sabato 30 dicembre 2017

ERAVAMO DUE AMICI AL BAR


Caro collega, come diceva Paul Valery, due pericoli costantemente minacciano il mondo: l’ordine e il disordine! 
Ma per questo, esimio collega, la Natura ha creato il sonno per eliminare il disordine e l’uomo la birra per abbattere l’ordine.
E la donna, caro collega? 
Be’ ... la donna è il miracolo: ordine e disordine insieme nello stesso istante, ingenuo collega.
Shakespeare?
No, Anonimo. 

mercoledì 27 dicembre 2017

LA VERGOGNA: DIRITTO O DOVERE?



ROMA - tempo non precisato.


PRESIDENTE In fin dei conti, caro Commissario Tecnico, lei non è nè uno scrittore nè un giornalista e neppure, credo, un aspirante salvatore della patria, ma un allenatore, puramente e semplicemente un allenatore e anche di grande valore, per cui io non voglio perderla e farò di tutto per tenerla qui con noi, ma lei mi deve aiutare e ritrattare quel suo articolo sulla nuova legge di ripartizione dei diritti TV... Ci tiene così tanto?

CT Presidente, si figuri, è la cosa al mondo cui tengo di meno!

PRESIDENTE In ogni caso non capisco tutte queste insistenze per far ritrattare pubblicamente le opinioni, che significa poi “ritrattare”? Sembra di essere ripiombati nel tempo della Santa Inquisizione, della caccia alle streghe. Un opinione nell’era moderna può essere soltanto confutata e pertanto, caro Mister, essendo qualcosa di impossibile ritrattare un’idea, non vedo motivo per cui lei non debba fare ciò che le hanno chiesto di fare.

  CT Presidente, Lei ha sicuramente ragione....

PRESIDENTE Eppure la vedo esitante. Mi creda, non deve! In una società retta dalle menzogne e dalla corruzione le dichiarazioni non hanno alcun valore, perchè sono estorte con l'inganno o il ricatto... le persone per bene lo sanno e di certo non ne tengono conto.

  CT Presidente...

PRESIDENTE Caro Mister, io Le dico nel mio interesse di Presidente Federale, nel suo interesse di Commissario Tecnico della Nazionale, di allenatore professionista e in quello dei suoi ragazzi...

CT  Presidente... io capisco... ma...

PRESIDENTE Ma? Di che ha paura?

CT Ho paura di provare vergogna...

PRESIDENTE Vergogna? davanti a chi poi? non mi dirà che ha una così alta opinione delle persone che le stanno attorno per farsi cruccio di ciò che pensano? Eppoi senta: mi hanno assicurato che non è necessaria una dichiarazione pubblica... rimarrà solo qualcosa tra Lei, me e il Presidente della Lega Professionisti. Caro Mister, in fondo è solo burocrazia, necessitano solo di un pezzo di carta da conservare nei loro schedari.

 CT Nei loro schedari?

PRESIDENTE Ma si, tanto per dimostrare che lei non è contro il Governo e che se domani qualcuno  dovesse attaccare il Presidente della Lega, e anche me, perchè l’ho lasciata qui al suo posto, Lega e Federazione possano scagionarsi. Solo burocrazia, mi creda, è solo burocrazia.

CT Non si preoccupi per la burocrazia Presidente, avrà oggi stesso la firma delle mie dimissioni.

mercoledì 20 dicembre 2017

L'INTRAMONTABILE LEZIONE DI MILAN KUNDERA. E LA MENO APPRESA.



PRAGA, gennaio 1970

AMICO          Non ci posso credere! Tu sei un pazzo… e adesso? Che fai?

PAVEL           Per adesso il facchino. In una cooperativa, beninteso.

AMICO       Ma perché tutto questo Pavel? In nome di Dio, cosa può essere così importante per distruggere una vita, la tua vita!

PAVEL        Mio caro Milo, in primo luogo non volevo essere complice della condanna di quel Edvard Vodla, un innocente che tra l’altro, non ho mai visto né conosciuto… E quindi dovevo anticipare le mie dimissioni, per non dare alla polizia nessuna possibilità di ulteriore ricatto.

AMICO          Ed in secondo luogo?

PAVEL           Non voglio una vita protetta da una menzogna! Che me ne faccio del mio lavoro, della mia carriera quando debbo essere la maschera di me stesso? In una società in maschera…

AMICO          …e così meglio fare il lavavetri senza violentare sé stessi? Più ti ascolto e più mi convinco tu sia un pazzo scatenato. Perché non te sei andato allora? Perché non hai abbandonato subito il paese per esercitare la tua professione all’estero?

PAVEL           … perché io lo amo il mio paese… e non lo cambierei con nessun altro posto al mondo, anche così imprigionato… perché dovrei andarmene? Credi che saranno in grado di rubarmi anche i colori del tramonto quando illuminano fiammeggianti le cupole dei palazzi della città d’oro? O pensi che possano pure mettere sotto vuoto gli odori di Malastrana dopo una nevicata? è qui che voglio vivere ed è qui che voglio morire! Io non voglio fuggire.. né dal mio paese né da me stesso, caro Milo: possono cercare di togliermi tutto: il mio lavoro, i miei amici… ma non avranno mai il mio paese ed il mio diritto di dire no, quando voglio dire no. Mi costerà la vita dici? Non lo so, ma di una vita in maschera o peggio, di muta rassegnazione, non so che farmene. Meglio “essere” un medico che per vivere in pace con la sua anima ha deciso di fare il lavavetri… che perdere la stima di se stessi per “fare” il medico ed evitare di “fare” il lavavetri!

AMICO          Non so che dire Pavel, non so se provare vergogna per la mia piccola anima che non riesce a seguirti o sentire sollievo, sapendo di essere in grado di vivere in pace con me stesso. come dici tu, avendo imparato a nuotare bene nel mare del conformismo. Se tu veramente ritieni di aver fatto la cosa giusta…

PAVEL           La cosa giusta? Qual è il metro per misurare qual è la cosa giusta? Nel 1618 la nostra nobiltà decise di gettare dalla finestra del Castello i delegati imperiali e per mantenere il diritto alla propria libertà di religione causarono l’inizio della guerra dei trent'anni…

AMICO          Che si risolse con lutti e distruzioni in tutta Europa e per la nostra nazione significò la perdita della sovranità per 300 anni… Come sempre non ti seguo…

PAVEL           Questa volta non mi segui perché vai di fretta: nel 1968, 350 anni dopo, abbiamo deciso che resistere ad un’invasione avrebbe causato inutilmente lutti e distruzioni e abbiamo di nuovo perso la nostra sovranità; 350 anni fa abbiamo creduto più nel coraggio che nella prudenza, oggi più alla voce della prudenza che a quella del  coraggio…

AMICO          … ma il destino della nostra sovranità non è cambiato… e dunque?

PAVEL           … e dunque ognuno deve seguire la “sua” strada senza mai voltarsi indietro e senza mai dimenticare nulla…

AMICO          .. e senza cercare scorciatoie o deviazioni…


PAVEL         Proprio così, perché tanto scorciatoie o deviazioni ci riporterebbero inevitabilmente sulla nostra strada…. Finalmenti mi segui… (ESTRAE DALLA TASCA UNA LATTINA DI BIRRA E LA APRE)… Na Zdravi!!!



