Aveva cinquant’anni e, fino a pochi mesi prima, era stato il consulente artistico del Museo del Prado, un incarico prestigioso che pensava fosse la vetta della sua carriera. Ma non aveva previsto quanto fragile potesse essere quella posizione.
Tutto era iniziato con l’arrivo della nuova direttrice, una giovane donna brillante e sicura di sé in modo quasi aggressivo. L'aveva osservata durante il loro primo incontro: la sua sicurezza sembrava un’armatura e ogni parola che pronunciava era una freccia. "Il passato è importante, senor Rubén, ma non possiamo vivere di nostalgia. Il museo ha bisogno di innovazione, di energia giovane."
Non era stato un dialogo, ma un monologo calcolato. Rubén aveva percepito subito la sua determinazione a eliminare ogni ostacolo al suo progetto, e lui era un ostacolo. Aveva cercato di opporsi, di far valere i suoi anni di lavoro e i suoi risultati, ma le sue parole si erano infrante contro quella patina di sorrisi perfetti e frasi taglienti. Non c’era spazio per la diplomazia.
Quando si era reso conto che ogni sua obiezione sarebbe stata ignorata, si era rivolto al Presidente della Fondazione, l’uomo che, anni prima, lo aveva voluto fortemente in quel ruolo. Rubén ricordava ancora il giorno in cui il Presidente lo aveva chiamato per offrirgli l’incarico. "Ho bisogno di te," gli aveva detto allora. "Se vogliamo riportare il Prado al centro della scena, non possiamo farlo senza un uomo con il tuo talento."
E ora? Ora, dopo settimane di tentativi, non aveva ottenuto nemmeno una risposta. Nessuna chiamata, nessun messaggio. Nulla. Quel silenzio era stato peggio di qualsiasi licenziamento. Non era stato solo escluso: era stato cancellato.
"Non merito nemmeno una spiegazione," si era detto. La consapevolezza lo aveva umiliato, ma anche rabbuiato. "Lei l’ha manipolato" pensava riferendosi alla direttrice. C’era qualcosa di predatorio in quella donna, una capacità di sfruttare il potere altrui per rafforzare il proprio. Rubén si era trovato impotente, tradito e ridotto a un’ombra del rispetto che pensava di aver guadagnato.
Ora era lì, davanti ai templi di Tulum, cercando di capire cosa ne sarebbe stato di lui. Aveva trascorso la sua vita immerso nell’arte, ma quell’universo sembrava averlo abbandonato. Era già difficile ricominciare a cinquant’anni, ma farlo sapendo di essere considerato superfluo era quasi insostenibile.
Attraversò l’ingresso del sito e si trovò davanti alla scena che aveva visto in mille fotografie: le rovine maestose di Tulum, arroccate su una scogliera, con l’oceano turchese che lambiva la spiaggia sottostante. Sospirò, appoggiandosi a un muro di pietra. "Hai fatto bene a venire qui," si disse, ma non ne era del tutto convinto.
Prese il suo quaderno da schizzi e una matita dalla borsa. Disegnare lo aiutava a trovare pace, ma quel giorno le mani sembravano non rispondere. Guardava le linee dei templi maya, il cielo terso, le onde che s’infrangevano lontano. Eppure, la matita restava sospesa.
“Le piace la vista?”
La voce lo colse di sorpresa. Si voltò e vide una giovane donna in piedi accanto a lui. Portava un lungo abito di cotone bianco, decorato con ricami tradizionali, e una treccia spessa che le scendeva sulla spalla. I suoi occhi, di un nero profondo, lo fissavano con un misto di curiosità e calma.
“Sì, molto,” rispose Rubén, abbassando lo sguardo sul quaderno vuoto.
“È qui per disegnare?” continuò lei, indicando il quaderno con un gesto lento. La sua voce aveva una musicalità particolare, dolce e leggermente cantilenante.
“Ci provo,” disse Rubén, con un sorriso amaro.
La donna lo osservò per un momento, poi si avvicinò, rimanendo però a una distanza rispettosa. “Mi chiamo Itzel. Faccio la guida qui al sito, ma oggi sono libera. Mi piace venire qui anche quando non lavoro. I templi cambiano ogni volta, lo sa? Non sono mai gli stessi.”
Rubén la guardò, incuriosito. “Cosa intende?”
Itzel sorrise, ma il suo sguardo divenne serio. “Dipende da chi li guarda. Alcuni vedono un passato glorioso, altri solo rovine. Altri ancora... niente di tutto questo. Lei cosa vede?”
Rubén esitò. “Non lo so,” ammise. “Forse sto cercando una risposta che non trovo.”
Itzel rimase in silenzio per un momento, poi si sedette su una pietra vicina. “I Maya credevano che Tulum fosse un luogo sacro perché qui il cielo e la terra si incontrano. Un posto perfetto per chi cerca qualcosa.”
Rubén abbassò gli occhi sul quaderno. Poi tracciò una prima linea, tremante, che divenne una curva. Poi un'altra, un’ombra di un muro, l’orizzonte lontano. L’inquietudine nelle sue mani si trasformava a poco a poco in energia. Non era solo un disegno: era una mappa. Non per trovare qualcosa, ma per ricordare dove era già stato e chi era.
Man mano che il disegno prendeva forma, Rubén sentì riaffiorare una verità che aveva dimenticato. Non era l’incarico a definirlo, né il riconoscimento degli altri. Era ciò che sapeva fare: osservare, interpretare, creare. Aveva ancora il potere di dare forma al mondo che vedeva, e quel pensiero accese una scintilla.
Quando alzò lo sguardo, Itzel non c’era più. Era sparita, come un’apparizione.
Osservò il disegno. Non era perfetto, ma aveva un’energia che non sentiva da mesi. Il muro, le pietre, le ombre: c’era vita in ogni tratto. “Forse,” pensò, “non sono così finito come credevo.”
Rubén chiuse il quaderno e si diresse verso la spiaggia. Le onde continuavano a infrangersi, indifferenti al tempo, ai destini e ai rimpianti. E lui, per la prima volta, sentì che poteva lasciare andare ciò che era stato, senza dimenticarlo.
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