mercoledì 29 novembre 2017

NONNA

Mia nonna Elena era nata nel 1912, aveva anch'essa umilissime origini e della sua famiglia di provenienza, i Dominissini della frazione di Grupignano, ancor oggi conosco più nulla che poco; unico flashback suo fratello Marco morto per un tumore quando io frequentavo l’asilo, venditore ambulante di formaggi che il sabato mattina stazionava con il suo banchetto nella piazza del Duomo e al quale io e la nonna facevamo sempre visita … mi ricordo un uomo alto, dal viso magro e la carnagione giallastra però sempre sorridente e che mi allungava delle porzioni di un formaggio per cui all’epoca andavo matto: il gorgonzola! In seguito, solo l’odore di quel formaggio, iniziò a provocarmi la nausea e, se qualcuno mi vuole veramente del male e me lo propina di nascosto, potrebbe riuscire nell'impresa di farmi vomitare anche l’anima! Misteri della vita… Aveva l’aspetto di una vecchia matrona romana ed era la mia nonna preferita;  io ero il suo pupillo prediletto, il primo desiderato e sospirato nipote maschio, che neppure l’arrivo di mio fratello nel 1970 riuscì a scalfire quel rapporto privilegiato! Era il mio rifugio quando i genitori si arrabbiavano per le mie marachelle, mi riempiva sempre di sorrisi e carezze e quando mi portava con sé io ero sempre felice, non c’era volta che non mi regalasse qualche cosa: dalla caramella alla scatola di soldatini e che non mi presentasse con orgoglio alle sue amiche che incontravamo. Poi d’improvviso, quando avevo da poco iniziato a frequentare  la scuola elementare, il suo sorriso perse la gioia e il suo sguardo divenne sempre più spesso velato dalla tristezza; io non capivo il perché di quel cambiamento repentino, così come m’interrogavo sul perché prendesse spesso la bicicletta per uscire senza di me e ritornasse a casa qualche ora più tardi silenziosa e sofferente. Iniziai a chiedere ai miei genitori cosa avesse la nonna e ottenni sempre risposte evasive, che non facevano cambiare il mio pensiero: era il nonno che la faceva stare male! Ad un certo punto andò in Ospedale e quando vi fece ritorno per il Natale del 1975,  non si spostava più dal letto, non parlava più e la sua magrezza faceva una forte impressione ricordando la donna robusta che era stata prima. Dopo capodanno ritornò in Ospedale senza più fare ritorno a casa, morì a 64 anni nel mese di febbraio del 1976; l’ultima volta che la vidi fu qualche settimana prima, quando all’insaputa di tutti, stufo di troppe risposte evasive alle domande “Come sta la nonna? Quando torna la nonna?” presi la bicicletta e da casa andai a cercarla, trovandola,  nella sua camera dell’Ospedale di Cividale con mia mamma che l’assisteva al capezzale. Era quasi irriconoscibile nella sua magrezza ma credo che lo shock più grande lo provò lei nel vedermi … mi fissò con grande sorpresa, si lasciò andare ad un sorriso prima di  farfugliare agitata  un “oh Dio Dio …”  e prima che mia madre si alzasse dal letto e mi accompagnasse in corridoio, rimproverandomi per quella visita non autorizzata. Molti anni più tardi compresi che il male che se l’era portata via troppo presto era lo stesso che aveva rapito suo fratello e che portò via a 53 anni anche il suo secondo figlio e che nel seguito di questa storia avrei avuto molte altre volte modo di incrociare nei destini di persone che ho conosciuto: il cancro.
Purtroppo se ne andò troppo presto e la sua scomparsa segnò la fine del mondo felice e spensierato in cui avevo vissuto, fu come se nella famiglia si fosse spenta la Luce e iniziarono anni cupi, in cui il sorriso e la dolcezza sparirono da casa e calò una cappa plumbea di tristezza, di silenzi e di  incomunicabilità.
Per me era e resterà sempre una donna straordinaria, di indole allegra e sempre in grado di ravvivare la compagnia  e il fatto di essere riuscita a sopportare il nonno, le vale sicuramente, come dire, “l’Oscar alla carriera”.  