martedì 12 dicembre 2017

SOLSTIZIO D'INVERNO

Ruben stava fissando con sguardo assente lo schermo luminescente del pc davanti a sé, mentre i pensieri nella mente correvano all'impazzata all'interno dei meandri di quella sorta di labirinto che era diventato il suo cervello negli ultimi anni, quasi fosse diventato un novello Teseo che giocava a nascondino con il Minotauro, senza però mai affrontarlo e senza mai trovare la via d'uscita. Era sempre riuscito a costruire per la mente giustificazioni valide per quella stasi e in ogni fase di crisi acuta aveva idealizzato momenti di possibile svolta a favore, aggrappandosi a questi con il cuore e con la forza della disperazione. Ma le poche volte che i fattori idealmente utili per decretare le svolte  facevano timidamente capolino all'orizzonte, nuovi e più potenti ostacoli si ergevano per bloccare ogni speranza. Un po’ come la ricerca del Santo Graal: trovato un indizio e svelato l’arcano questo ti rimanda ad un nuovo indizio e ad un'altra prova da superare; e via avanti, senza fine.
Adesso però Ruben si sentiva terribilmente privo di nuovi indizi. Certo, nel mezzo un mare sconfinato d’Amore,  quello si sempre senza se e senza ma, comunque fosse; ma mentre i suoi occhi erano ancora immobili ed inespressivi davanti al fascio di radiazioni luminose emesse dallo schermo del suo computer, ora sentiva salire dal profondo dei visceri solo una lenta e macerante sensazione fisica che si traduceva in una nuova e tremenda certezza per la mente: non ci saranno più nuovi indizi. Era arrivato davvero il tempo della lettera che non avrebbe mai creduto di dover scrivere, nonostante le svariate volte in cui aveva temuto fosse giunta l’ora: le dita tremavano sulla tastiera e ora iniziavano lentamente a digitare le lettere, quasi a voler prolungare gli esiti di un Amore totale condannato invece all'esilio perpetuo, sperando che nel mentre potesse ancora accadere “qualcosa” in grado di risollevare le sorti avverse. Un po’ come aveva vissuto per tanti mesi e invece, come il Sole in quel periodo, aveva viaggiato inesorabilmente verso il Nadir, verso il punto più basso, che oramai era prossimo anche astronomicamente. Il Solstizio d'inverno era vicino e con esso anche il Natale. L’inizio della risalita della Luce e la festa cristiana dell’avvento del Salvatore venuto ad annunciare la buona Novella, momento in cui sin dalla notte dei tempi pagani prima e cristiani poi celebravano la rigenerazione, la trasformazione, il passaggio. Gli ultimi anni era stato così anche per lui, specialmente l'anno prima, in cui aveva avuto l’impressione che fosse davvero iniziata la risalita. Ricordava con tanta nostalgia il pomeriggio passato insieme con Carmen nella cantina dell'Alcazar di Segovia il giorno dopo il suo ritorno da Madrid: era stata la prima volta dopo tanto tempo che proprio Carmen aveva voluto parlare di futuro, di azioni da intraprendere, in un modo che faceva trasparire chiaramente voglia e determinazione. Purtroppo era stata anche l’ultima volta che lo aveva fatto e il moto del suo Sole era rimasto impigliato lì. Nessun Solstizio d’estate, nessuna Pasqua di resurrezione, invece una costante discesa verso l’Abisso in cui l'Amore, secondo Ruben, aveva solo potuto frenare a tratti la velocità della discesa, senza però mai riuscire a ribaltare la rotta.
"Mi verrebbe da dire come gli effetti della chemioterapia che riducono la massa tumorale senza però eliminarla, intossicando il più delle volte irreparabilmente tutto il resto dell’organismo sano" - esclamò a voce alta Ruben, come se avesse scoperto una nuova malattia rara.
Subito dopo quella macabra intuizione però Ruben si sentì avvolto da un forte senso di nausea: l’idea di paragonare l’Amore a qualcosa di tossico-nocivo era troppo ributtante per essere accettata dal suo organismo, prima ancora che dalla sua mente; se proprio voleva cercare una metafora nel campo farmacologico per descrivere l'effetto di quell'Amore sulle loro Vite era probabilmente meglio pensare alla morfina, i cui effetti per un po’ riescono almeno a portare sollievo all'organismo malato,  prima che il male riprenda sempre inesorabile il sopravvento.

martedì 5 dicembre 2017

CAMERA CON (S)VISTA

Ruben era affacciato, completamente nudo, sul balcone della cabina e fissava uno dei panorami più belli che mai l'occhio avesse catturato in tutta la sua vita. "E' davvero terribile non essere in armonia con la Bellezza , sentirsi un intruso nella bellezza della Natura e dell'opera più ispirata dell'Uomo." Davanti a sé il Sole stava salendo dal fondo del Mare e le dita rosa di Aurora si allargavano all'orizzonte allontanando le tenebre a favore della Luce, di minuto in minuto, mentre l'unico rumore che udiva era quello dei flutti del mare calmo che si aprivano al passaggio dello scafo della grande nave che solcava l'Adriatico come una lama nel burro fuso e una brezza gentile accarezzava tutto il suo corpo. "O forse è persino peggio non essere neppure in armonia con Kronos?" La Luce stava inesorabilmente sconfiggendo le tenebre mentre lui ogni minuto che passava si sentiva sprofondare in un'oscurità dell'anima sempre più fitta. Luce e Bellezza accompagnavano delusione e frustrazione per un sentimento negato; quella grande voglia di "sorrisi e di abbracci intorno a lui", quel calore che desiderava sentire risalire e che cercava da troppo tempo e che forse mancava nella sua forma più autentica praticamente da sempre, sentiva che lo stava stritolando in ogni cellula del suo corpo. Ancora sofferenza. Ancora una volta l'incubo ricorrente di essere al posto giusto con la persona sbagliata. Conosceva quella situazione, ma questa volta il dolore pareva insuperabile, amplificato da tutta quella bellezza intorno a Lui come un pugno nello stomaco. Mentre alla vista si avvicinavano le eterne "sponde ove il mio corpo fanciulletto giacque" e quelle altrettanto immortali della  "petrosa Itaca" e nella sua mente fluttuavano in disordine le immagini dei resti del Tempio di Cnosso, le rovine di Olimpia e del tempio di Apollo a Delfi, un terribile Minotauro lo rincorreva senza sosta nei suoi pensieri e gli pareva di sentire il fegato lacerato dal becco dell'Aquila mandata da Zeus a punire Prometeo. Nei mesi che avevano preceduto quella novella Odissea aveva davvero creduto di aver finalmente trovato ciò che cercava. Aveva scoperto che si poteva davvero essere di nuovo felici e stare bene. Lo aveva "sentito". Ora invece si sentiva sfinito, risucchiato nel nulla, circondato emotivamente da una freddezza glaciale e da una durezza granitica, stesa a pochi metri da lui, all'interno della cabina, completamente nuda. "Non posso e soprattutto non voglio più vivere così!" Uno slancio uscì dalla mente, spinto più dalla disperazione che dalla convinzione. Per ora era solo una specie di "ultimo giapponese" armato fino ai denti nel tentativo di difendere da solo l'ultima isola dallo sbarco di una divisione di Marines. Nel profondo dell'inconscio, nella sua nigredo, ben altre e più potenti visioni intossicavano l'organismo, bloccandolo momentaneamente nel tentativo di abbozzare una qualche forma di riscossa che avesse una qualche minima possibilità reale di invertire la direzione del viaggio che aveva intrapreso. "Ho scoperto che si può stare bene ed essere felici - ripeteva a sé stesso - ma ogni volta è un attimo effimero che non riesce ad attecchire e affonda nelle illusioni e nelle deprivazioni. Non riesco a trovare le condizioni per poter condividere, per dare il tanto che non ho saputo o potuto dare e ricevere il tanto che non saputo o potuto avere. Che poi che cos'è di tanto difficile, tremendo e inafferrabile? "Solo" un po' di calore, solo qualche piccolo frammento di amore incondizionato. Uno sguardo d'amore, un abbraccio d'amore. La condivisione della gioia e della sofferenza che comporta la vita con le sue iperboli ed i suoi pungiglioni affilati."  In lontananza stava comparendo la rada e l'antica città fortificata di Ragusa che per lungo tempo aveva conteso il dominio dei traffici nell'Adriatico e nel Mediterraneo orientale nientemeno che alla Serenissima, conservando nei secoli una fiera indipendenza mescolando la cultura latina nel mare croato che la circondava. Il Sole era alto nel cielo. Gli sembrò una buona idea rientrare in cabina e prepararsi allo sbarco; forse tra quelle possenti mura, qualche immagine di resistenza e riscossa avrebbe potuto penetrare nell'inconscio e fornirgli un po' di sollievo e un'ancora di sicurezza.            

