giovedì 16 novembre 2017

ITALIA FUORI DAI MONDIALI? FORSE BASTAVA LEGGERE LE BIOGRAFIE

Per la prima volta da quando sono al mondo la nazionale italiana di calcio non parteciperà ai campionati mondiali, nonostante il blasone dei suoi 4 titoli mondiali,  di cui l'ultimo datato appena 2006. Le ragioni di questo "fiasco" storico sicuramente sono molte e probabilmente la contaminazione di più fattori insieme ha generato l'insuccesso clamoroso che, peraltro fa seguito alle due già fallimentari partecipazioni a Sudafrica 2010 e Brasile 2014. A caldo si è sentito di tutto e di più: un C.T. inadeguato che ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare, un campionato con troppe squadre e troppi giocatori stranieri che tolgono spazio a quelli italiani già dalle squadre giovanili, un sistema che non impiega le risorse economiche in modo efficiente e lungimirante, premiando solo poche squadre e i portafogli di una ristretta casta di tecnici, dirigenti, procuratori e giocatori,  un presidente federale inadeguato che anche lui ha sbagliato tutto quello che poteva sbagliare, giocatori strapagati e incapaci di rappresentare degnamente il nostro calcio. Personalmente sono rimasto colpito dalle parole di Gigi Buffon che, in lacrime, al fine del match con la Svezia ha parlato anche di fallimento sociale; non so bene cosa volesse dire il nostro capitano ma quell'espressione ha messo in moto un pensiero ed un ragionamento nella mia "zucca." Ho ripensato ai campioni del 1982, alla mia infanzia e alla mia adolescenza quando la nazionale di calcio rappresentava, sul campo e non per blasone, un orgoglio della nazione. Leggete con attenzione le biografie dei vari Bearzot, Gentile, Zoff, Tardelli, Paolo Rossi ecc. ecc.; scoprirete storie di riscatto sociale e vite che si sono sviluppate tra la miseria e la grande voglia di fare del secondo dopoguerra mondiale e della prima riscossa economica, carriere sportive non nate nelle scuole calcio ma nei cortili delle scuole, dei campetti di periferia, nelle piazze di cittadine di provincia dove nessuno ti insegnava a forza il fuorigioco o come si fa una diagonale. Tutti figli della vera forza di sempre della nostra tribolata Italia: la piccola borghesia e la classe operaia. I genitori dei vari Cabrini, Bruno Conti, Altobelli e compagnia cantante si preoccupavano che i propri figli frequentassero le scuole e conseguissero un diploma, non che diventassero delle star del pallone. "Prima aiutare me, poi se avanza tempo si studia, ultimo ci si diverte." Questo era il mantra genitoriale di quel periodo. 
Leggete ora le biografie degli attuali giocatori professionisti italiani. Incarnano alla perfezione il declino di una società, della sua forza vitale e nel complesso di un modello socio-culturale. Mamme manager. Padri tifosi. Campetti, cortili, piazze vuote o dove sono riempite lo sono con i figli degli immigrati. I nostri ragazzi vanno alle scuole calcio con la macchina di mamma e papà che diligentemente poi li vanno a riprendere e poi magari la domenica ad urlare all'allenatore del figlio di essere un incapace perché non fa giocare il proprio pargolo. Oppure ad insultare l'arbitro. E tutt'attorno il profumo (o il puzzo?) del Dio Euro.
Mi chiedo se siamo seri quando ci meravigliamo che il nostro movimento calcistico è finito nella mediocrità. O se "ci siamo" o "lo facciamo" quando diciamo che la colpa della mancata qualificazione a Russia 2018 sia tutta di Ventura che non ha fatto giocare Insigne. O quando pensiamo che sarà sufficiente chiamare qualche santone strapagato e già carico di gloria sulla panchina azzurra per risorgere dalle ceneri.  
Solo in un paese in cui contano più gli amici degli amici invece del merito o del diritto anche e solo per rinnovare un passaporto in tempi ragionevoli, si può pensare che non è giusto che una nazione con quattro titoli mondiali sia esclusa dalla rassegna iridata a prescindere.
Forse con il blasone si farà ancora strada in Italia (vero Juve?) ma fuori, se non lo meriti, vincere è molto complicato. Non solo nello sport.
Forse ho esagerato. Forse è l'emotività del momento. O forse no.

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