasmine, ma soprattutto e, cosa ben più grave, da sé stesso, quel sé stesso che ora disperatamente cercava di scorgere all'Orizzonte ma che non riusciva minimamente ad intravedere, perché punta della Campanella davanti a lui non faceva altro che rimandargli le immagini di un mondo che non c'era più e quella di un uomo che si era aggrappato ad un'allucinazione che aveva contribuito a costruire, oscurando la realtà e spostando il focus sui desideri. Storia vecchia. 
Con le poche forze rimaste Rubén lasciò il punto panoramico e, aggirandosi tra le rovine del palazzo di Tiberio, salì sul punto più alto del promontorio e volse la vista dall'altra parte, superando velocemente con lo sguardo Napoli, la sagoma del Vesuvio e le isole di Procida ed Ischia per fissare invece il mare aperto, che iniziava a tingersi di rosso in vista dell'imminente tramonto che stava per aver luogo sull'altro lato dell'isola, quello nascosto dalla sommità di Anacapri.
Un sorprendente senso di pace lo avvolse all'improvviso e il pensiero che iniziò a farsi strada dentro di sé raccontava che quel Rubén di punta Campanella era morto, come quel Sole che in maniera "sanguinolenta" era sparito da qualche parte dietro al faro di punta Carena. La morte era stata violenta ma ora lui si era guadagnato l'opportunità di scoprire, forse per la prima volta e per intero, quell'uomo pieno di talenti e meritevole di rispetto che lui stesso aveva invece umiliato e abbandonato da tanti, troppi anni da qualche parte del suo Altrove al largo di quel mare che davanti ai suoi occhi si perdeva senza fine all'Orizzonte. E quell'uomo che Rubèn aveva maltrattato e gettato in mezzo al mare e che ora desiderava ardentemente abbracciare, amare, proteggere e averne cura, non si trovava più disperso tra quei flutti ma era sbarcato da qualche parte dentro di Sé.
Adesso si trattava di ritornare alla "Scalinatella", riposare un po', fare i bagagli, pagare i conti, imbarcarsi per la terraferma e iniziare il viaggio verso casa dove, ricaricate senza fretta le pile, tutta quell'energia impiegata per restare così a lungo aggrappato ad un'allucinazione che lo faceva correre controvento verso un Altrove che non era il suo, andava riconvertita per la ricerca di quell'uomo che lo aspettava da una vita e una volta trovato, finalmente abbracciarlo, dopo aver per sempre perdonato Rubén.  
La strada si preannunciava lunga e penosa quanto era grande il premio ad attenderlo alla fine del cimento.
         

 

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