lunedì 4 dicembre 2017

MAMMA

Mia mamma Nella è nata a Gagliano nel marzo 1937, la carta d’identità recita il giorno 12 mentre lei da sempre sostiene che si trattava dell’11, il giorno del compleanno di sua madre, nonna Augusta detta Gusta, spiegando tale anomalia con il ritardo di suo padre, nonno Igino detto Gino, nel denunciare all’anagrafe l’evento.
Seconda di 6 sorelle e un fratello, ben presto divenne la più anziana per la prematura scomparsa all’età di 5 anni della sorella maggiore, sulla cui tomba ad ogni ricorrenza dei defunti mi portava a pregare sino a che fu in grado di esercitare autorità di su di me.
Come il nonno Gino non evitava mai di rimarcare con soddisfazione, era decisamente la più bella di tutte e questo, credo, non le abbia per nulla semplificato la vita in famiglia: non me lo ha mai detto esplicitamente ma le dinamiche familiari a cui ho assistito nel corso degli anni mi hanno indotto a credere che le sue sorelle avessero mal digerito la circostanza e l’avessero fatta oggetto in gioventù anche di malcelate cattiverie. I suoi studi si erano fermati alla sesta elementare in una scuola di campagna, terminati i quali era stata avviata a diventare un campione dell’economia domestica, competenza da applicare al destino a cui era stata “scientificamente” preparata: diventare la perfetta moglie e la “brava” mamma, incarnando all'ennesima potenza il modello in vigore in quel periodo storico nel luogo in cui era nata. Di come e quando abbia incontrato l’uomo che divenne suo marito e mio padre per me è ancora un mistero, così come il perché e il che cosa la fecero scegliere proprio quell'uomo quale il compagno di tutta una vita: i rapporti strettamente personali tra tutti i membri della famiglia furono sempre argomento tabù per me e mio fratello. La sua bellezza e mezze parole qua e là mi hanno fatto intuire che da giovane fosse molto ambita anche da persone di censo sicuramente più elevato di quello del mio futuro padre e ogni tanto, soprattutto nei momenti più difficili, le scappava di raccontarci di un bell'ufficiale romano che le aveva fatto una corte tanto insistente quanto inutile quando il suo reparto, nel 1954 durante il momento più aspro della crisi italo-jugoslava del secondo dopoguerra, era accampato nella campagna limitrofa a casa della mamma. 
“Sarei potuta andare con lui a Roma!”.
La prima a non crederci era proprio lei, che nonostante tutte le difficoltà e le infelicità che dovette patire in casa, mai la sentimmo dire che se ne volesse andare e che mai vedemmo venir meno l’impegno per “gestire” da sola e per lungo tempo tutti insieme un marito, un suocero, un cognato e due figli maschi.
Se a mia nonna, per aver sopportato il nonno, è andato “l’Oscar della carriera”, credo che mia Madre sia davvero in odore di santità. “Scelsi tuo padre perché fra tutti era quello che mi piaceva di più e perché era il più buono, anche se era il più povero.” Ecco tutto quello che mi ha detto in proposito quando ormai la mia Vita aveva superato i 45 anni e le mie scelte familiari erano state profondamente diverse dalle sue.  “Poveri ma belli”, insomma. Gli aveva giurato amore eterno e fu in grado di declinarlo con i fatti più che nelle forme, compresi i 17 lunghi anni in cui da moglie si trasformò in badante, ovvero da quando mio padre venne colpito da un ictus con conseguente afasia totale ed emiparesi a 64 anni; se lui riuscì a vivere così a lungo quella mezza vita, io credo sia dipeso molto dalla presenza costante e infaticabile di mia madre. Ripensando al rapporto tra i miei genitori mi duole ancora il fatto che, a parte pochi mesi del periodo che vivemmo da soli a Pordenone (1974/75), non riuscirono o non vollero portare la loro famiglia (loro due, me e mio fratello) lontano da Borgo San Pietro a vivere da soli: se lo sarebbero meritato e saremmo usciti tutti, prima e meglio, dal XVIII secolo dove invece rimanemmo prigionieri, incagliati per troppo tempo, a causa del vero Pater Familias che condizionò tutto e tutti: il Nonno. Pace all’anima sua.
Probabilmente tutto questo ha fatto si che, da un certo punto in avanti, io abbia provato e provi tuttora grande simpatia per il movimento femminista; a parte quando confonde o mescola la lotta per i diritti delle donne con il disprezzo dell’uomo in quanto tale. Ovviamente.

mercoledì 29 novembre 2017

NONNA

Mia nonna Elena era nata nel 1912, aveva anch'essa umilissime origini e della sua famiglia di provenienza, i Dominissini della frazione di Grupignano, ancor oggi conosco più nulla che poco; unico flashback suo fratello Marco morto per un tumore quando io frequentavo l’asilo, venditore ambulante di formaggi che il sabato mattina stazionava con il suo banchetto nella piazza del Duomo e al quale io e la nonna facevamo sempre visita … mi ricordo un uomo alto, dal viso magro e la carnagione giallastra però sempre sorridente e che mi allungava delle porzioni di un formaggio per cui all’epoca andavo matto: il gorgonzola! In seguito, solo l’odore di quel formaggio, iniziò a provocarmi la nausea e, se qualcuno mi vuole veramente del male e me lo propina di nascosto, potrebbe riuscire nell'impresa di farmi vomitare anche l’anima! Misteri della vita… Aveva l’aspetto di una vecchia matrona romana ed era la mia nonna preferita;  io ero il suo pupillo prediletto, il primo desiderato e sospirato nipote maschio, che neppure l’arrivo di mio fratello nel 1970 riuscì a scalfire quel rapporto privilegiato! Era il mio rifugio quando i genitori si arrabbiavano per le mie marachelle, mi riempiva sempre di sorrisi e carezze e quando mi portava con sé io ero sempre felice, non c’era volta che non mi regalasse qualche cosa: dalla caramella alla scatola di soldatini e che non mi presentasse con orgoglio alle sue amiche che incontravamo. Poi d’improvviso, quando avevo da poco iniziato a frequentare  la scuola elementare, il suo sorriso perse la gioia e il suo sguardo divenne sempre più spesso velato dalla tristezza; io non capivo il perché di quel cambiamento repentino, così come m’interrogavo sul perché prendesse spesso la bicicletta per uscire senza di me e ritornasse a casa qualche ora più tardi silenziosa e sofferente. Iniziai a chiedere ai miei genitori cosa avesse la nonna e ottenni sempre risposte evasive, che non facevano cambiare il mio pensiero: era il nonno che la faceva stare male! Ad un certo punto andò in Ospedale e quando vi fece ritorno per il Natale del 1975,  non si spostava più dal letto, non parlava più e la sua magrezza faceva una forte impressione ricordando la donna robusta che era stata prima. Dopo capodanno ritornò in Ospedale senza più fare ritorno a casa, morì a 64 anni nel mese di febbraio del 1976; l’ultima volta che la vidi fu qualche settimana prima, quando all’insaputa di tutti, stufo di troppe risposte evasive alle domande “Come sta la nonna? Quando torna la nonna?” presi la bicicletta e da casa andai a cercarla, trovandola,  nella sua camera dell’Ospedale di Cividale con mia mamma che l’assisteva al capezzale. Era quasi irriconoscibile nella sua magrezza ma credo che lo shock più grande lo provò lei nel vedermi … mi fissò con grande sorpresa, si lasciò andare ad un sorriso prima di  farfugliare agitata  un “oh Dio Dio …”  e prima che mia madre si alzasse dal letto e mi accompagnasse in corridoio, rimproverandomi per quella visita non autorizzata. Molti anni più tardi compresi che il male che se l’era portata via troppo presto era lo stesso che aveva rapito suo fratello e che portò via a 53 anni anche il suo secondo figlio e che nel seguito di questa storia avrei avuto molte altre volte modo di incrociare nei destini di persone che ho conosciuto: il cancro.
Purtroppo se ne andò troppo presto e la sua scomparsa segnò la fine del mondo felice e spensierato in cui avevo vissuto, fu come se nella famiglia si fosse spenta la Luce e iniziarono anni cupi, in cui il sorriso e la dolcezza sparirono da casa e calò una cappa plumbea di tristezza, di silenzi e di  incomunicabilità.
Per me era e resterà sempre una donna straordinaria, di indole allegra e sempre in grado di ravvivare la compagnia  e il fatto di essere riuscita a sopportare il nonno, le vale sicuramente, come dire, “l’Oscar alla carriera”.  

martedì 28 novembre 2017

PROBLEMI DI FORMAZIONE

Ruben era seduto sulla panchina arrugginita di quel campetto abbandonato alla periferia di Ponferrada; i nuvoloni che arrivavano ogni giorno dall'Atlantico gli parevano come gli stormi delle fortezze volanti alleate che vedeva arrivare dalla Manica quando era ragazzino, in Normandia e quel pomeriggio, riusciti a superare il massiccio del Cebreiro, avevano superato la Galizia e ora minacciavano di far cedere il loro carico di "bombe d'acqua" sull'arso territorio della Castilla.
Quell'immagine lo portò a considerare quale profondo periodo di cambiamento stesse attraversando. "Che stronzata cercare le cause - pensò - il cambiamento è la costante, il nostro inseparabile compagno di viaggio, non un visitatore improvviso." Che senso aveva allora puntualizzare l'ovvio, in una vita come la sua che sembrava più una corsa sulle montagne russe che il viaggio sull'Orient Express? Forse era meglio osservare il presente. Disincanto e cinismo. Ecco quali erano i titolari inamovibili della formazione che lui "stava mandando in campo" durante quell'inizio di autunno. Nessun desiderio di "gioco all'olandese", di trame spettacolari, di colpi da campione. Ostruzionismo, melina, nessuna voglia di verticalizzare. Tenere lo 0-0, buttare i palloni in tribuna. Nessuna spinta reale per migliorare "la classifica". Anzi. Questa si che era la novità assoluta per i suoi "colori sociali" e per la storia del suo "club". Niente più sogni di scudetto. Si trattava di rassegnazione o di rinuncia? Aveva poca voglia persino di cercare la risposta. Questo era il ritratto del suo momento, nel quale cercava di osservarsi quasi fosse uno spettatore disinteressato. Erano caduti, o meglio, si erano dissolti tanti punti di riferimento che in passato avevano orientato il suo cammino; si accorse che non era in grado neppure di capire dove e a che punto fosse e dove stesse andando. Peggio. Non sapeva neppure dove voleva andare in concreto. Melina. Ostruzionismo. Gioco per lo 0-0, senza neanche guardare la classifica. Neanche più difesa e contropiede, solo trappola del fuorigioco.
Guardò i nuvoloni e senti le prime gocce di pioggia, grosse come calabroni, cadere sul tetto malmesso della panchina arrugginita su cui era seduto. Guardò il campo di gioco. Estrasse dalla tasca un foglio e scrisse la formazione da mandare in campo. Si trattava di un 4-4-2.

1 - Memoria,

2 - Lentezza,
3 - Sonno,
4 - Tosse,
5 - Rifiuto,

6 - Stasi;
7 - Passività,
8 - Rinuncia,
9 - Ombra

10 - Disincanto
11 - Disillusione.