martedì 28 novembre 2017

PROBLEMI DI FORMAZIONE

Ruben era seduto sulla panchina arrugginita di quel campetto abbandonato alla periferia di Ponferrada; i nuvoloni che arrivavano ogni giorno dall'Atlantico gli parevano come gli stormi delle fortezze volanti alleate che vedeva arrivare dalla Manica quando era ragazzino, in Normandia e quel pomeriggio, riusciti a superare il massiccio del Cebreiro, avevano superato la Galizia e ora minacciavano di far cedere il loro carico di "bombe d'acqua" sull'arso territorio della Castilla.
Quell'immagine lo portò a considerare quale profondo periodo di cambiamento stesse attraversando. "Che stronzata cercare le cause - pensò - il cambiamento è la costante, il nostro inseparabile compagno di viaggio, non un visitatore improvviso." Che senso aveva allora puntualizzare l'ovvio, in una vita come la sua che sembrava più una corsa sulle montagne russe che il viaggio sull'Orient Express? Forse era meglio osservare il presente. Disincanto e cinismo. Ecco quali erano i titolari inamovibili della formazione che lui "stava mandando in campo" durante quell'inizio di autunno. Nessun desiderio di "gioco all'olandese", di trame spettacolari, di colpi da campione. Ostruzionismo, melina, nessuna voglia di verticalizzare. Tenere lo 0-0, buttare i palloni in tribuna. Nessuna spinta reale per migliorare "la classifica". Anzi. Questa si che era la novità assoluta per i suoi "colori sociali" e per la storia del suo "club". Niente più sogni di scudetto. Si trattava di rassegnazione o di rinuncia? Aveva poca voglia persino di cercare la risposta. Questo era il ritratto del suo momento, nel quale cercava di osservarsi quasi fosse uno spettatore disinteressato. Erano caduti, o meglio, si erano dissolti tanti punti di riferimento che in passato avevano orientato il suo cammino; si accorse che non era in grado neppure di capire dove e a che punto fosse e dove stesse andando. Peggio. Non sapeva neppure dove voleva andare in concreto. Melina. Ostruzionismo. Gioco per lo 0-0, senza neanche guardare la classifica. Neanche più difesa e contropiede, solo trappola del fuorigioco.
Guardò i nuvoloni e senti le prime gocce di pioggia, grosse come calabroni, cadere sul tetto malmesso della panchina arrugginita su cui era seduto. Guardò il campo di gioco. Estrasse dalla tasca un foglio e scrisse la formazione da mandare in campo. Si trattava di un 4-4-2.

1 - Memoria,

2 - Lentezza,
3 - Sonno,
4 - Tosse,
5 - Rifiuto,

6 - Stasi;
7 - Passività,
8 - Rinuncia,
9 - Ombra

10 - Disincanto
11 - Disillusione.

Allenatore: Ruben
In panchina, a disposizione: il Vuoto.
      

