lunedì 6 novembre 2017

OUVERTURE PER UN TEMPO CHE NON PASSA MAI



Praga, 20 agosto 1968 - Le vacanze stanno per finire… domani mattina si torna in Italia! Non nascondo che già provo nostalgia per questi dieci giorni passati nella città di Kafka, nella capitale di Rodolfo II d’Asburgo ed oggi nella città della speranza di Alexander Dubček.: in fondo partire è sempre un po’ morire… anche quando lo si fa per tornare a casa e riabbracciare i propri cari e riprendere la propria routine… Questa volta però è diverso, il mio animo è in tumulto, avverte un’inquietudine particolare… che mi riporta indietro… ai tempi della scuola, quando il gracchiare della campanella annunciava la fine della ricreazione ed interrompeva bruscamente, senza preavviso, l’anarchia ed i lazzi e tutti mestamente si rientrava, in ordine, in classe ad attendere, in un’innaturale silenzio, il ritorno del maestro.  Non mi dà particolare sollievo neppure l’idea di poter raccontare a tutti gli altri amici le meraviglie viste e vissute in questi giorni… tanto non capirebbero, non potrebbero capire, figuriamoci… quando sei mesi fa dissi loro  che quest’anno sarei venuto a passare le vacanze estive a Praga, mi guardarono come si può guardare un pazzo… “D’accordo che vuoi sempre nuotare contro la corrente” … disse uno di loro… “ma questa volta cerchi proprio di annegare!”.
Già… tutti sognavano  la sensuale Parigi, le calde spiagge spagnole ed i più audaci addirittura si immaginavano “on the road”, in moto, sulle strade della California… ed io invece no… determinato a varcare la cortina, per spingermi nel mondo “sbagliato”… tra le braccia del nemico, rischiando magari di essere arrestato come spia imperialista solo per aver scattato qualche foto dalla collina di Hradčany.
In realtà, nulla mi affascinava più di questo viaggio oltre le “colonne d’Ercole” del nostro tempo… entrare in quella sorta di nebbia che avvolgeva, ai nostri occhi, tutte le terre ed i paesi posti ad oriente di quella linea, purtroppo fisica e non immaginaria, costituita dal filo spinato della cortina di ferro, che non solo tagliava in due l’Europa, ma segnava il confine di due mondi non comunicanti e contrapposti.
Dagli estemporanei visitatori provenienti dal nostro mondo, per lo più persone che viaggiavano per motivi di lavoro, avevo ascoltato le storie più stravaganti, che terminavano quasi sempre con  il racconto di improbabili congressi “amorosi” con compiacenti bellezze statuarie dai capelli biondi, gli zigomi alti, le bocche carnose, gli occhi celesti e le gambe lunghe e snelle, il cui unico neo era rappresentato dalla toeletta personale approssimativa e dall’abbigliamento scialbo.
Questo che il “viaggiatore” ritornasse da Kiev, come da Bucarest o Varsavia, come da Sofia o da Budapest o da Bratislava; luoghi e genti sparse su di un’area continentale con storie nazionali e lingue anche profondamente diverse sembravano essersi uniformate su di un unico schema che le appiattiva sulla stessa grigia esistenza; gran parte di quei popoli che per secoli avevano vissuto insieme, guidati delle regole del vecchio impero asburgico e che insieme avevano creato quella civiltà e quella cultura che ancor oggi chiamiamo “mitteleuropea”, sembravano essere stati inghiottiti dalla Storia, decretando ai nostri occhi  non solo la loro “morte”, ma anche quella di quella civiltà che si basava involontariamente sulla coesistenza e sull’interscambio di culture in origine non comuni. In merito, ho sempre pensato che, in realtà, se “loro” erano morti, “noi” eravamo diventati tutti orfani inconsolabili. 

Mentre ero assorto in quei pensieri così impegnativi e con malinconia osservavo, dalla terrazza della mia camera affacciata su Vàclavske Nàměsti, i tetti, le guglie ed i campanili a cipolla della città d’oro, triste all’idea che quella sarebbe stata l’ultima giornata in cui mi sarei perso in quel labirinto che ribolliva di misteri e di voglia di essere, qualcuno bussò alla porta ed il rumore sordo ed insistente dei battiti ruppe bruscamente quello stato di strana sospensione in cui ero caduto.

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