Allenatore: Ruben
In panchina, a disposizione: il Vuoto.
      

venerdì 24 novembre 2017

AMICIZIA

Ruben aprì con grande curiosità quella lettera, stupito del fatto che in quell'epoca di vorticosa comunicazione digitale in tempo reale, qualcuno avesse deciso di utilizzare quel mezzo che profumava di un antico passato sepolto per sempre. Iniziò a leggere: 
"Cari Ruben e Carmen … come voi ben sapete “scrivere” è la cosa che probabilmente meglio so fare, tra le molte (forse troppe) in cui mi sono cimentato nella mia vita “movimentata”; così per questo Natale ho deciso di accompagnare questi piccoli doni con alcuni pensieri che desidero dedicarvi per iscritto. Senza scomodare il classico verba volant scripta manent, vorrei che rimanesse fisso per il tempo a venire il GRAZIE che dal profondo del cuore si leva verso di voi: nel momento di maggiore difficoltà che ho dovuto affrontare in questi lunghi e per certi versi penosi anni siete stati la mia famiglia e se oggi, pur ancora claudicante, sono rimasto in piedi e con la possibilità di costruire forse qualcosa di buono, la vostra amicizia e il vostro concreto supporto sono stati fondamentali.
Siete stati vicini in tutti i momenti felici e ancor più lo avete fatto in attimi in cui ho davvero temuto di essere spazzato via, di perdermi del tutto, ho sempre sentito il vostro supporto, il vostro calore incondizionato e la vostra fiducia.
Quando piove la merda sono molti quelli che scappano, pochi quelli che restano al loro posto” dice Al Pacino in “Scent of a Woman” e voi, nel fuggi fuggi generale, non avete mai lesinato nel darmi riparo.
Siete per me come fratelli e probabilmente di più: un fratello è mosso dal vincolo di sangue, un vero amico, essendo disinteressato, invece è mosso solo dal sentimento di simpatia, nel senso greco del termine: condivisione del pathos.

GRAZIE.

Con la speranza di poter anche in futuro onorarmi della vostra fraterna amicizia e l’impegno di ricambiare con la condivisione di momenti più felici per tutti… Carlos."
Solo ora Ruben si accorse che due lacrime solcavano in profondità le sue guance e che quindi era ancora in grado di piangere: quello fu il più bel regalo di Natale.

giovedì 23 novembre 2017

UN BELL'INCONTRO

Un sincero sorriso illuminava il volto di Ruben mentre con passo svelto e sicuro camminava lungo il Tajo e si stava approssimando al Puente di San Martin, dal quale avrebbe potuto ammirare la splendida vista di Toledo con la familiare sagoma dell'Alcazar, dopo il consueto bagno di sole e i soliti 10 km di cammino. Il pensiero lo portava alla ricerca di solitudine e di protezione che in quel periodo della sua vita faceva continuamente capolino tra i suoi bisogni primari. La solitudine come forma di protezione: dopo averla a lungo rifuggita con paura, sopportata con frustrazione e subita con tristezza, ora addirittura la ricercava e la coltivava come una desiderata compagna di viaggio. Una dolce e silenziosa compagna. Fidata. Accogliente. Tollerante. Senza pretese. Che non faceva domande, che ascoltava senza giudicare e che non si adombrava o adirava se talvolta decideva di lasciarla per uscire con qualche amico o amica e che soprattutto al suo ritorno era felice di riaverlo e lo coccolava per la gioia. Che accettava tutti i doni che Ruben decideva di portarle, accettandoli con discreta gratitudine. Che accoglieva i suoi silenzi oppure sapeva aspettare pazientemente che si spegnessero le sue urla. Che si rallegrava per le sue gioie e nel contempo osservava i suoi timori in modo compassionevole. Insieme a quei pensieri Ruben si era fermato a metà del ponte ora, appoggiato sul parapetto, alternava lo sguardo tra il lento scorrere delle acque scure del Tejo, i tetti, le torri e le guglie in fronte a lui, tutte protese verso l'alto e il limpido azzurro del cielo senza nuvole ovunque sopra di sé. "Quanto mi conoscevi bene, compagna Solitudine e con quanta pazienza hai atteso che io finalmente mi accorgessi di te" si disse inconsapevolmente ad alta voce attirando l'attenzione e la sorpresa dei pochi passati sul Puente di San Martin, mentre gli parve di sentire nel suo corpo la gioa della Solitudine, ora che lui aveva iniziato a conoscerla ed apprezzarla. Ruben capiva che la sua nuova compagna non lo voleva possedere, ma solo accompagnare dolcemente e con cura. Si, si sentiva realmente felice per quell'improvvisa illuminazione. Era stato proprio un "bell'incontro", quel giorno, in terra di Castilla; ora sapeva di poter contare su di un potente alleato per affrontare le grandi sfide che di lì a qualche giorno lo avrebbero atteso a Madrid, sia in campo professionale che sentimentale. Mezz'ora dopo si trovò ad interrogarsi, sempre con l'assistenza della nuova compagna, seduto su di una panchina del giardino del Chiostro del Monasterio di San Juan de los Reyes, quanto l'illuminazione fosse figlia di quel luogo ove da ogni parte emergevano le tracce del tempo in cui cristiani, ebrei ed arabi erano anche riusciti a convivere pacificamente nei rari periodi in cui rinunziavano a volersi sopraffare reciprocamente. "In fondo non ha importanza saperlo. Cosi è." si disse infine fissando la palla infuocata sparire dietro le colline della Mancha dipingendo un cielo che pareva una ferita sanguinante, mentre il treno ad alta velocità lo stava riportando alla stazione di Atocha.     

giovedì 16 novembre 2017

ITALIA FUORI DAI MONDIALI? FORSE BASTAVA LEGGERE LE BIOGRAFIE

Per la prima volta da quando sono al mondo la nazionale italiana di calcio non parteciperà ai campionati mondiali, nonostante il blasone dei suoi 4 titoli mondiali,  di cui l'ultimo datato appena 2006. Le ragioni di questo "fiasco" storico sicuramente sono molte e probabilmente la contaminazione di più fattori insieme ha generato l'insuccesso clamoroso che, peraltro fa seguito alle due già fallimentari partecipazioni a Sudafrica 2010 e Brasile 2014. A caldo si è sentito di tutto e di più: un C.T. inadeguato che ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare, un campionato con troppe squadre e troppi giocatori stranieri che tolgono spazio a quelli italiani già dalle squadre giovanili, un sistema che non impiega le risorse economiche in modo efficiente e lungimirante, premiando solo poche squadre e i portafogli di una ristretta casta di tecnici, dirigenti, procuratori e giocatori,  un presidente federale inadeguato che anche lui ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare, giocatori strapagati e incapaci di rappresentare degnamente il nostro calcio. Personalmente sono rimasto colpito dalle parole di Gigi Buffon che, in lacrime, al fine del match con la Svezia ha parlato anche di fallimento sociale; non so bene cosa volesse dire il nostro capitano ma quell'espressione ha messo in moto un pensiero ed un ragionamento nella mia "zucca." Ho ripensato ai campioni del 1982, alla mia infanzia e alla mia adolescenza quando la nazionale di calcio rappresentava, sul campo e non per blasone, un orgoglio della nazione. Leggete con attenzione le biografie dei vari Bearzot, Gentile, Zoff, Tardelli, Paolo Rossi ecc. ecc.; scoprirete storie di riscatto sociale e vite che si sono sviluppate tra la miseria e la grande voglia di fare del secondo dopoguerra mondiale e della prima riscossa economica, carriere sportive non nate nelle scuole calcio ma nei cortili delle scuole, dei campetti di periferia, nelle piazze di cittadine di provincia dove nessuno ti insegnava a forza il fuorigioco o come si fa una diagonale. Tutti figli della vera forza di sempre della nostra tribolata Italia: la piccola borghesia e la classe operaia. I genitori dei vari Cabrini, Bruno Conti, Altobelli e compagnia cantante si preoccupavano che i propri figli frequentassero le scuole e conseguissero un diploma, non che diventassero delle star del pallone. "Prima aiutare me, poi se avanza tempo si studia, ultimo ci si diverte." Questo era il mantra genitoriale di quel periodo. 
Leggete ora le biografie degli attuali giocatori professionisti italiani. Incarnano alla perfezione il declino di una società, della sua forza vitale e nel complesso di un modello socio-culturale. Mamme manager. Padri tifosi. Campetti, cortili, piazze vuote o dove sono riempite lo sono con i figli degli immigrati. I nostri ragazzi vanno alle scuole calcio con la macchina di mamma e papà che diligentemente poi li vanno a riprendere e poi magari la domenica ad urlare all'allenatore del figlio di essere un incapace perché non fa giocare il proprio pargolo. Oppure ad insultare l'arbitro. E tutt'attorno il profumo (o il puzzo?) del Dio Euro.
Mi chiedo se siamo seri quando ci meravigliamo che il nostro movimento calcistico è finito nella mediocrità. O se "ci siamo" o "lo facciamo" quando diciamo che la colpa della mancata qualificazione a Russia 2018 sia tutta di Ventura che non ha fatto giocare Insigne. O quando pensiamo che sarà sufficiente chiamare qualche santone strapagato e già carico di gloria sulla panchina azzurra per risorgere dalle ceneri.  
Solo in un paese in cui contano più gli amici degli amici invece del merito o del diritto anche e solo per rinnovare un passaporto in tempi ragionevoli, si può pensare che non è giusto che una nazione con quattro titoli mondiali sia esclusa dalla rassegna iridata a prescindere.
Forse con il blasone si farà ancora strada in Italia (vero Juve?) ma fuori, se non lo meriti, vincere è molto complicato. Non solo nello sport.
Forse ho esagerato. Forse è l'emotività del momento. O forse no.