venerdì 24 novembre 2017

AMICIZIA

Ruben aprì con grande curiosità quella lettera, stupito del fatto che in quell'epoca di vorticosa comunicazione digitale in tempo reale, qualcuno avesse deciso di utilizzare quel mezzo che profumava di un antico passato sepolto per sempre. Iniziò a leggere: 
"Cari Ruben e Carmen … come voi ben sapete “scrivere” è la cosa che probabilmente meglio so fare, tra le molte (forse troppe) in cui mi sono cimentato nella mia vita “movimentata”; così per questo Natale ho deciso di accompagnare questi piccoli doni con alcuni pensieri che desidero dedicarvi per iscritto. Senza scomodare il classico verba volant scripta manent, vorrei che rimanesse fisso per il tempo a venire il GRAZIE che dal profondo del cuore si leva verso di voi: nel momento di maggiore difficoltà che ho dovuto affrontare in questi lunghi e per certi versi penosi anni siete stati la mia famiglia e se oggi, pur ancora claudicante, sono rimasto in piedi e con la possibilità di costruire forse qualcosa di buono, la vostra amicizia e il vostro concreto supporto sono stati fondamentali.
Siete stati vicini in tutti i momenti felici e ancor più lo avete fatto in attimi in cui ho davvero temuto di essere spazzato via, di perdermi del tutto, ho sempre sentito il vostro supporto, il vostro calore incondizionato e la vostra fiducia.
Quando piove la merda sono molti quelli che scappano, pochi quelli che restano al loro posto” dice Al Pacino in “Scent of a Woman” e voi, nel fuggi fuggi generale, non avete mai lesinato nel darmi riparo.
Siete per me come fratelli e probabilmente di più: un fratello è mosso dal vincolo di sangue, un vero amico, essendo disinteressato, invece è mosso solo dal sentimento di simpatia, nel senso greco del termine: condivisione del pathos.

GRAZIE.

Con la speranza di poter anche in futuro onorarmi della vostra fraterna amicizia e l’impegno di ricambiare con la condivisione di momenti più felici per tutti… Carlos."
Solo ora Ruben si accorse che due lacrime solcavano in profondità le sue guance e che quindi era ancora in grado di piangere: quello fu il più bel regalo di Natale.

giovedì 23 novembre 2017

UN BELL'INCONTRO

Un sincero sorriso illuminava il volto di Ruben mentre con passo svelto e sicuro camminava lungo il Tajo e si stava approssimando al Puente di San Martin, dal quale avrebbe potuto ammirare la splendida vista di Toledo con la familiare sagoma dell'Alcazar, dopo il consueto bagno di sole e i soliti 10 km di cammino. Il pensiero lo portava alla ricerca di solitudine e di protezione che in quel periodo della sua vita faceva continuamente capolino tra i suoi bisogni primari. La solitudine come forma di protezione: dopo averla a lungo rifuggita con paura, sopportata con frustrazione e subita con tristezza, ora addirittura la ricercava e la coltivava come una desiderata compagna di viaggio. Una dolce e silenziosa compagna. Fidata. Accogliente. Tollerante. Senza pretese. Che non faceva domande, che ascoltava senza giudicare e che non si adombrava o adirava se talvolta decideva di lasciarla per uscire con qualche amico o amica e che soprattutto al suo ritorno era felice di riaverlo e lo coccolava per la gioia. Che accettava tutti i doni che Ruben decideva di portarle, accettandoli con discreta gratitudine. Che accoglieva i suoi silenzi oppure sapeva aspettare pazientemente che si spegnessero le sue urla. Che si rallegrava per le sue gioie e nel contempo osservava i suoi timori in modo compassionevole. Insieme a quei pensieri Ruben si era fermato a metà del ponte ora, appoggiato sul parapetto, alternava lo sguardo tra il lento scorrere delle acque scure del Tejo, i tetti, le torri e le guglie in fronte a lui, tutte protese verso l'alto e il limpido azzurro del cielo senza nuvole ovunque sopra di sé. "Quanto mi conoscevi bene, compagna Solitudine e con quanta pazienza hai atteso che io finalmente mi accorgessi di te" si disse inconsapevolmente ad alta voce attirando l'attenzione e la sorpresa dei pochi passati sul Puente di San Martin, mentre gli parve di sentire nel suo corpo la gioa della Solitudine, ora che lui aveva iniziato a conoscerla ed apprezzarla. Ruben capiva che la sua nuova compagna non lo voleva possedere, ma solo accompagnare dolcemente e con cura. Si, si sentiva realmente felice per quell'improvvisa illuminazione. Era stato proprio un "bell'incontro", quel giorno, in terra di Castilla; ora sapeva di poter contare su di un potente alleato per affrontare le grandi sfide che di lì a qualche giorno lo avrebbero atteso a Madrid, sia in campo professionale che sentimentale. Mezz'ora dopo si trovò ad interrogarsi, sempre con l'assistenza della nuova compagna, seduto su di una panchina del giardino del Chiostro del Monasterio di San Juan de los Reyes, quanto l'illuminazione fosse figlia di quel luogo ove da ogni parte emergevano le tracce del tempo in cui cristiani, ebrei ed arabi erano anche riusciti a convivere pacificamente nei rari periodi in cui rinunziavano a volersi sopraffare reciprocamente. "In fondo non ha importanza saperlo. Cosi è." si disse infine fissando la palla infuocata sparire dietro le colline della Mancha dipingendo un cielo che pareva una ferita sanguinante, mentre il treno ad alta velocità lo stava riportando alla stazione di Atocha.     

