venerdì 5 dicembre 2025

LA NEVICATA

La nevicata era cominciata piano, come una timida confidenza, poi aveva deciso di prendersi la scena: fiocchi grossi come rondelle cadevano sul campetto di calcio dietro la sede dell'acquedotto, trasformandolo in un paesaggio nordico, con le porte scrostate che sembravano due reliquie di un culto ormai scomparso.

Giffoni, Remfutti e Romano — tre liceali non ancora maggiorenni ma già veterani quanto a motivazioni e astuzie per evitare lunghi pomeriggi sui libri di latino — erano arrivati lì subito dopo il pranzo per godersi le inusuali possibilità di cazzeggio che l'altrettanto insolita nevicata aveva creato.

Senza molta fantasia avevano iniziato a tirarsi palle di neve in faccia, come tre soldati sovietici in pausa dai combattimenti a Stalingrado contro la Sesta Armata del generale Von Paulus mentre il campetto, solitamente polveroso, sembrava un altare candido, ideale per ospitare quel rito primordiale.

I tre amigos, novelli Canova, modellavano palle di neve con una cura estetica quasi scultorea, ridevano, si rincorrevano, si cojonavano, si stavano illudendo che nulla potesse interrompere quell'ennesimo pomeriggio di gioioso fancazzismo e rubato allo studio di civiltà morte e sepolte duemila anni prima.

Poi, come sempre accade quando gli dei si annoiano e decidono di infierire sugli innocenti, accadde.

Sulla porta del campetto comparvero due sagome a loro ben note.

Ed entrarono.

Bruto, Torace di Pietra, massiccio come una ruspa e con l’alito di chi aveva fumato in rapida successione un pacchetto di nazionali senza filtro, e Smilzo, dalla Voce Sfumata, slanciato come un palo della luce e con quel timbro gutturale che rendeva mosce tutte le consonanti, come se parlasse da un’altra dimensione.

I ragazzi si immobilizzarono. Il freddo della neve era nulla rispetto al gelo che arrivava con quei due.

Fermi! — tuonò Bruto, sollevando una palla di neve grande come un melone invernale. 

Lo Smilzo, con la calma del sacerdote che sta per offrire un agnello, aggiunse:
— Attenzione!… adesso si gioca.

Ma il gioco, si sapeva, non era mai un gioco.

Bruto indicò il muretto che cingeva il campetto, annerito dal tempo e da mille bestemmie.

Tutti e tre al muro! Fucilazione!

I liceali si guardarono come tre civili innocenti oggetto di rappresaglia dopo un rastrellamento della Whermacht e come automi incapaci di immaginare la possinilità di evitare l'avverso destino che li attendeva si disposero al muro, mentre i due bulli preparavano le palle di neve come proiettili balistici.

La prima salva li investì con violenza. Colpi al collo, al viso, sulle braccia. Giffoni pensò che Ettore, in fondo, era morto con più dignità sotto i colpi di Achille.

Chi invece dimostrò di avere il coraggio di Achille fu Romano, il primo a perdere la pazienza e a ribellarsi, con la neve che gli colava sulla faccia come la maschera tragica di un Erinni.

— Adesso basta — disse.

Un “basta” che non avrebbe dovuto pronunciare nessuno nel regno di Bruto e Smilzo.

Bruto fece un passo avanti, gonfiando il Torace di Pietra come un bue infuriato.

— Come hai detto?

Romano, con un coraggio che non sapeva di avere — o forse solo stordito dalla freddezza artica — ripeté:
— Adesso tocca a noi.

Il silenzio fu così spesso che persino i fiocchi sembrarono smettere di cadere. Remfutti guardò Romano come Ulisse guardava Euriloco dopo che questi aveva aperto l'otre dei venti donato da Eolo.

Bruto stava per esplodere quando lo Smilzo alzò un braccio e, come sempre, pronunciò la sua sentenza apparentemente magnanima:

È giusto!

Bruto si voltò verso di lui, scandalizzato come un gladiatore che scopre che gli hanno cambiato le regole del circo.

Ma lo Smilzo fu irremovibile.

— È giusto — ripeté con la sua Voce Sfumata  — Tocca a loro.

I bulli andarono al muro, con la lentezza di due bisonti che non hanno alternative.

I tre ragazzi, però, rimasero paralizzati, increduli di poter sfogare finalmente la rabbia accumulata nel tempo verso i loro carnefici.

— Allora?! — urlò Bruto.

Lo Smilzo aggiunse:

Attenzione! Chi ci becca è morto!

Quella frase li disarmò. Non sapevano se fosse una minaccia o una profezia.

Seguirono attimi lunghi come l'eternità con i tre che s'interrogavano sul dafarsi senza trovare una risposta convincente.

Remfutti ruppe gli indugi, si chinò, prese una palla di neve e la scagliò goffamente. Manco li sfiorò. Li evitò volutamente. La palla cadde ai piedi del muro come un pegno di resa.

Lo Smilzo allora concluse:

Il vostro turno è finito! Adesso cambio.

Giffoni, Remfutti e Romano si scambiarono uno sguardo. Uno di quei sguardi che valgono più di mille patti scritti con il sangue.

Fingendo di accettare il verdetto, arretrarono come tre generali sconfitti. Poi, senza un segnale, senza un respiro di preavviso, si voltarono e partirono di corsa.

A tutta velocità.

A gambe levate attraverso la neve, come tre lepri impazzite, con le sciarpe che svolazzavano come bandiere bianche.

Alle loro spalle, Bruto e lo Smilzo esplosero in un coro di imprecazioni.

GIFFONI, REMFUTTI E ROMANO! QUANDO VI TROVIAMO SARANNO CAZZOTTONI!!!

La loro voce risuonò per tutto il campetto, tra i fiocchi che continuavano a cadere con maggiore intensità.

E i tre correvano ridendo, con il cuore che batteva più forte della paura, come succede solo nelle età in cui la vita è ancora tutta da capire, e ogni fuga diventa un ricordo che un giorno, chissà perché, farà quasi tenerezza.

E così, in quell’innevato pomeriggio, non nacque solo una fuga, ma un piccolo mito destinato a essere raccontato mille volte: la volta in cui Giffoni, Remfutti e Romano sopravvissero alla fucilazione di neve… grazie alla sola, sacra, immortale arte della codarda e meravigliosa fuga. 



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