mercoledì 8 novembre 2017

LIBRI DI SCUOLA ANNI '30

Oggi, 10 giugno 1940 in Italia va di moda la camicia nera... E’ una moda che dura ormai da 18 anni, da quando il Re Vittorio Emanuele III, invece di firmare lo stato d'assedio della capitale e ordinare all'esercito di cacciare quel migliaio di esaltati venuti in camicia nera da tutta Italia, decise di nominare Capo del Governo il loro caporione, quel Signore che oggi ha appena finito di parlare da quel balcone lassù.
La camicia nera ha prima preso piede nelle campagne, nei paesi e soprattutto tra quei poveracci senza speranza sopravissuti alla grande guerra e poi addirittura nell'alta società e tra gli industriali, eliminando ogni altra alternativa... a parte il grigioverde.
Non importa esserne convinti sostenitori, basta non essere ebrei o andare in piazza a gridare  apertamente di essere contrari! E di sicuro non vestire di rosso… 
Così, facendo finta di niente, vestendo sempre di nero, non me la sono passata poi tanto male in questi ultimi anni e a forza di sentirmi dire dalla scuola materna all'Università, dalla fabbrica all'Ufficio e qualche volta persino la domenica mattina alla Messa: che siamo una grande Nazione, una razza superiore baciata da destini superiori, non dico di averci creduto, però ho scoperto, che in fondo era comodo far finta di crederci… No? No ci credete? Sentite un po’ cosa m’insegnavano in 3° elementare…

estrae dal baule un sussidiario dell’era fascista e vi legge

Problema di aritmetica (pag. 191):

“Un padre desiderava organizzare una bella gita con la famiglia; ma la spesa era troppo forte: lire 125. Rimandò allora la gita, sino a quando potè servirsi di un treno popolare, ottima istituzione del regime fascista, che permette a tutti di viaggiare per conoscere e godere delle bellezze della nostra Patria. Egli spese così soltanto lire 64 in tutto. Quanto risparmiò?  

Esercizio di grammatica (pag. 63):

“ Tempo presente. Coniugate, a voce o per iscritto (Io sono fiero di essere italiano. Tu… Egli… Voi… Voi… Essi…)
a)      Io ho una patria grande e potente
b)      Sono stanco e ho sete
c)      Io ammiro i valorosi soldati italiani
d)      Credo, ubbidisco e combatto
e)      Nel nome di Dio e dell’Italia, giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista.

Ripone il libro


.. e lasciamo stare storia, geografia e religione per piacere! Allora, mi credete adesso?

lunedì 6 novembre 2017

OUVERTURE PER UN TEMPO CHE NON PASSA MAI



Praga, 20 agosto 1968 - Le vacanze stanno per finire… domani mattina si torna in Italia! Non nascondo che già provo nostalgia per questi dieci giorni passati nella città di Kafka, nella capitale di Rodolfo II d’Asburgo ed oggi nella città della speranza di Alexander Dubček.: in fondo partire è sempre un po’ morire… anche quando lo si fa per tornare a casa e riabbracciare i propri cari e riprendere la propria routine… Questa volta però è diverso, il mio animo è in tumulto, avverte un’inquietudine particolare… che mi riporta indietro… ai tempi della scuola, quando il gracchiare della campanella annunciava la fine della ricreazione ed interrompeva bruscamente, senza preavviso, l’anarchia ed i lazzi e tutti mestamente si rientrava, in ordine, in classe ad attendere, in un’innaturale silenzio, il ritorno del maestro.  Non mi dà particolare sollievo neppure l’idea di poter raccontare a tutti gli altri amici le meraviglie viste e vissute in questi giorni… tanto non capirebbero, non potrebbero capire, figuriamoci… quando sei mesi fa dissi loro  che quest’anno sarei venuto a passare le vacanze estive a Praga, mi guardarono come si può guardare un pazzo… “D’accordo che vuoi sempre nuotare contro la corrente” … disse uno di loro… “ma questa volta cerchi proprio di annegare!”.
Già… tutti sognavano  la sensuale Parigi, le calde spiagge spagnole ed i più audaci addirittura si immaginavano “on the road”, in moto, sulle strade della California… ed io invece no… determinato a varcare la cortina, per spingermi nel mondo “sbagliato”… tra le braccia del nemico, rischiando magari di essere arrestato come spia imperialista solo per aver scattato qualche foto dalla collina di Hradčany.
In realtà, nulla mi affascinava più di questo viaggio oltre le “colonne d’Ercole” del nostro tempo… entrare in quella sorta di nebbia che avvolgeva, ai nostri occhi, tutte le terre ed i paesi posti ad oriente di quella linea, purtroppo fisica e non immaginaria, costituita dal filo spinato della cortina di ferro, che non solo tagliava in due l’Europa, ma segnava il confine di due mondi non comunicanti e contrapposti.
Dagli estemporanei visitatori provenienti dal nostro mondo, per lo più persone che viaggiavano per motivi di lavoro, avevo ascoltato le storie più stravaganti, che terminavano quasi sempre con  il racconto di improbabili congressi “amorosi” con compiacenti bellezze statuarie dai capelli biondi, gli zigomi alti, le bocche carnose, gli occhi celesti e le gambe lunghe e snelle, il cui unico neo era rappresentato dalla toeletta personale approssimativa e dall’abbigliamento scialbo.
Questo che il “viaggiatore” ritornasse da Kiev, come da Bucarest o Varsavia, come da Sofia o da Budapest o da Bratislava; luoghi e genti sparse su di un’area continentale con storie nazionali e lingue anche profondamente diverse sembravano essersi uniformate su di un unico schema che le appiattiva sulla stessa grigia esistenza; gran parte di quei popoli che per secoli avevano vissuto insieme, guidati delle regole del vecchio impero asburgico e che insieme avevano creato quella civiltà e quella cultura che ancor oggi chiamiamo “mitteleuropea”, sembravano essere stati inghiottiti dalla Storia, decretando ai nostri occhi  non solo la loro “morte”, ma anche quella di quella civiltà che si basava involontariamente sulla coesistenza e sull’interscambio di culture in origine non comuni. In merito, ho sempre pensato che, in realtà, se “loro” erano morti, “noi” eravamo diventati tutti orfani inconsolabili. 

Mentre ero assorto in quei pensieri così impegnativi e con malinconia osservavo, dalla terrazza della mia camera affacciata su Vàclavske Nàměsti, i tetti, le guglie ed i campanili a cipolla della città d’oro, triste all’idea che quella sarebbe stata l’ultima giornata in cui mi sarei perso in quel labirinto che ribolliva di misteri e di voglia di essere, qualcuno bussò alla porta ed il rumore sordo ed insistente dei battiti ruppe bruscamente quello stato di strana sospensione in cui ero caduto.

venerdì 3 novembre 2017

SENSI E CUORE O CUORE E SENSI?

Se è vero, come è vero, che i cinque sensi sono i mezzi organici grazie ai quali possiamo comprendere l’ambiente fisico esterno, è sufficiente uno studio di questi finalizzato a comprendere i meccanismi con cui operano per una migliore comprensione del mondo esteriore, oppure la conoscenza va integrata con approfondimento del mondo interiore, a cui i cinque sensi debbono, a parer mio, essere tributari e non certo dominanti?
Non è proprio grazie a questa integrazione che si impara a diffidare delle sensazioni e dei giudizi che possono risvegliare le diverse sollecitazioni esteriori e ci si occuperà ad esercitare il controllo delle reazioni a cui si potrebbe essere istintivamente portati? Così facendo difficilmente ci si farà irretire da non importa cosa capiti alla decifrazione dei nostri sensi, a differenza di coloro che, in mancanza di tale approccio, sono invece destinati a rimanere preda di instabilità e confusione interiore, dominati dagli accadimenti del mondo esterno.
Lo sforzo cognitivo teso alla comprensione che vista, udito, tatto, odorato e gusto sono solo le “antenne” che riportano al nostro Essere gli accadimenti del mondo esteriore ha come riflesso lo sviluppo armonico dell’Io; infatti, fin tanto che anche l’intelligenza venisse rivolta esclusivamente verso oggetti decifrabili dai sensi, la conoscenza che ne deriverebbe, anche la più elevata e razionale, non andrebbe al di là delle forme e in nessun modo sarebbe in grado di avvicinarsi alla conoscenza dei principi universali.
Per scoprire ciò che c’è ben al di là del sapere “distintivo”, si deve dunque, grazie alla conoscenza di ciò che sono i sensi, del loro esatto ruolo e dei loro meccanismi di decifrazione, “sbarrare la porta” al mondo esteriore per utilizzare invece la potenza dell’Io, che tutte le Tradizioni simbolicamente individuano nel “Cuore” quale sede dell’intelligenza universale.
Si tratta di un vera e propria “spoliazione" della materia che porta proprio al Cuore dell’Essere e permette perciò il lento, ma inesorabile germoglio di quel grano che potrà condurre, per tale via, ad una Conoscenza superiore. 
Questa Conoscenza, necessariamente intuitiva e “supra-razionale” non va certo confusa con l’Irrazionale, in quanto non deve contrapporsi ma essere concorrente alla “Ragione”, della quale invece ci si deve servire ogni volta in cui si trova a dover esprimere in qualche modo e nella misura in cui ciò sia possibile, quelli che sono i risultati della propria attività umana. 
I cinque sensi dunque altro non sono che il ponte tra il Caos del mondo esterno e il Mondo interiore di cui servirsi allo scopo di creare l’Armonia tra il proprio Microcosmo e il Macrocosmo, attraverso la continua opera di decifrazione dei messaggi che viaggiano nelle due direzioni e, nel contempo, senza dimenticare mai chi è Sovrano e chi Vassallo.