giovedì 16 novembre 2017

ITALIA FUORI DAI MONDIALI? FORSE BASTAVA LEGGERE LE BIOGRAFIE

Per la prima volta da quando sono al mondo la nazionale italiana di calcio non parteciperà ai campionati mondiali, nonostante il blasone dei suoi 4 titoli mondiali,  di cui l'ultimo datato appena 2006. Le ragioni di questo "fiasco" storico sicuramente sono molte e probabilmente la contaminazione di più fattori insieme ha generato l'insuccesso clamoroso che, peraltro fa seguito alle due già fallimentari partecipazioni a Sudafrica 2010 e Brasile 2014. A caldo si è sentito di tutto e di più: un C.T. inadeguato che ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare, un campionato con troppe squadre e troppi giocatori stranieri che tolgono spazio a quelli italiani già dalle squadre giovanili, un sistema che non impiega le risorse economiche in modo efficiente e lungimirante, premiando solo poche squadre e i portafogli di una ristretta casta di tecnici, dirigenti, procuratori e giocatori,  un presidente federale inadeguato che anche lui ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare, giocatori strapagati e incapaci di rappresentare degnamente il nostro calcio. Personalmente sono rimasto colpito dalle parole di Gigi Buffon che, in lacrime, al fine del match con la Svezia ha parlato anche di fallimento sociale; non so bene cosa volesse dire il nostro capitano ma quell'espressione ha messo in moto un pensiero ed un ragionamento nella mia "zucca." Ho ripensato ai campioni del 1982, alla mia infanzia e alla mia adolescenza quando la nazionale di calcio rappresentava, sul campo e non per blasone, un orgoglio della nazione. Leggete con attenzione le biografie dei vari Bearzot, Gentile, Zoff, Tardelli, Paolo Rossi ecc. ecc.; scoprirete storie di riscatto sociale e vite che si sono sviluppate tra la miseria e la grande voglia di fare del secondo dopoguerra mondiale e della prima riscossa economica, carriere sportive non nate nelle scuole calcio ma nei cortili delle scuole, dei campetti di periferia, nelle piazze di cittadine di provincia dove nessuno ti insegnava a forza il fuorigioco o come si fa una diagonale. Tutti figli della vera forza di sempre della nostra tribolata Italia: la piccola borghesia e la classe operaia. I genitori dei vari Cabrini, Bruno Conti, Altobelli e compagnia cantante si preoccupavano che i propri figli frequentassero le scuole e conseguissero un diploma, non che diventassero delle star del pallone. "Prima aiutare me, poi se avanza tempo si studia, ultimo ci si diverte." Questo era il mantra genitoriale di quel periodo. 
Leggete ora le biografie degli attuali giocatori professionisti italiani. Incarnano alla perfezione il declino di una società, della sua forza vitale e nel complesso di un modello socio-culturale. Mamme manager. Padri tifosi. Campetti, cortili, piazze vuote o dove sono riempite lo sono con i figli degli immigrati. I nostri ragazzi vanno alle scuole calcio con la macchina di mamma e papà che diligentemente poi li vanno a riprendere e poi magari la domenica ad urlare all'allenatore del figlio di essere un incapace perché non fa giocare il proprio pargolo. Oppure ad insultare l'arbitro. E tutt'attorno il profumo (o il puzzo?) del Dio Euro.
Mi chiedo se siamo seri quando ci meravigliamo che il nostro movimento calcistico è finito nella mediocrità. O se "ci siamo" o "lo facciamo" quando diciamo che la colpa della mancata qualificazione a Russia 2018 sia tutta di Ventura che non ha fatto giocare Insigne. O quando pensiamo che sarà sufficiente chiamare qualche santone strapagato e già carico di gloria sulla panchina azzurra per risorgere dalle ceneri.  
Solo in un paese in cui contano più gli amici degli amici invece del merito o del diritto anche e solo per rinnovare un passaporto in tempi ragionevoli, si può pensare che non è giusto che una nazione con quattro titoli mondiali sia esclusa dalla rassegna iridata a prescindere.
Forse con il blasone si farà ancora strada in Italia (vero Juve?) ma fuori, se non lo meriti, vincere è molto complicato. Non solo nello sport.
Forse ho esagerato. Forse è l'emotività del momento. O forse no.

