Per tutti gli anni ’80 del secolo scorso (!), la pista di pattinaggio annessa al campo sportivo comunale “Martiri della Libertà” di via Udine è stata il “tempio” del calcio cividalese “non agonistico” per la generazione dei nati tra il 1965 e il 1975, sostituendo il ruolo svolto in precedenza dal Ricreatorio di piazza Picco.
Il “non agonistico” va inteso nel
senso di “non disciplinato o regolamentato” da federazioni sportive ufficiali e
non certo per la mancanza di “agonismo” tra i praticanti: se c’era qualcosa che
non faceva difetto nelle partite disputate su quel “terreno” era proprio l’agonismo
e lo spirito di competizione tra tutti i partecipanti. Ne sa qualcosa chi
lavorava al pronto soccorso dell’ospedale cittadino durante quel “formidabile”
decennio.
Tutto ebbe inizio nel 1980,
quando l’amministrazione comunale decise di ricoprire il campo di pallavolo in
cemento dalla superficie ruvida con una pavimentazione perfettamente liscia per
la pratica del pattinaggio a rotelle.
A lavoro ultimato, in mezzo alle
due tribune a gradoni poste ai lati della pista, era contenuto un pavimento di
20 metri di larghezza e 40 di lunghezza in cemento rosa, privo di qualsiasi irregolarità
e recintato da una struttura con rete metallica e corrimano in metallo alta
1,20 m e di 5 metri ai lati più corti.
Il Comune, probabilmente con il
fine di ampliare le possibilità di pratica sportiva nelle ore dell’educazione
fisica scolastica, fece riverniciare due porte da pallamano che erano in
deposito, all’aperto, nei pressi della vecchia palestra adiacente all’impianto
e le inserì all’interno della pista, al centro dei lati più corti.
Ed ecco che, ai nostri occhi di
adolescenti che stavano crescendo a pane e pallone e in seguito alla trasformazione del Ricreatorio in parcheggio orfani di un luogo sicuro dove
incontrarci e giocare a calcio nei pomeriggi dopo la scuola d’inverno e nelle
serate estive,
improvvisamente comparve qualcosa che era meglio dello stadio di San Siro.
E fu così che, senza l’intervento,
l’intuizione o la regolamentazione di un adulto, con esclusione dei due
pomeriggi settimanali in cui la “pista” era utilizzata dall’associazione
pattinaggio, quel luogo fu occupato per partite auto-gestite di uno sport che
non era calcio e neppure calcetto.
Non era calcio, perché le
dimensioni del campo di gioco e delle porte erano molto più ridotte, così come
il fondo non era erboso; non era calcetto perché non esisteva linea laterale,
in quanto si poteva utilizzare la recinzione come sponda e la palla veniva
rimessa in gioco solo quando usciva dal recinto. E non era neanche hockey perché
non si usavano le mazze ed esisteva il fallo di fondo con le conseguenti
rimesse del portiere o gli eventuali calci d’angolo.
Qualsiasi cosa fosse era una figata e quel posto per
tutti divenne “il campetto”.
Chi arrivava a partita iniziata
si sedeva sui gradoni e bastava aspettasse l’arrivo del prossimo per entrare in campo
poi “uno per parte”, con squadre che in quel modo, via via che il tempo passava
si ampliavano a dismisura, riducendo notevolmente gli spazi in campo e la
fluidità delle azioni. Non c’era l’arbitro, chi subiva fallo lo chiamava,
rimettendosi al giudizio del gruppo nelle situazioni più controverse e nel caso
in cui il gruppo fosse diviso, l’ultima parola spettava “al più grande” oppure
a quello con più “carisma”.
Altra particolarità era la
quantità di polvere rosa che scendeva assieme allo shampoo e al sudore nello
scarico della doccia, ogni volta che ci si lavava i capelli rientrati in casa dopo
i pomeriggi al “campetto”, quale “regalo” che il pulviscolo presente sulla superficie
della speciale pavimentazione della pista lasciava regolarmente sulle nostre
teste.
