giovedì 23 dicembre 2021

DOBBIAMO PARLARE


"Io e te dobbiamo parlare" o più semplicemente "Dobbiamo parlare". Quante volte nella vita ci è stata rivolta questa frase e nove volte su dieci l'interlocutore in realtà di "parlare" proprio non aveva voglia. Nella mia esperienza personale il vero significato che dava a quella frase chi me l'ha rivolta era "ti devo dire una cosa - tendenzialmente spiacevole per te - non sono interessato a conoscere il tuo punto di vista ed è sufficiente che tu ti limiti a comprendere bene quanto ti ho detto e agire di conseguenza". Più in generale, nella comunicazione quotidiana quanto siamo realmente interessati a comprendere quello che ci sta comunicando l'altro? La mia impressione è che quando due o più persone parlano, nei contesti più diversificati dal lavoro alla famiglia, non fanno altro che attendere che uno finisca la sua frase per dire subito la propria e questo solo nei pochi casi in cui resiste ancora un po' di buona educazione, altrimenti non si aspetta neppure che l'altro finisca di esprimere il suo concetto e lo si interrompe subito. E lo si fa senza filtri, con poca voglia di valutare le conseguenze, senza alcuna volontà di "ascoltare". Un po' come in una partita a tennis, in cui si ributta sempre di là la pallina fino a che l'altro non è più in grado di replicare. Perché questo imbarbarimento? Eppure senza "ascolto" non può esistere comunicazione efficace e il nascere di un dialogo che possa arricchire gli interlocutori, portandoli ad un livello superiore a quello di partenza. Forse perché "ascoltare" non è semplice ed è faticoso. "Ascoltare" non significa "sentire", è un arte che si affina con l'esperienza e il lavoro di una vita, significa  tentare di comprendere il senso di quello che ci comunica l'altro e, per comprenderne il senso, quelle parole vanno lette non con le nostre "lenti" ma con quelle che si presume usi il nostro interlocutore. Durante la fase dell'ascolto il focus deve posizionarsi prima sull'altro e poi spostarlo su cosa quel significato genera in noi. Operazione complicata, certo, e che non s'improvvisa, però si può imparare. Ma quanti di noi oggi hanno interesse a imparare quest'arte e farla propria,  a vestire, anche per un attimo i panni dell'altro? Risposta prevalente: E perché dovrei? già faccio fatica a vestire i miei, figuriamoci se mi devo prendere la briga di farlo con i tuoi. Ecco le ragioni dei continui fallimenti comunicativi e quindi, a cascata, delle relazioni: il focus sempre orientato sul proprio "Io" e la fuga dalla "fatica", di quale natura essa sia. Oggi se per ottenere qualche cosa bisogna "faticare", "pazientare", se quella "cosa" non è a portata di mano in tempo reale quella "cosa" è considerata di scarso valore, irrimediabilmente "Old" e quindi "Out". E così nella quotidianità non possiamo far altro che giocare a tennis in superficie; del resto la parola che usiamo per definire l'attività divenuta prevalente nella nostre abitudini più ricorrenti - ovvero utilizzare il web - è mutuata proprio dal verbo inglese to surf, ovvero navigare in superficie. Le parole sono rivelazioni. Sempre.



 

    

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