martedì 31 ottobre 2017

IMPREVISTI E PROBABILITA'

Nel settembre del 1989 mi accingevo a preparare la mia tesi di laurea in Tecnica del commercio interno ed internazionale presso la Facoltà di Scienze Economiche e Bancarie dell’Università degli Studi di Udine ed il mio relatore mi propose di occuparmi di un argomento che, a suo dire, se ben sviluppato mi avrebbe consentito di ottenere una votazione finale di assoluto valore.
In buona sostanza dovevo progettare, dopo uno studio preliminare dell’interscambio commerciale tra l’Italia e la Repubblica Federale Socialista Jugoslava e dei settori maggiormente vocati all'esportazione dei due paesi con il resto del mondo, la realizzazione di una joint venture tra un’azienda artigiana calzaturiera di Gonars (UD) ed una industriale di medie dimensioni jugoslava (allora) situata a Tržič, a nord, di Lubiana.
In parole semplici gli italiani mettevano a disposizione il design e le idee, gli jugoslavi la manodopera presso i loro stabilimenti con lo scopo di aggredire il mercato comunitario, ed in particolare il nord Europa con prodotti dallo stile italiano,  ma a costi decisamente più competitivi.
“Vedrà, il suo sarà un lavoro in grado di anticipare i tempi che le schiuderà interessanti prospettive di lavoro per il suo futuro” disse il Professore, per vincere la mia titubanza verso un lavoro che si mi appassionava, ma che temevo essere troppo in anticipo sui tempi. Accettai e di buona lena incominciai la raccolta dei dati, visitai le aziende, stesi il primo studio di fattibilità addirittura il professore mi spingeva ad iscrivermi ad un corso di sloveno.
Nel giugno del 1991, quando il mio lavoro stava faticosamente arrivando al traguardo, come tutti oggi ben sapete fu la Repubblica Federale Socialista Jugoslava ad arrivare al capolinea.
Le armi incominciarono di nuovo a fare sentire la loro voce dalla fine della seconda guerra mondiale ed io dovetti prendere tutti fogli della mia tesi e  buttarli nel cestino: la caduta del muro di Berlino aveva messo in moto un’accelerazione nella Storia, tale da far si che la mia “avveniristica” tesi nascesse in realtà già morta.
Nell'autunno del 1991, sconsolato dall'andamento dei miei studi, mi recai dal mio relatore per cambiare l’argomento della tesi: lui mi propose lo stesso copione, spostando però questa volta l’oggetto dell’analisi alla Cecoslovacchia; un “sesto senso” mi disse che forse era il caso di venire a più miti consigli, abbandonare la ricerca del “nuovo” e così decisi di chiedere al professore una tesi che si occupasse del marketing nelle banche italiane; l’imperativo era diventato laurearsi al più presto e quell'argomento mi sembrava più rassicurante: era ragionevole attendersi che le banche non sarebbero state inghiottite dai riflussi della storia da un momento all’altro, almeno nel 1993.
Il relatore non ne fu entusiasta, ma di fronte al mio fermo diniego, alla fine mi assegnò l’argomento richiesto; potete immaginare come mi sia sentito il 1 gennaio del 1993, a pochi mesi dalla discussione della mia tesi di laurea sul mercato bancario italiano, quando la Cecoslovacchia si dissolse anch’essa, dando vita alla Repubblica Ceca ed alla Slovacchia.
Terminati gli studi, fui assalito da un desiderio che è divenuto nel seguito della mia vita un imperativo: capire perché la scelta di quella tesi mi aveva fatto “perdere” 2 anni di studio e ritardato così il mio ingresso nel mondo del lavoro.
Iniziai così ad occuparmi della storia del novecento dell’Europa Centro-Orientale e da questi studi è nata l’idea di pubblicare il libro "LA TERRAZZA DI PRAGA", che racchiude, attraverso la narrazione di vicende “immaginarie” di personaggi “immaginari”, la drammatica odissea vissuta dalle genti di quest’area dalla fine del dominio asburgico al crollo del muro di Berlino sino ai giorni nostri.
Un lavoro dedicato ai miei coetanei, quelli che come me sono nati durante la metà degli anni sessanta del ‘900 in Friuli - Venezia Giulia , che hanno avuto maestri elementari formati nella scuola del regime fascista ed hanno concluso gli studi universitari condotti per mano da professori formati durante il ’68.
Ragazzi cresciuti convinti di vivere in un mondo immobile, in paesi dove per 500 abitanti ce n’erano almeno altrettanti chiusi nelle caserme, in cui i buoni stavano di qua ed i cattivi di là di un confine vissuto come eterno.
Ragazzi che hanno visto cadere il muro di Berlino improvvisamente addosso a loro e rimanere disorientati innanzi all’accelerazione della storia, che oggi consente loro di andare senza passaporto da Lisbona a Riga quando per lunghi anni era un’avventura da film di spionaggio andare a fare il pieno di benzina a pochi chilometri da casa propria.
Ragazzi divenuti uomini senza che nessuno avesse voluto spiegare loro, sinceramente, da dove arrivavano e che per questo, oggi, hanno molta paura nel cercare di comprendere dove stanno andando.

Trieste, aprile 2008

lunedì 30 ottobre 2017

NOVECENTO FRIULANO

Domenico, nato nel 1908 a Fagagna, Borgo Paludo, primogenito di 2 fratelli (Achille e Giovanni) e una sorella (Maria) nati in successione, di professione sarto è stato per tutti Sior Meni. Figlio d’arte, in quanto suo padre Luigi, nato occasionalmente nell’imperialregia Gorizia del 1879 da una famiglia poverissima residente a Stregna e trasferitosi dopo il servizio militare a Fagagna in Borgo Paludo per sfuggire al lavoro precario nei campi, aveva iniziato il mestiere di sarto cucendo e rammendando abiti talari oltre che fare il sacrestano nella locale chiesa parrocchiale. Sior Meni ne aveva raccolto l’eredità non solo nel mestiere ma anche nella devozione assoluta alla religione cattolica, superando sicuramente quella del padre e giungendo a rasentare il bigottismo per l’esasperazione nel rispetto che s’imponeva e imponeva di ogni regola formale a valenza esteriore. Non conosceva il gioco e i sorrisi erano rari, mai pubblici e comunque sempre misurati; l’essere rimasto orfano di madre a 4 anni, con il padre richiamato al servizio militare durante la prima guerra mondiale si era venuto a trovare a fare le veci del capo-famiglia a 6 anni con i due fratelli minori a carico, coadiuvato da una vecchia zia zitella timorata di Dio e che si addormentava con il cilicio. A 8 anni avevo visto occupare e razziare Fagagna dall’affamatissimo esercito austro-ungarico a seguito della rotta di Caporetto e la miseria più nera regnava sovrana nella sua casa.
Dopo il servizio militare come Alpino del Battaglione Cividale, Sior Meni, si era sposato e aveva avuto il suo primo figlio, nel 1935 a 27 anni, un’età piuttosto avanzata per quel periodo e 5 anni dopo, nel 1941 fu richiamato alle armi destinato alla campagna di Russia.
Una caduta accidentale sulla piazza d’armi ghiacciata della caserma di Tarvisio gli causò una frattura alla gamba che all’Ospedale Militare non gli sistemarono molto bene, visto che i risultati delle cure lasciarono un uso non perfetto dell’arto per tutta la vita e quindi l’immediato congedo; circostanza che molto probabilmente gli permise comunque di vivere fino al 2001, avendo evitato così di salire sulle tradotte che portarono i suoi commilitoni nelle fatali pianure dell’Ucraina e della Russia meridionale.
Monarchico e anticomunista militante, dopo la guerra fervente sostenitore dello scudo crociato, aveva in profondo spregio tutto ciò che era riconducibile alla guerra partigiana condotta con il fazzoletto rosso al collo e fino in punto di morte non cessò mai di maledire le “gesta” dei partigiani che con i loro “attentati” provocavano la violenta reazione dei tedeschi sulla popolazione civile.
Sicuramente il possesso della tessera del partito fascista, sottoscritta in passato per aver diritto ad iscriversi nella corporazione di mestiere, non lo aveva fatto dormire sonni tranquilli quando alla fine della guerra bastava essere additati come fascisti dai più facinorosi tra i partigiani per rischiare di passare, come minimo, un brutto quarto d’ora.
In realtà  ciò che Sior Meni non poteva digerire dei partigiani era quel loro essere fuori dalle regole dell’Ordine costituito, quale questo fosse, e di muoversi rispondendo a principi non codificati e soprattutto, nel caso di quelli comunisti, di essere contro la Chiesa, intesa come Istituzione naturalmente; mal digeriva, anche se apertamente non lo diceva, anche la democrazia, perché secondo lui le cose potevano funzionare solo se le persone ubbidivano agli ordini di capi illuminati senza pensare troppo e la possibilità che la democrazia dà di contestare i superiori, a suo dire, era solo foriera di disordine e inefficienza.
Si comportò sempre in famiglia, fino in punto di morte, come se lui fosse il sovrano regnante a cui tutti dovevano il massimo rispetto e l’obbedienza assoluta, ipercritico con tutto e tutti, grandi e piccini dovevano stare in silenzio mentre lui parlava, senza naturalmente mai poterlo contraddire. Con sua moglie, poco incline al silenzio, invece erano sempre litigi furibondi, fino poi a piangerla senza sosta e venerarla come una Santa una volta prematuramente morta nel 1975 a 64 anni. Non era faticoso ricordare qualche gesto d’affetto o qualche parola gentile rivolata ai nipoti o alla nuora. Non ve ne furono mai. Qualcosa di più con la sua prima nipote bis nata nel 1998, quando lui ormai aveva 88 anni. All’esterno del suo Regno di Borgo Paludo fu invece sempre considerato e ancora ricordato da tutti come una persona “a modo”, gentile, educata, un buon cristiano e un responsabile padre di famiglia. E dalla grande cura per la propria persona: mai un abito fuori posto, sempre impeccabile. La versione italica di un perfetto lord inglese. Sempre in bolletta, ma un nelle forme un vero Signore. Sior Meni, appunto.