mercoledì 8 novembre 2017

LIBRI DI SCUOLA ANNI '30

Oggi, 10 giugno 1940 in Italia va di moda la camicia nera... E’ una moda che dura ormai da 18 anni, da quando il Re Vittorio Emanuele III, invece di firmare lo stato d'assedio della capitale e ordinare all'esercito di cacciare quel migliaio di esaltati venuti in camicia nera da tutta Italia, decise di nominare Capo del Governo il loro caporione, quel Signore che oggi ha appena finito di parlare da quel balcone lassù.
La camicia nera ha prima preso piede nelle campagne, nei paesi e soprattutto tra quei poveracci senza speranza sopravissuti alla grande guerra e poi addirittura nell'alta società e tra gli industriali, eliminando ogni altra alternativa... a parte il grigioverde.
Non importa esserne convinti sostenitori, basta non essere ebrei o andare in piazza a gridare  apertamente di essere contrari! E di sicuro non vestire di rosso… 
Così, facendo finta di niente, vestendo sempre di nero, non me la sono passata poi tanto male in questi ultimi anni e a forza di sentirmi dire dalla scuola materna all'Università, dalla fabbrica all'Ufficio e qualche volta persino la domenica mattina alla Messa: che siamo una grande Nazione, una razza superiore baciata da destini superiori, non dico di averci creduto, però ho scoperto, che in fondo era comodo far finta di crederci… No? No ci credete? Sentite un po’ cosa m’insegnavano in 3° elementare…

estrae dal baule un sussidiario dell’era fascista e vi legge

Problema di aritmetica (pag. 191):

“Un padre desiderava organizzare una bella gita con la famiglia; ma la spesa era troppo forte: lire 125. Rimandò allora la gita, sino a quando potè servirsi di un treno popolare, ottima istituzione del regime fascista, che permette a tutti di viaggiare per conoscere e godere delle bellezze della nostra Patria. Egli spese così soltanto lire 64 in tutto. Quanto risparmiò?  

Esercizio di grammatica (pag. 63):

“ Tempo presente. Coniugate, a voce o per iscritto (Io sono fiero di essere italiano. Tu… Egli… Voi… Voi… Essi…)
a)      Io ho una patria grande e potente
b)      Sono stanco e ho sete
c)      Io ammiro i valorosi soldati italiani
d)      Credo, ubbidisco e combatto
e)      Nel nome di Dio e dell’Italia, giuro di eseguire gli ordini del Duce e di servire con tutte le mie forze e, se necessario, col mio sangue la causa della Rivoluzione fascista.

