Il sole, un disco d’oro ormai stanco, scendeva dietro le montagne rosse di Petra, e il Tesoro, l'Al-Khazneh, emergeva dalla penombra con una solennità che sembrava sfidare il tempo. La sua facciata, scolpita nella pietra rosa millenni prima, brillava di una luce che pareva venire dall’interno, come se custodisse un cuore pulsante, immortale. Le colonne corinzie, levigate dal vento e dalla sabbia, sembravano ossa antiche che sostenevano la memoria di un popolo scomparso.
Rubén osservava quei dettagli, il timpano cesellato, le nicchie vuote, e non poteva fare a meno di vedere un riflesso della propria vita. Come il Tesoro, la sua esistenza era stata un’opera di pazienza e fatica, scolpita da anni di viaggi, decisioni difficili e momenti di fugace ispirazione. Ma, come quel monumento, si sentiva consumato. Non erano forse anche le sue ambizioni erose dai venti del tempo? Le sue opere, sparse per il mondo, non erano forse nicchie vuote, ricordi di ciò che avrebbe voluto essere più che di ciò che era davvero diventato?
Un fruscio lo distolse dai suoi pensieri. Si voltò e vide un cane magro, il pelo fulvo striato di polvere, che si avvicinava lento, i movimenti cauti ma decisi. I suoi occhi dorati brillavano nel crepuscolo, pieni di una curiosità calma, quasi inquisitoria. L’animale si fermò a pochi metri da lui, sedendosi sulla sabbia con un gesto fluido.
Rubén lo osservò, sorpreso dalla tranquillità del cane. Aveva visto animali randagi in molti dei suoi viaggi, spesso diffidenti o spaventati, ma questo sembrava diverso, come se fosse lì per un motivo preciso.
“Hai fame?” chiese Rubén in spagnolo, sapendo che non avrebbe ricevuto risposta. Frugò nello zaino, trovando un pezzo di pane secco. Lo spezzò e lo gettò verso il cane, che lo annusò con cautela prima di prenderlo tra i denti.
Il cane mangiò lentamente, senza fretta, poi si sdraiò accanto a lui, gli occhi sempre puntati sul Tesoro. Per qualche istante, Rubén si sentì meno solo. Guardò di nuovo la facciata, che ora stava sprofondando nell’oscurità, le sue forme appena visibili contro il cielo stellato.
“Sembri capirlo meglio di me,” mormorò al cane, che si limitò a inclinare leggermente la testa. “Tu non devi preoccuparti di lasciare un segno, di creare qualcosa che sopravviva. Vivi e basta.”
Il cane lo osservava in silenzio, e Rubén si chiese se quegli occhi calmi non contenessero una saggezza che lui stesso aveva perso. Aveva passato una vita a inseguire l’idea di immortalità attraverso la sua arte, ma ora, davanti a quel monumento che resisteva da secoli, sentiva tutta l’effimera fragilità della propria esistenza.
“Allora,” disse rivolto più a sé stesso che all’animale, “forse è questo che devo imparare. Lasciare che le cose siano.”
Ma dentro di sé sapeva che non era così semplice. Non sentiva la pace che avrebbe voluto trovare. Il cane si alzò, stirandosi, e iniziò ad allontanarsi senza fretta, lasciandolo di nuovo solo. Rubén lo seguì con lo sguardo finché la sua figura sparì tra le rocce.
Il Tesoro era ormai avvolto nell’ombra, come un gigante addormentato. Rubén aprì il quaderno, cercando di disegnare qualcosa, ma la mano gli tremava. Le pagine bianche sembravano sfidarlo, ricordandogli la possibilità che il suo tempo come artista fosse finito.
Chiuse il quaderno con un gesto deciso e si alzò, sentendo il peso dello zaino come un macigno. Guardò il Tesoro un’ultima volta, un monumento che sembrava dirgli che tutto è transitorio, anche ciò che crediamo eterno.
Si incamminò verso l’uscita del sito archeologico. Non era pronto a fermarsi, ma non sapeva nemmeno più dove andare. Dietro di lui, il Tesoro svaniva nella notte, come un segreto che si rifiutava di essere svelato
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