Praga, 20 agosto 1968 - Le vacanze stanno per finire…
domani mattina si torna in Italia! Non nascondo che già provo nostalgia per
questi dieci giorni passati nella città di Kafka, nella capitale di Rodolfo II
d’Asburgo ed oggi nella città della speranza di Alexander Dubček.: in fondo
partire è sempre un po’ morire… anche quando lo si fa per tornare a casa e
riabbracciare i propri cari e riprendere la propria routine… Questa volta però è diverso, il
mio animo è in tumulto, avverte un’inquietudine particolare… che mi riporta
indietro… ai tempi della scuola, quando il gracchiare della campanella
annunciava la fine della ricreazione ed interrompeva bruscamente, senza
preavviso, l’anarchia ed i lazzi e tutti mestamente si rientrava, in ordine, in
classe ad attendere, in un’innaturale silenzio, il ritorno del maestro. Non mi dà particolare sollievo neppure l’idea
di poter raccontare a tutti gli altri amici le meraviglie viste e vissute in
questi giorni… tanto non capirebbero, non potrebbero capire, figuriamoci…
quando sei mesi fa dissi loro che
quest’anno sarei venuto a passare le vacanze estive a Praga, mi guardarono come
si può guardare un pazzo… “D’accordo che vuoi sempre nuotare contro la
corrente” … disse uno di loro… “ma questa volta cerchi proprio di annegare!”.
Già… tutti sognavano la sensuale Parigi, le calde spiagge spagnole
ed i più audaci addirittura si immaginavano “on the road”, in moto, sulle
strade della California… ed io invece no… determinato a varcare la cortina, per
spingermi nel mondo “sbagliato”… tra le braccia del nemico, rischiando magari
di essere arrestato come spia imperialista solo per aver scattato qualche foto
dalla collina di Hradčany.
In realtà, nulla mi affascinava
più di questo viaggio oltre le “colonne d’Ercole” del nostro tempo… entrare in
quella sorta di nebbia che avvolgeva, ai nostri occhi, tutte le terre ed i
paesi posti ad oriente di quella linea, purtroppo fisica e non immaginaria,
costituita dal filo spinato della cortina di ferro, che non solo tagliava in
due l’Europa, ma segnava il confine di due mondi non comunicanti e
contrapposti.
Dagli estemporanei visitatori
provenienti dal nostro mondo, per lo più persone che viaggiavano per motivi di
lavoro, avevo ascoltato le storie più stravaganti, che terminavano quasi sempre
con il racconto di improbabili congressi
“amorosi” con compiacenti bellezze statuarie dai capelli biondi, gli zigomi
alti, le bocche carnose, gli occhi celesti e le gambe lunghe e snelle, il cui
unico neo era rappresentato dalla toeletta personale approssimativa e dall’abbigliamento
scialbo.
Questo che il “viaggiatore”
ritornasse da Kiev, come da Bucarest o Varsavia, come da Sofia o da Budapest o
da Bratislava; luoghi e genti sparse su di un’area continentale con storie
nazionali e lingue anche profondamente diverse sembravano essersi uniformate su
di un unico schema che le appiattiva sulla stessa grigia esistenza; gran parte
di quei popoli che per secoli avevano vissuto insieme, guidati delle regole del
vecchio impero asburgico e che insieme avevano creato quella civiltà e quella
cultura che ancor oggi chiamiamo “mitteleuropea”, sembravano essere stati
inghiottiti dalla Storia, decretando ai nostri occhi non solo la loro “morte”, ma anche quella di
quella civiltà che si basava involontariamente sulla coesistenza e sull’interscambio
di culture in origine non comuni. In merito, ho sempre pensato che, in realtà,
se “loro” erano morti, “noi” eravamo diventati tutti orfani inconsolabili.
Mentre ero assorto in quei
pensieri così impegnativi e con malinconia osservavo, dalla terrazza della mia
camera affacciata su Vàclavske Nàměsti, i tetti, le guglie ed i campanili a
cipolla della città d’oro, triste all’idea che quella sarebbe stata l’ultima
giornata in cui mi sarei perso in quel labirinto che ribolliva di misteri e di
voglia di essere, qualcuno bussò alla porta ed il rumore sordo ed insistente
dei battiti ruppe bruscamente quello stato di strana sospensione in cui ero
caduto.
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