16 giugno 1985
La prima notte prima degli esami era arrivata anche per me.
Avevo provato a dormire, ma nella testa c’era un caos difficile da spiegare: pensieri che si rincorrevano, ricordi che si accavallavano senza chiedere permesso. Una quantità di immagini così precisa e vivida che sembrava tutto accaduto il giorno prima.
Mi rigiravo nel letto da ore, come se cambiando posizione potessi anche cambiare la realtà. Nella testa c’era un indescrivibile vorticare di pensieri, un flusso continuo di immagini, ricordi, voci. Pensavo a quel che avevo fatto, a quel che non avevo fatto, a ciò che forse avrei dovuto fare. A come sarebbe stato l’indomani, e ai cinque anni passati. Pensavo a tutto. Forse troppo.
Alla fine mi alzai. Andai in cucina, mi versai un bicchiere d’acqua. Guardai fuori: tutto era silenzioso, come se anche fuori si sapesse che era la vigilia di qualcosa di grosso.
Mi accesi una sigaretta — lo so, pessima idea e se mio padre se ne fosse accorto mi avrebbe cambiato i connotati — e uscii sul balcone. L’aria era immobile, né calda né fredda. Una via di mezzo fastidiosa, come quelle situazioni in cui non sai se ridere o preoccuparti.
Vedevo Roma e sentivo la voce di Antonello, come una colonna sonora involontaria. Vedevo Tina su quel treno, fresca diplomata in ragioneria, che tra una risata e l’altra mi raccontava dei suoi esami. E io pensavo a questo anno scolastico strano, un po’ improvvisato con troppi professori improvvisati e anche un po’ universitario – e mi chiedevo se avessi fatto bene a mettere da parte i libri tutte quelle volte, con la solita frase rassicurante: “Faremo”.
Ce n’erano stati tanti, di quei momenti.
Ripensai alla gita a Monaco, e mi salì un groppo di nostalgia alla gola. Rividi Silvia, alla stazione di Venezia, in quella mattina di maggio: mi salutava dal treno per Milano. Da allora non l’avevo più vista. E poi mi vidi seduto con Livio sulla panchina davanti a casa sua, tutti e due a evitare accuratamente di nominare la parola “maturità”, mentre ci perdevamo a progettare con entusiasmo una vacanza in bici, post-esami. Una roba enorme, ovviamente.
E mai realizzata, altrettanto ovviamente.
Nel frattempo si avvicinava il momento della “scelta importante”: università o militare? E il futuro, che fino a poco prima sembrava una parola teorica, prendeva forma davanti a me, con tutta la sua aria dura, faticosa, piena di punti interrogativi.
Pensai che forse sì, se avessi potuto, sarei tornato indietro di cinque anni. Per rifare tutto. O almeno per sentirmi ancora così: dentro una stagione in cui, bene o male, sapevo sempre dove stare.
Gli esami che stavano per cominciare, in fondo, erano l’ultimo atto di un periodo in cui tutto sembrava avere un senso chiaro: la scuola, gli amici, le certezze costruite giorno dopo giorno. Il dopo, invece, era nebbia.
4 luglio 1985
Ultima notte.
L’indomani tutto sarebbe finito. L’esame orale era fissato: 5 luglio, ore 12. La fine ufficiale.
Ero agitato, ovviamente. Anche un po’ teso. Ma almeno non mi avevano cambiato la materia. Solo questo bastava a rasserenarmi. La sensazione dominante, però, era che fosse davvero finita. Sul serio. E quella consapevolezza, più che liberarmi, mi lasciava addosso una nostalgia strana.
Ripensai all’anno appena passato, e a tutto quello che stava per chiudersi. Alla classe, all’atmosfera, alle genuine cazzate, alle risate sincere, alla strana solidarietà che ci aveva tenuti insieme — ognuno a modo suo, ognuno col proprio stile, ma tutti a condividere lo stesso grande problema: l’esame.
E quella roba lì non l’avrei più vissuta.
Tornarono a galla episodi in ordine sparso. Le tante "marine": alla Bussola, da Narda, a Udine. Mattinate interminabili piene di risate, lazzi, battute. E poi quella frase che ci dicevamo sempre alla fine, ridendo: “Non potrà finire bene!”
Che suonava buffa allora, ma adesso aveva qualcosa di sinistramente vero.
Il giorno dopo, lo sapevo, tutti si aspettavano da me grandi cose. Io, più semplicemente, speravo di non mandare tutto all’aria proprio all’ultimo giro. Di non tradirmi sul traguardo.
Ripensai ancora ai miei errori, alle cose lasciate in sospeso, a ciò che non avevo avuto il coraggio di dire. Ai rapporti complicati, alle amicizie che erano finite senza un vero motivo, a quelle che invece, chissà come, erano rimaste in piedi.
Mi vennero di nuovo in mente mille immagini: le risate con il Trivino, Zippo, Carlo e Manzo nei corridoi, le battute stupide in classe, le discussioni con i prof, le corse in bicicletta per andare a scuola, le mattine in cui ci si addormentava sui banchi e quelle in cui si rideva fino a non riuscire a respirare. I pomeriggi a studiare insieme, o a fingere di farlo. Le versioni di tedesco copiate di corsa. Le giornate passate a parlare della vita, dell’amore, del futuro, come se ne sapessimo qualcosa.
Era tutto lì. Niente di epico, niente di tragico. Solo la fine di un percorso. E l’inizio di qualcosa che ancora non sapevo come chiamare.
Nessun commento:
Posta un commento