venerdì 27 ottobre 2017

SE IL BUONGIORNO SI VEDE DAL MATTINO...

Se è vero, come è vero, che il “buongiorno” si vede dal mattino, Ruben aveva ricevuto un bel messaggio, forte e chiaro, di quello che sarebbe poi stato il filo conduttore di tutta la sua esistenza: ovvero vivere pericolosamente senza essere o voler essere Indiana Jones. Il pittore spagnolo evidentemente stava troppo bene e al sicuro nell’utero, immerso nel liquido amniotico, nutrito senza fatica, con tutti i bisogni soddisfatti e quindi dell’idea di affrontare lo shock del parto non ne voleva assolutamente sapere, pur essendogli noto che a quello era inevitabilmente destinato; e così aspetta oggi, aspetta domani, di botto arriva il forcipe che lo estrasse dal paradiso per gettarlo bruscamente nella fossa dei leoni. 
- A prezzo di che rischio? - pensò di colpo Ruben, tra il divertito e il preoccupato, mentre di tanto in tanto sbirciava con occhio curioso la giovane cameriera che sorridente gli aveva servito quel cafè con leche e che ora, davanti a sé, sembrava fissarlo come un amante da troppo tempo trascurata. Niente da fare, agli "occhi languidi" della tazzina Ruben preferì lo schermo del suo smartphone, dove dopo una serie di rapiti tocchi, aveva lanciato su Google una ricerca: FORCIPE; miglior risultato: “In molti casi il suo utilizzo provoca casi di cerebro lesione nei neonati, bloccando l'afflusso di sangue al cervello con conseguenze devastanti. In altri casi si sono verificate lesioni alla colonna vertebrale con conseguenti paralisi degli arti oppure traumi alla calotta cranica senza interessamento degli organi interni, con deturpazioni più o meno gravi” Può anche recidere un nervo facciale causando lievi paralisi del volto, come è successo a Sylvester Stallone. In Giappone l’impiego del forcipe è stato proibito già dal 1930 con pene detentive per chiunque lo usi clandestinamente; oggi in Europa l'uso del forcipe non è proibito ma visto l'alto tasso di complicazioni ed effetti collaterali il suo utilizzo non è più materia d'insegnamento delle scuole di ostetricia." 
Sbalordito, cercò di rassicurarsi: il conseguimento del diploma accademico in Storia dell'Arte presso il severo e prestigioso istituto universitario Real Colegio de Historia del Arte di Granada glie sembrava una circostanza idonea per attestare che il rischio delle cerebro lesioni fosse stato superato, così come, a parte un principio di scogliosi superato in età adulta, la colonna vertebrale in fondo non fosse stata danneggiata in modo serio e si riteneva addirittura più fortunato del futuro Rambo, in quanto i nervi facciali erano ancora normodotati e la calotta cranica aveva ripreso una forma, come dire, standard. - Ho solo fatto passare un orrendo “quarto d’ora” ad una mamma al suo primo sospirato parto, messo alla prova l’abilità del chirurgo e dell’ostetrica, che Dio li abbia accolti a sé tra schiere di Angeli, Santi e Madonne, spaventato a morte mio padre e disgustato vita natural durante il mio nonno paterno." Così sembrò dissolversi quell'inatteso pensiero mattutino, giunto dal nulla osservando i colori dell'alba dai tavolini del Cafè del Mar in Praza Ourense; invece il sollieo durò poco. - Probabilmente mi sono giocato troppo presto il credito con la buona sorte che spetta ad ognuno di noi una volta sola nell’arco di tutta la vita - Concluse alla fine rassegnato, svuotando il contenuto della tazzina e deglutendo rapidamente il caffè per poi di seguito aspirare con quanta forza aveva il tabacco del sigaro che normalmente gli faceva compagnia e espirare con altrettanta decisione, scomparendo quasi del tutto in una nuvola di fumo. 





giovedì 26 ottobre 2017

MALEDIZIONE A TE, ANDY WARHOL

L’incontro avviene nel pomeriggio.. l’atmosfera è grigia… Praza Ourense è semi-deserta, avvolta dalla nebbia che puntuale è giunta dall'Atlantico… dopo pochi minuti, nell’unico locale aperto affacciato su Rua Peregrina, i due restano soli.
Ruben spiega a Carmen perchè la "Casa de Locos" di Goya conservata a Madrid nella Real Academia de Bellas Artes de San Fernando lo abbia affascinato sin dalla tenera età .. Carmen replica citando Edgar Allan Poe - Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell’intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell’intelletto in generale - Ruben è rapito dalle parole di Carmen e a fatica continua a spiegare le ragioni della sua ammirazione per tutti i dipinti di Goya e perchè proprio per quello in particolare - Domandarsi perché c'è chi diventa matto? Forse è più sensato chiedersi perché qualcuno non lo diventa mai. Se pensi a tutto quello che possiamo perdere in un solo istante, probabilmente è meglio chiedersi come si fa a rimanere sani di mente! - Carmen non riesce a staccare gli occhi da Ruben… Ruben è come paralizzato.. il respiro è sempre più difficile… ad un certo punto Ruben posa i suoi occhi su quelli di Carmen… Carmen non li sposta da quelli di Ruben… non c’è nessuno nel locale in quel momento, neppure il barista… ma anche ci fosse, sarebbe scomparso.. intorno ai due si crea il vuoto cosmico… è un momento di inquietudine massima… l’aria è carica di elettricità… i due volti si avvicinano lentamente… Ruben comprende che tra qualche secondo poserà dolcemente le sue labbra su quelle di Carmen… ma mentre lo sta ancora fantasticando quelle di Carmen si sono già posate sulle sue… è come se fosse esplosa una supernova nella testa di Ruben.. che immagina di sentire quelle labbra dolcemente sulle sue a lungo… invece mentre Ruben lo pensa.. Carmen lo sta già baciando con una passione che non aveva mai sentito prima in tutta la sua vita… e quell’inquietudine che aveva accompagnato Ruben per tutta la sua esistenza era scomparsa come per magia. Si ricordò di una lettura giovanile che lo aveva affascinato almeno quanto le pennellate di Goya: "Mi piace essere la cosa giusta nel posto sbagliato e la cosa sbagliata nel posto giusto, perché accade sempre qualcosa di interessante". Non ricordava più la fonte, ma aveva ben in mente l'autore: Andy Warhol "Eh no, caro Andy, cose interessanti capitano soprattutto quando si è la persona giusta al posto giusto." pensò Ruben risalendo qualche ora dopo Rua do Baron verso le Rias con orgoglio e in compagnia del suo sigaro. Solo molti anni più tardi, più vecchio e senza traccia di orgoglio, ancora più solo scrutando l'orizzonte dalla baia di Sanxenxo e vedendo salire dalle nebbie dell'Oceano il film di quel pomeriggio di novembre al "Cafè de Mar", concluse: "Maledizione a te, Andy Warhol! Non sai quanto mi disturba ammettere che avevi ragione."

mercoledì 25 ottobre 2017

PRIMA GUERRA MONDIALE (O GUERRA CIVILE EUROPEA?)

