lunedì 30 ottobre 2017

NOVECENTO FRIULANO

Domenico, nato nel 1908 a Fagagna, Borgo Paludo, primogenito di 2 fratelli (Achille e Giovanni) e una sorella (Maria) nati in successione, di professione sarto è stato per tutti Sior Meni. Figlio d’arte, in quanto suo padre Luigi, nato occasionalmente nell’imperialregia Gorizia del 1879 da una famiglia poverissima residente a Stregna e trasferitosi dopo il servizio militare a Fagagna in Borgo Paludo per sfuggire al lavoro precario nei campi, aveva iniziato il mestiere di sarto cucendo e rammendando abiti talari oltre che fare il sacrestano nella locale chiesa parrocchiale. Sior Meni ne aveva raccolto l’eredità non solo nel mestiere ma anche nella devozione assoluta alla religione cattolica, superando sicuramente quella del padre e giungendo a rasentare il bigottismo per l’esasperazione nel rispetto che s’imponeva e imponeva di ogni regola formale a valenza esteriore. Non conosceva il gioco e i sorrisi erano rari, mai pubblici e comunque sempre misurati; l’essere rimasto orfano di madre a 4 anni, con il padre richiamato al servizio militare durante la prima guerra mondiale si era venuto a trovare a fare le veci del capo-famiglia a 6 anni con i due fratelli minori a carico, coadiuvato da una vecchia zia zitella timorata di Dio e che si addormentava con il cilicio. A 8 anni avevo visto occupare e razziare Fagagna dall’affamatissimo esercito austro-ungarico a seguito della rotta di Caporetto e la miseria più nera regnava sovrana nella sua casa.
Dopo il servizio militare come Alpino del Battaglione Cividale, Sior Meni, si era sposato e aveva avuto il suo primo figlio, nel 1935 a 27 anni, un’età piuttosto avanzata per quel periodo e 5 anni dopo, nel 1941 fu richiamato alle armi destinato alla campagna di Russia.
Una caduta accidentale sulla piazza d’armi ghiacciata della caserma di Tarvisio gli causò una frattura alla gamba che all’Ospedale Militare non gli sistemarono molto bene, visto che i risultati delle cure lasciarono un uso non perfetto dell’arto per tutta la vita e quindi l’immediato congedo; circostanza che molto probabilmente gli permise comunque di vivere fino al 2001, avendo evitato così di salire sulle tradotte che portarono i suoi commilitoni nelle fatali pianure dell’Ucraina e della Russia meridionale.
Monarchico e anticomunista militante, dopo la guerra fervente sostenitore dello scudo crociato, aveva in profondo spregio tutto ciò che era riconducibile alla guerra partigiana condotta con il fazzoletto rosso al collo e fino in punto di morte non cessò mai di maledire le “gesta” dei partigiani che con i loro “attentati” provocavano la violenta reazione dei tedeschi sulla popolazione civile.
Sicuramente il possesso della tessera del partito fascista, sottoscritta in passato per aver diritto ad iscriversi nella corporazione di mestiere, non lo aveva fatto dormire sonni tranquilli quando alla fine della guerra bastava essere additati come fascisti dai più facinorosi tra i partigiani per rischiare di passare, come minimo, un brutto quarto d’ora.
In realtà  ciò che Sior Meni non poteva digerire dei partigiani era quel loro essere fuori dalle regole dell’Ordine costituito, quale questo fosse, e di muoversi rispondendo a principi non codificati e soprattutto, nel caso di quelli comunisti, di essere contro la Chiesa, intesa come Istituzione naturalmente; mal digeriva, anche se apertamente non lo diceva, anche la democrazia, perché secondo lui le cose potevano funzionare solo se le persone ubbidivano agli ordini di capi illuminati senza pensare troppo e la possibilità che la democrazia dà di contestare i superiori, a suo dire, era solo foriera di disordine e inefficienza.
Si comportò sempre in famiglia, fino in punto di morte, come se lui fosse il sovrano regnante a cui tutti dovevano il massimo rispetto e l’obbedienza assoluta, ipercritico con tutto e tutti, grandi e piccini dovevano stare in silenzio mentre lui parlava, senza naturalmente mai poterlo contraddire. Con sua moglie, poco incline al silenzio, invece erano sempre litigi furibondi, fino poi a piangerla senza sosta e venerarla come una Santa una volta prematuramente morta nel 1975 a 64 anni. Non era faticoso ricordare qualche gesto d’affetto o qualche parola gentile rivolata ai nipoti o alla nuora. Non ve ne furono mai. Qualcosa di più con la sua prima nipote bis nata nel 1998, quando lui ormai aveva 88 anni. All’esterno del suo Regno di Borgo Paludo fu invece sempre considerato e ancora ricordato da tutti come una persona “a modo”, gentile, educata, un buon cristiano e un responsabile padre di famiglia. E dalla grande cura per la propria persona: mai un abito fuori posto, sempre impeccabile. La versione italica di un perfetto lord inglese. Sempre in bolletta, ma un nelle forme un vero Signore. Sior Meni, appunto.

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