mercoledì 5 agosto 2020

QUANDO I MILITARI ERANO IL BRASILE









Per tutti gli anni ’80 del secolo scorso (!), la pista di pattinaggio annessa al campo sportivo comunale “Martiri della Libertà” di via Udine è stata il “tempio” del calcio cividalese “non agonistico” per la generazione dei nati tra il 1965 e il 1975, sostituendo il ruolo svolto in precedenza dal Ricreatorio di piazza Picco.

Il “non agonistico” va inteso nel senso di “non disciplinato o regolamentato” da federazioni sportive ufficiali e non certo per la mancanza di “agonismo” tra i praticanti: se c’era qualcosa che non faceva difetto nelle partite disputate su quel “terreno” era proprio l’agonismo e lo spirito di competizione tra tutti i partecipanti. Ne sa qualcosa chi lavorava al pronto soccorso dell’ospedale cittadino durante quel “formidabile” decennio.

Tutto ebbe inizio nel 1980, quando l’amministrazione comunale decise di ricoprire il campo di pallavolo in cemento dalla superficie ruvida con una pavimentazione perfettamente liscia per la pratica del pattinaggio a rotelle.

A lavoro ultimato, in mezzo alle due tribune a gradoni poste ai lati della pista, era contenuto un pavimento di 20 metri di larghezza e 40 di lunghezza in cemento rosa, privo di qualsiasi irregolarità e recintato da una struttura con rete metallica e corrimano in metallo alta 1,20 m e di 5 metri ai lati più corti.

Il Comune, probabilmente con il fine di ampliare le possibilità di pratica sportiva nelle ore dell’educazione fisica scolastica, fece riverniciare due porte da pallamano che erano in deposito, all’aperto, nei pressi della vecchia palestra adiacente all’impianto e le inserì all’interno della pista, al centro dei lati più corti.

Ed ecco che, ai nostri occhi di adolescenti che stavano crescendo a pane e pallone e in seguito alla trasformazione del Ricreatorio in parcheggio orfani di un luogo sicuro dove incontrarci e giocare a calcio nei pomeriggi dopo la scuola d’inverno e nelle serate estive, improvvisamente comparve qualcosa che era meglio dello stadio di San Siro.

E fu così che, senza l’intervento, l’intuizione o la regolamentazione di un adulto, con esclusione dei due pomeriggi settimanali in cui la “pista” era utilizzata dall’associazione pattinaggio, quel luogo fu occupato per partite auto-gestite di uno sport che non era calcio e neppure calcetto.

Non era calcio, perché le dimensioni del campo di gioco e delle porte erano molto più ridotte, così come il fondo non era erboso; non era calcetto perché non esisteva linea laterale, in quanto si poteva utilizzare la recinzione come sponda e la palla veniva rimessa in gioco solo quando usciva dal recinto. E non era neanche hockey perché non si usavano le mazze ed esisteva il fallo di fondo con le conseguenti rimesse del portiere o gli eventuali calci d’angolo.

Qualsiasi cosa fosse era una figata e quel posto per tutti divenne “il campetto”.

Chi arrivava a partita iniziata si sedeva sui gradoni e bastava aspettasse l’arrivo del prossimo per entrare in campo poi “uno per parte”, con squadre che in quel modo, via via che il tempo passava si ampliavano a dismisura, riducendo notevolmente gli spazi in campo e la fluidità delle azioni. Non c’era l’arbitro, chi subiva fallo lo chiamava, rimettendosi al giudizio del gruppo nelle situazioni più controverse e nel caso in cui il gruppo fosse diviso, l’ultima parola spettava “al più grande” oppure a quello con più “carisma”.

Altra particolarità era la quantità di polvere rosa che scendeva assieme allo shampoo e al sudore nello scarico della doccia, ogni volta che ci si lavava i capelli rientrati in casa dopo i pomeriggi al “campetto”, quale “regalo” che il pulviscolo presente sulla superficie della speciale pavimentazione della pista lasciava regolarmente sulle nostre teste.