Verso la metà degli anni ’80,
appunto, quel posto e quel tipo di calcio-calcetto-hockey erano diventati così
popolari da far sì che nella stagione estiva, complice anche l’installazione
dei fari per l’illuminazione artificiale, gruppi di amici iniziassero ad improvvisarsi
comitati organizzatori di veri e propri tornei notturni patrocinati dal Comune e
capaci di attrarre squadre anche fuori dal contesto cividalese e di riempire di
pubblico le tribune del “campo-pista”. Tutto finì all’inizio degli anni ’90,
quando il “campetto” venne chiuso per l’avvio dei lavori di copertura della
pista, lavori che durarono il tempo necessario affinché le nuove tecnologie, il
calo demografico e il mutamento dei gusti e degli stili giovanili creassero i
presupposti per l’abbandono delle partite “autogestite” tra amici adolescenti. Verso
la metà degli anni ’90 il “campetto”, con tanto di copertura faraonica “stile
San Siro” ospitò per un periodo i tornei estivi di pallavolo e calcetto (quello
vero e non più calcio-calcetto-hockey) della celebre manifestazione “Frutaz di
Cividat”, senza mai peraltro raggiungere i “pienoni” sulle tribune dei tornei
artigianali degli anni ’80. Il “campetto” oramai era diventato solo un luogo
della memoria. Un mito dell’antichità.
Di quell’antichità voglio, fra i
tanti e tanti ricordi legati a quelle sfide infuocate, riportare alla luce una
semifinale del torneo Città di Cividale 1988, quando gli “Azzurri”,
la squadra in cui giocavo assieme ai miei amici più stretti, si confrontò
contro il 59° Calabria, team composto dai militari di leva “ospitati” nella
caserma “Lanfranco-Zucchi”.
Non tanto per l’andamento dell’incontro,
pure spettacolare, equilibrato, ricco di colpi di scena e purtroppo terminato
con la nostra sconfitta per 4-2 al termine di una “battaglia” finita solo ai
tempi supplementari.
Quello che merita “rivedere la
luce” è lo spettacolo che diede il pubblico sugli spalti e per l’emozione che provammo
noi fortunati che disputammo quel match.
Tutta la tribuna est gremita di
cividalesi e tutta quella ovest di militari leva, gran parte di origine campana.
Almeno 500 persone in totale. Tifo da stadio, continuo, assordante, agevolato
dalle limitate dimensioni del campo di gioco che a sua volta permetteva lo
svilupparsi di continue azioni da rete.
Nel 59° Calabria militavano – è proprio
il caso di dirlo – ragazzi che giocavano in squadre semi-professionistiche,
mentre noi potevamo oltre alla maggiore esperienza nei trucchi del calcio-calcetto-hockey opporre solo la pugna e l’orgoglio di un gruppo di amici di
osteria nei confronti degli “odiati militari” che, con la loro massiccia
presenza (2000 in una cittadina di 11.000 abitanti) erano ritenuti come il
blocco che ci impediva di avere una normale vita sociale. A partire dal fatto
che le ragazze, a causa di quell’ingombrante presenza, dalle 18,00 in poi non
si facevano vedere.
Il 59° Calabria resterà senza
dubbio la squadra più forte che abbia mai calcato il cemento polveroso del “campetto”
di Via Udine, metaforicamente ancora più forte del Brasile del 1982 perché loro,
a differenza dei brasiliani che si fecero battere dall’Italia del “brutto
anatroccolo” Paolo Rossi, furono capaci di vincere anche la finalissima,
facendo sfogare tutta la rabbia di chi è costretto a stare lontano da casa a
vent’anni, sotto le armi in un posto ritenuto, non sempre a torto, inospitale.
Quella semifinale finì con un’intera
tribuna festante che cantava all’unisono, a squarciagola “’O surdato ‘nnamurato”,
sventolando le bandiere nel Napoli e qualche poster di Diego Maradona. Da
brividi per chi era in campo, anche per chi, come noi, aveva dato tutto
riuscendo solo a sfiorare un miracolo sportivo: finimmo così malconci da non
riuscire, tra infortuni e squalifiche, a fare il numero minimo per giocare di lì
a tre giorni la finale del ¾ posto.
Bielissime!
RispondiEliminaperdemmo anche noi con quella squadra... e forse per una mia mancata copertura... ma non mi ricordo se era la finale... ero in squadra con paolo badino nero giancarlo scoyni mario miani vipera...
RispondiEliminaSi, era la finale e perdeste 2-0. :-)
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