Ripone il libro


.. e lasciamo stare storia, geografia e religione per piacere! Allora, mi credete adesso?

lunedì 6 novembre 2017

OUVERTURE PER UN TEMPO CHE NON PASSA MAI



Praga, 20 agosto 1968 - Le vacanze stanno per finire… domani mattina si torna in Italia! Non nascondo che già provo nostalgia per questi dieci giorni passati nella città di Kafka, nella capitale di Rodolfo II d’Asburgo ed oggi nella città della speranza di Alexander Dubček.: in fondo partire è sempre un po’ morire… anche quando lo si fa per tornare a casa e riabbracciare i propri cari e riprendere la propria routine… Questa volta però è diverso, il mio animo è in tumulto, avverte un’inquietudine particolare… che mi riporta indietro… ai tempi della scuola, quando il gracchiare della campanella annunciava la fine della ricreazione ed interrompeva bruscamente, senza preavviso, l’anarchia ed i lazzi e tutti mestamente si rientrava, in ordine, in classe ad attendere, in un’innaturale silenzio, il ritorno del maestro.  Non mi dà particolare sollievo neppure l’idea di poter raccontare a tutti gli altri amici le meraviglie viste e vissute in questi giorni… tanto non capirebbero, non potrebbero capire, figuriamoci… quando sei mesi fa dissi loro  che quest’anno sarei venuto a passare le vacanze estive a Praga, mi guardarono come si può guardare un pazzo… “D’accordo che vuoi sempre nuotare contro la corrente” … disse uno di loro… “ma questa volta cerchi proprio di annegare!”.
Già… tutti sognavano  la sensuale Parigi, le calde spiagge spagnole ed i più audaci addirittura si immaginavano “on the road”, in moto, sulle strade della California… ed io invece no… determinato a varcare la cortina, per spingermi nel mondo “sbagliato”… tra le braccia del nemico, rischiando magari di essere arrestato come spia imperialista solo per aver scattato qualche foto dalla collina di Hradčany.
In realtà, nulla mi affascinava più di questo viaggio oltre le “colonne d’Ercole” del nostro tempo… entrare in quella sorta di nebbia che avvolgeva, ai nostri occhi, tutte le terre ed i paesi posti ad oriente di quella linea, purtroppo fisica e non immaginaria, costituita dal filo spinato della cortina di ferro, che non solo tagliava in due l’Europa, ma segnava il confine di due mondi non comunicanti e contrapposti.
Dagli estemporanei visitatori provenienti dal nostro mondo, per lo più persone che viaggiavano per motivi di lavoro, avevo ascoltato le storie più stravaganti, che terminavano quasi sempre con  il racconto di improbabili congressi “amorosi” con compiacenti bellezze statuarie dai capelli biondi, gli zigomi alti, le bocche carnose, gli occhi celesti e le gambe lunghe e snelle, il cui unico neo era rappresentato dalla toeletta personale approssimativa e dall’abbigliamento scialbo.
Questo che il “viaggiatore” ritornasse da Kiev, come da Bucarest o Varsavia, come da Sofia o da Budapest o da Bratislava; luoghi e genti sparse su di un’area continentale con storie nazionali e lingue anche profondamente diverse sembravano essersi uniformate su di un unico schema che le appiattiva sulla stessa grigia esistenza; gran parte di quei popoli che per secoli avevano vissuto insieme, guidati delle regole del vecchio impero asburgico e che insieme avevano creato quella civiltà e quella cultura che ancor oggi chiamiamo “mitteleuropea”, sembravano essere stati inghiottiti dalla Storia, decretando ai nostri occhi  non solo la loro “morte”, ma anche quella di quella civiltà che si basava involontariamente sulla coesistenza e sull’interscambio di culture in origine non comuni. In merito, ho sempre pensato che, in realtà, se “loro” erano morti, “noi” eravamo diventati tutti orfani inconsolabili. 

