La comitiva
azzurra parte per la Spagna in un clima di sfiducia generale: non vince una
partita da mesi, da almeno 2 anni non disputa un incontro all’altezza della
fama che si era conquistata meritatamente nel 1978 ai mondiali di Argentina e
il suo giocatore più rappresentativo, Paolo Rossi, quello incaricato di
interpretare il ruolo che ha il sassofonista in un complesso jazz, è appena
rientrato in gioco in condizioni fisiche e psicologiche non ottimali, dopo una squalifica che per due anni lo ha
tenuto lontano dai campi di calcio.
Nessuno crede,
neppure la stessa squadra lo fa, di arrivare in Spagna con lo scopo di vincere
il campionato del mondo: l’obiettivo dichiarato è passare il primo turno e di
ben figurare nel secondo, per assistere poi tranquillamente, con la
consapevolezza e la serenità di chi ha fatto il proprio dovere, al trionfo
della squadra che a detta di tutti, tifosi, tecnici e stampa specializzata è
predestinata all’apoteosi: il grande
Brasile di Zico, Falcao, Socrates, Junior, ecc. ecc.
Una volta
arrivati a Pontevedra in Galizia, la regione spagnola dove si disputeranno le 3
partite della prima fase, gli italiani scoprono che il raggiungimento del loro
obiettivo atteso, quello normale, si
è trasformato in un impresa quasi impossibile: il ritiro in un vecchio e
austero parador sembra assumere le fattezze di una detenzione coatta in un
luogo dimenticato dal mondo, il clima autunnale e incessantemente piovoso rende
il soggiorno galiziano così malinconico da apparire quasi una pena di origine
dantesca e la stampa italiana non smette di indirizzare al tecnico e alla
squadra critiche di un’asprezza tale da sconfinare spesso nella cattiveria, al
limite della maldicenza.
Alla prova dei
fatti poi, nelle prime tre partite, contro avversari non ritenuti irresistibili
il gruppo gioca in modo discontinuo,
contratto, timoroso e strappa 3 pareggi che sono appena sufficienti a passare
il turno per il “rotto della cuffia”; la squadra sembra quella normale vista e criticata negli ultimi 2
anni, nulla autorizza a farsi illusioni su quello che sarà il prossimo
andamento del torneo.
Inoltre i due più
criticati, il commissario tecnico Enzo Bearzot e Paolo Rossi, sembra nulla
facciano per smentire la critica e persino la ragionevolezza: il secondo gioca sempre male, sembra avulso dalla
squadra e impresentabile sotto il profilo atletico, mentre il primo respinge
con decisione tutti gli inviti a cambiare il suo “pupillo” e continua a voler
insistere su di lui contro tutto e tutti, con una determinazione quasi feroce, che
per i più sfocia nell’insensatezza e nella cieca testardaggine.
Ma quando la
squadra lascia la malinconica e uggiosa Galizia per giungere nel caldo quasi
tropicale di Barcellona, dove l’attendono i Mostri
Sacri argentini e brasiliani per il secondo turno, qualcosa succede; i giocatori si isolano, tagliano i ponti con
l’esterno inventando il silenzio stampa
rifiutandosi di concedere interviste, si compattano intorno al loro Mentore Enzo Bearzot e sconfiggono
l’Argentina nella prima partita. Una scintilla si è accesa, anche se ancora pochi
credono che quel gruppo possa fare qualcosa di diverso dal tornare a casa avendo fatto bella figura: c’è sempre davanti
l’ostacolo insuperabile del Grande Brasile e Paolo Rossi è ancora quello visto
in Galizia. E invece, 5 giorni dopo … contro i brasiliani l’Italia gioca la
partita della Vita, batte 3-2 i predestinati alla vittoria finale e Paolo Rossi
risorge dalle sue ceneri diventando il primo uomo a segnare 3 gol tutti in una
volta ai fenomeni sudamericani.
La squadra e
Paolo Rossi si sono trasformati,
battono in crescendo e senza esitazioni gli ultimi avversari, vincendo rispettivamente il campionato
mondiale e il titolo di capocannoniere del torneo e riportando così in Italia,
contro ogni pronostico, la coppa del Mondo dopo 44 anni.
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