Da
giovane avevo sempre odiato la matematica; oggi so che quell'odio non è solo dipeso dal professore che ebbi alle superiori e che non
si curava delle nostre turbe emotive, dei nostri vissuti personali, delle
nostre motivazioni, delle famiglie di origine: se riuscivamo a risolvere le
equazioni in pagella c'era la sufficienza, altrimenti no. E non c'erano santi
in paradiso in grado di fargli cambiare idea. Interpretava, ai miei occhi, la
sua materia alla perfezione: 1+1 fa 2 in estate come in inverno, non c'è spazio
per variazioni sul tema. E non importava se a quel risultato ci arrivavi dopo
un'ora di ragionamento, di preghiere oppure in un secondo mangiando un panino,
se lo scandivi con prosa perfetta e sorriso suadente (meglio sarebbe dire da paraculo)
oppure con voce stentorea e con lo sguardo rivolto al pavimento. Alla fine si
doveva pervenire alla soluzione indicata a pag. x del libro degli esercizi, a
quella e solo a quella. Niente spazio alla fantasia per giungere a qualcosa che
nessuno ancora aveva scoperto. Per me, amante della storia e della letteratura,
dove invece si poteva obiettare praticamente su tutto e l'ora di lezione era il
regno delle sfumature del grigio, in cui ogni argomento non era mai solo bianco
o solo nero, e dove non solo contavano i contenuti ma anche il "come"
quei contenuti venivano esposti, la matematica non solo mi risultava odiosa, ma
addirittura intollerabile. La matematica per me era gelida nella sua
astrattezza, impietosa nelle sue certezze e spietata nel suo focalizzarsi sul
risultato senza ammettere requie e la consideravo quindi qualcosa di “non umano”,
idea che trovava modo di rinforzarsi, sempre ai miei occhi, osservando il
comportamento di tutti i compagni che eccellevano nella materia: per lo più
taciturni, poco inclini alla risata stupida, scarsamente empatici, sempre
pronti a dare giudizi di merito sul comportamento altrui, poco inclini ai
compromessi e mai indulgenti, sempre molto interessati a capire come
funzionavano le cose invece delle persone. E quanto li “odiavo” nel vederli
risolvere in fretta e con naturalezza problemi che invece impegnavano la mia
mente fino allo sfinimento, per arrivare poi a soluzioni del tipo “f(x) tende a
infinito quando x > (2-a) e invece tende a 0 quando x tende a 0 e perde di
significato per tutti gli altri valori di x appartenente all’insieme dei numeri
reali.” – “E ‘sti cazzi! Chi se ne frega! Vuoi mettere il piacere della scoperta
del mondo che c’era dietro le rime di Dante, i versi Foscolo, i testi di Goldoni
o di Molière? Per non dire dei contenuti, che a loro volta erano in grado di
aprire universi sulla imprevedibilità del comportamento umano e sulla finitezza
del suo pensiero, altro che “f(x) che tende a infinito.”
In realtà chi era privo di fantasia ero io e non “loro”. Sono loro
che hanno cambiato il mondo, che dietro quegli X > (2-a) hanno saputo
trovare il modo con cui “obbligarci” a doverci confrontare ogni giorno con la
loro logica binaria maneggiando gli strumenti con cui le loro invenzioni hanno
riempito il nostro quotidiano.
E chi se frega poi se questo ha fatto alzare alle stelle lo stress
da lavoro correlato e le malattie connesse, se le loro invenzioni stanno
sostituendo gli uomini dai posti di lavoro, se la logica del risultato ad ogni
costo è penetrata in maniera cancerogena in ogni ambito delle relazioni umane,
se i gingilli figli delle loro f(x) hanno “aumentato” le nostre facoltà
dematerializzando e destrutturando i rapporti tra le persone di ogni età, sesso
e censo, distribuendo indiscriminatamente a tutti poteri extrasensoriali che
non avevano neanche gli dei dell’Olimpo e che stanno trasformando tutti gli
adolescenti in degli analfabeti emotivi?
“Loro” cosa rispondono? Rispondono gelidamente e senza empatia, più
o meno come facevano a scuola quando erano i primi della classe, guardandoti
come si può guardare un “minus” e con l’aggravante anche di essere pigro e con
poca voglia di studiare: “E cosa c’entriamo noi con tutto questo? E’ colpa dell’uomo
che usa male le cose che abbiamo inventato. Siete voi che non volete studiare,
che siete troppo emotivi, che utilizzate le nostre invenzioni in modo
irrazionale.”
Hanno ragione anche adesso, come ce l’avevano allora. E’ l’uomo a essere
fragile. Irrimediabilmente fragile. Disfunzionalmente fragile. Come me.
Meglio le macchine.
Appunto.
Ma i matematici non sono forse uomini anche loro? Oppure hanno
delle funzioni cerebrali che provengono da un’altra specie, come ho spesso
pensato durante gli anni della scuola, quando proprio non riuscivo a capire perché
il loro cervello sembrava programmato nel risolvere integrali e studi di
funzione come lo era il mio quando si trattava di mangiare perché avevo fame.
Un giorno domandai a uno di questi “superdotati” se non considerasse
paradossale il tipo di risposta che davano quando qualcuno osava mettere in
discussione l’utilità delle loro scoperte, ovvero che la colpa è dell’irrazionalità
e della fragilità dell’uomo se poi i social media diventano il sottobosco della
specie. La risposta fu come sempre risolutiva, senza possibilità di repliche: “Me
lo domandi perché non conosci la materia, la matematica è piena di paradossi;
ti basta andare su wikipedia e ne troverai almeno 24.”
Anche in questo caso avevano ragione loro.
Siamo già immersi in una società che chiede sempre di più agli
umani prestazioni da macchina, da valutarsi come lo si farebbe per un tornio o
per uno smartphone (pratiche/ora piuttosto che pezzi/minuto o clienti
conquistati/clienti contattati mentre nel contempo si perfeziona l’aggiornamento
professionale, si leggono mail, si effettuano pagamenti on-line e si è
disponibili a riempire ancora la nostra memoria a lungo termine senza
appesantire troppo quella di lavoro) mentre allo stesso tempo s’investono
miliardi di dollari per sviluppare macchine sempre più “intelligenti”, in grado
di riconoscere persino le emozioni, e provare empatia per risultare “più umane”.
Più paradossale di così.
Appunto.
Hanno sempre ragione loro.
Terminator genesis.
O, più semplicemente, Terminator genesi?P.S.: immagino i volti pieni di compassione e misericordia degli amici matematici mentre leggeranno il testo, molto simili a quelli di un giudice che assolve per "manifesta incapacità di intendere e di volere" l'imputato reo confesso.