Mentre ero assorto in quei pensieri così impegnativi e con malinconia osservavo, dalla terrazza della mia camera affacciata su Vàclavske Nàměsti, i tetti, le guglie ed i campanili a cipolla della città d’oro, triste all’idea che quella sarebbe stata l’ultima giornata in cui mi sarei perso in quel labirinto che ribolliva di misteri e di voglia di essere, qualcuno bussò alla porta ed il rumore sordo ed insistente dei battiti ruppe bruscamente quello stato di strana sospensione in cui ero caduto.

venerdì 3 novembre 2017

SENSI E CUORE O CUORE E SENSI?

Se è vero, come è vero, che i cinque sensi sono i mezzi organici grazie ai quali possiamo comprendere l’ambiente fisico esterno, è sufficiente uno studio di questi finalizzato a comprendere i meccanismi con cui operano per una migliore comprensione del mondo esteriore, oppure la conoscenza va integrata con approfondimento del mondo interiore, a cui i cinque sensi debbono, a parer mio, essere tributari e non certo dominanti?
Non è proprio grazie a questa integrazione che si impara a diffidare delle sensazioni e dei giudizi che possono risvegliare le diverse sollecitazioni esteriori e ci si occuperà ad esercitare il controllo delle reazioni a cui si potrebbe essere istintivamente portati? Così facendo difficilmente ci si farà irretire da non importa cosa capiti alla decifrazione dei nostri sensi, a differenza di coloro che, in mancanza di tale approccio, sono invece destinati a rimanere preda di instabilità e confusione interiore, dominati dagli accadimenti del mondo esterno.
Lo sforzo cognitivo teso alla comprensione che vista, udito, tatto, odorato e gusto sono solo le “antenne” che riportano al nostro Essere gli accadimenti del mondo esteriore ha come riflesso lo sviluppo armonico dell’Io; infatti, fin tanto che anche l’intelligenza venisse rivolta esclusivamente verso oggetti decifrabili dai sensi, la conoscenza che ne deriverebbe, anche la più elevata e razionale, non andrebbe al di là delle forme e in nessun modo sarebbe in grado di avvicinarsi alla conoscenza dei principi universali.
Per scoprire ciò che c’è ben al di là del sapere “distintivo”, si deve dunque, grazie alla conoscenza di ciò che sono i sensi, del loro esatto ruolo e dei loro meccanismi di decifrazione, “sbarrare la porta” al mondo esteriore per utilizzare invece la potenza dell’Io, che tutte le Tradizioni simbolicamente individuano nel “Cuore” quale sede dell’intelligenza universale.
Si tratta di un vera e propria “spoliazione" della materia che porta proprio al Cuore dell’Essere e permette perciò il lento, ma inesorabile germoglio di quel grano che potrà condurre, per tale via, ad una Conoscenza superiore. 
Questa Conoscenza, necessariamente intuitiva e “supra-razionale” non va certo confusa con l’Irrazionale, in quanto non deve contrapporsi ma essere concorrente alla “Ragione”, della quale invece ci si deve servire ogni volta in cui si trova a dover esprimere in qualche modo e nella misura in cui ciò sia possibile, quelli che sono i risultati della propria attività umana. 
I cinque sensi dunque altro non sono che il ponte tra il Caos del mondo esterno e il Mondo interiore di cui servirsi allo scopo di creare l’Armonia tra il proprio Microcosmo e il Macrocosmo, attraverso la continua opera di decifrazione dei messaggi che viaggiano nelle due direzioni e, nel contempo, senza dimenticare mai chi è Sovrano e chi Vassallo.

Post in evidenza

NOTTI MAGICHE ANTE LITTERAM

25 giugno 1983 – Arrivo al campo mezz’ora prima del fischio d’inizio, di corsa dopo essere riuscito a fuggire da una riunione familiare ...