Si presenti...

Mi chiamo Miroslav Berger... ma potrei essere anche Herbert Neumann, Franjo Oblak, Mustafà Handanovic, Sandor Sallai o Furio Grion... sono nato a Praga, in Boemia, il 12 maggio 1895,  ma poco cambierebbe se fossi nato in quell'anno a Graz, a Zagabria, a Sarajevo, a Budapest o a Pola.
Sono boemo, ma il cognome già dice che i miei avi erano tedeschi... più precisamente ebrei di lingua tedesca...

Si potrebbe dire dunque che lei condivide le origini di Franz Kafka...

Certo, ma anche di molti altri! A differenza di Kafka però, io non sono né un poeta e né sono in grado di  scrivere in tedesco... di mestiere facevo il garzone in un birrificio nel quartiere di Smichov!...Eppoi sono morto nel maggio del 1915 lontano dalla mia Praga: più precisamente nei pressi di una località che si chiama Cervignano, dove una granata del Regio Esercito italiano mi fece a pezzi...

E' morto a vent'anni.. si sentirà particolarmente sfortunato!

Lei dice? Certo mi ha dato molto fastidio lasciare quella valle di lacrime così presto... ma non mi sento particolarmente sfortunato, visto che ho diviso la stessa sorte di qualche milione di miei coetanei tra il 1914 ed il 1918... ad Herbert in Galizia, a Franjo sul Carso, a Mustafà a Caporetto, a Sandor sul Grappa e a Furio sul Piave non è andata meglio!

Cambio la domanda allora..  vi sentirete una generazione alquanto sfortunata..

Non molto più sfortunata di quella di mio nonno... che morì a Custoza nel 1866 colpito da un colpo di cannone piemontese... per non parlare dei nonni di Herbert e Sandor, che morirono a Sadowa, uccisi nello stesso anno dai proiettili dei prussiani... Adesso però vorrei farle io una domanda, se me lo consente: com'è andata alla generazione di suo nonno?

La generazione di mio nonno? Si è persa nell'inverno del 1942 nelle pianure della Russia meridionale...

Vede? Anche lei non mi dà motivo per far sentire la mia generazione particolarmente sfortunata... purtroppo!

Purtroppo?

Si, purtroppo. Perchè se la mia generazione si dovesse sentire particolarmente sfortunata, vorrebbe dire che molte altre generazioni del passato e del futuro hanno avuto sorte migliore. Lei mi conferma che così proprio non è stato.
La mia vita terrena è stata sicuramente breve, ma le garantisco, particolarmente intensa e vissuta in una città meravigliosa: in questo mi sento maledettamente fortunato. Vuole forse confrontare un'adolescenza vissuta assieme ai propri coetanei tra i vicoli della Città d'Oro, con quella di Mustafà in un disperso villaggio sulle inospitali montagne interne della Bosnia? Oppure è convinto che corteggiare una cameriera nella birreria U Fleku a Praga sia eccitante come in una bettola ai confini del Regno di Serbia? Lei crede che avere 18 anni nella città degli alchimisti sia proprio lo stesso che compierli nella Puzsta ungherese? Mi creda, ho di che sentirmi fortunato!

Ne prendo atto. Ma le domande le faccio io! Sento in lei scorrere forte il sangue del nazionalismo.. una brutta bestia, non trova? Soprattutto per chi doveva vivere in uno stato multietnico, come allora era l'Impero Asburgico...

Si vede che lei parla e pensa proprio come tutti i suoi contemporanei, che valutano le cose della storia con le lenti del proprio tempo... appartenere ad uno stato multietnico non significa rinunciare alla propria identità e a manifestare con orgoglio la ricchezza della propria terra! Semmai significa metterla in gioco assieme a tutte le altre, in un'armonica fusione: solo così l'intero sarà maggiore della somma delle singole parti.
Certo, l'amore per la propria terra e per la propria cultura e le proprie tradizioni non devono trasformarsi nella negazione o nella sopraffazione dei valori altrui.

Quindi lei vorrebbe negare che la prima guerra mondiale fu causata anche dal nazionalismo, dominante in tutte le nazioni europee alla vigilia dell'attentato di Sarajevo?

Lei continua a parlare come un libro stampato e a mettermi in bocca parole che non ho neanche pensato! Io non ho detto questo... io ho detto solo che essere orgogliosi della propria identità nazionale non significa essere nazionalisti! E che solo l'orgoglio dell'appartenenza tra le varie etnie può permettere ad uno stato multietnico di continuare a vivere ed anzi trovare in questo la sua ragione di esistere: la pacifica e proficua convivenza tra esseri umani necessariamente diversi.
Nella mia epoca l'orgoglio per la propria identità nazionale era degenerato in qualcosa di chiaramente pericoloso e che voi avete definito “nazionalismo”: la negazione dell'altro per la supremazia del nostro... in tutta Europa, e dico tutta, la mia generazione è stata mandata al fronte tra ali di folla esultante,  tra Parroci, Pastori o Pope benedicenti, tra madri e fidanzate che lanciavano fiori!

E tutti convinti di essere dalla parte giusta: a Vienna come a Berlino, ma anche a Parigi come a Londra e a Mosca come a Belgrado.. Giusto?

Si questo è corretto. Questo è potuto accadere perchè le etnie si sono chiuse in se stesse, hanno cessato di dialogare e le “elités” intellettuali ed i governi hanno ceduto progressivamente alle lusinghe  dell'irrazionale, al mito della supremazia, chi della propria razza, chi della propria storia e chi della propria economia. Ma un errore ancora più grande è stato fatto alla fine di quella carneficina.. ed è stato un errore molto grave, tale da porre le basi per una catastrofe ancora più grande... dove ha perso la vita anche la generazione di suo nonno... giusto?

Si riferisce alla seconda guerra mondiale? Lei mi sembra conoscere fin troppo bene la storia europea per essere stato il garzone di un birrificio di Smichov!

Potrei essere stato anche un pastore bosniaco o un pescatore dalmata se per questo... ho avuto molto tempo per osservarvi bene da quassù!! Siete cambiati si.. ma solo nel senso che fate errori sempre diversi! E scambiate spesso le cause con gli effetti... come nel 1918, quando avete smembrato gli stati multietnici, ritenendoli colpevoli di soffocare le identità nazionali e di aver causato la guerra.
La causa non erano gli stati multietnici, in quanto tali, ma il diffondersi nelle elitès politiche, economiche e culturali  di tutti gli stati di allora, di quel clima “filosofico” di cui dicevo prima e che voi oggi chiamate come “nazionalismo”. Aver diviso l'Europa, alla fine della guerra, in tanti piccoli stati nazionali, “ritagliati” grossolanamente e tutti caratterizzati da una difficile convivenza tra un'etnia dominante e minoranze assai numerose, è stato semplicemente un suicidio.

Certo, abbiamo continuato a fare molti errori, anche dopo la fine della seconda guerra mondiale, se per questo. Ma non può negare che oggi, grazie all'Unione Europea, abbiamo posto le basi per una convivenza pacifica duratura tra quasi tutti i popoli dell'Europa... forse qualcosa abbiamo imparato dallo scorso secolo.. non Le pare?

Non voglio sembrarle pessimista se Le dico che è presto per dirlo... sa com'è, da quassù ne ho viste talmente tante.. e in così poco tempo! Però posso dirvi che Vi siete incamminati sulla strada giusta... questo si... ovvero sulla costruzione di un grande Stato multietnico, a patto però di averne compreso a fondo la missione, che è quella di dar vita ad un'Unione dove le singole culture vengano esaltate e lasciate libere di confrontarsi attivamente e di mescolarsi senza paura.

Concludiamo l'intervista con la sua “benedizione” allora: siamo sulla strada giusta?

Si, l'ho appena detto... però avete incominciato a fare già qualche passo sbagliato in questo cammino. Il primo lo hanno fatto, al solito, le vostre “elitès”; uno Stato multietnico non può fondare la sua ragione di essere solo sull'economia, sulla moneta o sulla burocrazia comune. Ancora una volta gli uomini che avete scelto come guide dimostrano di aver scambiato il fine con i mezzi.
Ma c'è un pericolo ancora più grande che serpeggia tra di voi, nell'Europa di oggi: credere che una società aperta e multietnica vada costruita rinunciando alle proprie singole identità, nell'accettazione passiva dell'altro in nome di una presunta tolleranza e di una fraterna integrazione.

La “lezione” è finita?

Per oggi si... e pensare che io volevo solo raccontarle com'era la buona la birra del mio birrificio di Smichov e di com'era bella la vita tra le braccia di una cameriera praghese, il giorno prima di partire per il fronte, nel maggio 1915!!! La pensavano e la pensano così anche Herbert, Franjo, Mustafà, Sandor e Furio e sicuramente anche Paolo, Charles, John e Ivan... Ogni tanto, quando siete afflitti dai vostri travagli quotidiani, rivolgete solo per un attimo lo sguardo al cielo e ricordatevi di noi... e dei nostri vent'anni.

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