Verso la metà degli anni ’80, appunto, quel posto e quel tipo di calcio-calcetto-hockey erano diventati così popolari da far sì che nella stagione estiva, complice anche l’installazione dei fari per l’illuminazione artificiale, gruppi di amici iniziassero ad improvvisarsi comitati organizzatori di veri e propri tornei notturni patrocinati dal Comune e capaci di attrarre squadre anche fuori dal contesto cividalese e di riempire di pubblico le tribune del “campo-pista”. Tutto finì all’inizio degli anni ’90, quando il “campetto” venne chiuso per l’avvio dei lavori di copertura della pista, lavori che durarono il tempo necessario affinché le nuove tecnologie, il calo demografico e il mutamento dei gusti e degli stili giovanili creassero i presupposti per l’abbandono delle partite “autogestite” tra amici adolescenti. Verso la metà degli anni ’90 il “campetto”, con tanto di copertura faraonica “stile San Siro” ospitò per un periodo i tornei estivi di pallavolo e calcetto (quello vero e non più calcio-calcetto-hockey) della celebre manifestazione “Frutaz di Cividat”, senza mai peraltro raggiungere i “pienoni” sulle tribune dei tornei artigianali degli anni ’80. Il “campetto” oramai era diventato solo un luogo della memoria. Un mito dell’antichità.

Di quell’antichità voglio, fra i tanti e tanti ricordi legati a quelle sfide infuocate, riportare alla luce una semifinale del torneo Città di Cividale 1988, quando gli “Azzurri”, la squadra in cui giocavo assieme ai miei amici più stretti, si confrontò contro il 59° Calabria, team composto dai militari di leva “ospitati” nella caserma “Lanfranco-Zucchi”.

Non tanto per l’andamento dell’incontro, pure spettacolare, equilibrato, ricco di colpi di scena e purtroppo terminato con la nostra sconfitta per 4-2 al termine di una “battaglia” finita solo ai tempi supplementari.

Quello che merita “rivedere la luce” è lo spettacolo che diede il pubblico sugli spalti e per l’emozione che provammo noi fortunati che disputammo quel match.

Tutta la tribuna est gremita di cividalesi e tutta quella ovest di militari leva, gran parte di origine campana. Almeno 500 persone in totale. Tifo da stadio, continuo, assordante, agevolato dalle limitate dimensioni del campo di gioco che a sua volta permetteva lo svilupparsi di continue azioni da rete.

Nel 59° Calabria militavano – è proprio il caso di dirlo – ragazzi che giocavano in squadre semi-professionistiche, mentre noi potevamo oltre alla maggiore esperienza nei trucchi del calcio-calcetto-hockey opporre solo la pugna e l’orgoglio di un gruppo di amici di osteria nei confronti degli “odiati militari” che, con la loro massiccia presenza (2000 in una cittadina di 11.000 abitanti) erano ritenuti come il blocco che ci impediva di avere una normale vita sociale. A partire dal fatto che le ragazze, a causa di quell’ingombrante presenza, dalle 18,00 in poi non si facevano vedere.

Il 59° Calabria resterà senza dubbio la squadra più forte che abbia mai calcato il cemento polveroso del “campetto” di Via Udine, metaforicamente ancora più forte del Brasile del 1982 perché loro, a differenza dei brasiliani che si fecero battere dall’Italia del “brutto anatroccolo” Paolo Rossi, furono capaci di vincere anche la finalissima, facendo sfogare tutta la rabbia di chi è costretto a stare lontano da casa a vent’anni, sotto le armi in un posto ritenuto, non sempre a torto, inospitale.

Quella semifinale finì con un’intera tribuna festante che cantava all’unisono, a squarciagola “’O surdato ‘nnamurato”, sventolando le bandiere nel Napoli e qualche poster di Diego Maradona. Da brividi per chi era in campo, anche per chi, come noi, aveva dato tutto riuscendo solo a sfiorare un miracolo sportivo: finimmo così malconci da non riuscire, tra infortuni e squalifiche, a fare il numero minimo per giocare di lì a tre giorni la finale del ¾ posto.     


3 commenti:

  1. perdemmo anche noi con quella squadra... e forse per una mia mancata copertura... ma non mi ricordo se era la finale... ero in squadra con paolo badino nero giancarlo scoyni mario miani vipera...

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