La verità nell'ombra
Ruben Martinez, pittore spagnolo e conoscitore d’arte, arrivò a Cividale del Friuli chiamato dall’arciprete don Corrado. Il mistero ruotava attorno a un dipinto enigmatico di Matteo Ponzone, esposto nel Duomo, come pala del primo altare laterale a destra. Ma non era solo l’arte a evocare domande. Pochi giorni prima del solstizio d’inverno, il custode del Museo Archeologico era stato trovato morto, riverso ai piedi del dipinto. Una scena inquietante che aveva lasciato la città sospesa tra paura e mormorii.
Don Corrado guidò Ruben attraverso le navate silenziose del Duomo. La luce del pomeriggio filtrava dalle vetrate, creando giochi di ombre che rendevano il luogo ancora più solenne.
"Lo hanno trovato qui," disse l’arciprete con un gesto verso il pavimento di fronte al quadro. "Giacomo Martinelli, il custode del Museo. Morto, apparentemente per un infarto. Ma c’è qualcosa di strano…"
Ruben scrutò il dipinto, cercando di ignorare il freddo che sembrava provenire dalle pietre stesse. La Madonna, in penombra, reggeva il Bambino che si protendeva verso San Giovanni Evangelista. Quest’ultimo dominava la scena con le sue fattezze quasi androgine, la coppa tra le mani e il serpente che si affacciava dal bordo. Il gesto di San Cristoforo, che indicava la coppa dall’ombra del colonnato, e la sofferenza di Papa Marcello accasciato sotto il peso di un segreto che il Vescovo Zenone sembrava custodire, completavano l’atmosfera tesa del dipinto.
"Non credo che Ponzone abbia dipinto solo per la gloria divina," mormorò Ruben.
"Crede che ci sia un messaggio nascosto?" chiese don Corrado.
"Ogni dettaglio parla," rispose Ruben, avvicinandosi alla tela per osservarla meglio. "La luce, l’ombra, persino i volti… sembrano raccontare una storia diversa."
Mentre studiava il quadro, un dettaglio attirò l’attenzione di Ruben: nella coppa tenuta da San Giovanni, il serpente sembrava avvolgersi attorno a un simbolo. Sembrava un intreccio, simile a un sigillo. Ruben prese appunti, deciso a studiarlo più tardi.
Don Corrado lo interruppe. "Non è tutto. La notte in cui Giacomo è morto, qualcuno ha detto di aver sentito un suono… un canto sommesso, come un coro distante."
Ruben si voltò, sorpreso. "Un canto?"
"L’ho sentito anch’io," ammise don Corrado. "Ma sembrava impossibile. Non c’era nessuno in chiesa a quell’ora."
Il pittore non rispose. Iniziava a sospettare che il quadro non fosse solo un’opera enigmatica, ma un catalizzatore. Qualcosa di antico sembrava annidarsi in quel luogo.
La sera Ruben tornò al Duomo da solo, portando con sé una piccola lampada e i suoi strumenti di disegno. Voleva studiare meglio il dipinto e cercare tracce di pigmenti nascosti o dettagli che la luce naturale non rivelava.
Mentre lavorava, notò un’insolita traccia sul bordo inferiore della tela, come se qualcuno avesse toccato il dipinto con dita sporche di cera. Era recente. Un movimento dietro di lui lo fece sobbalzare, ma quando si voltò non vide nulla.
Il silenzio era totale, ma Ruben sentì una vibrazione, un eco che sembrava provenire dalle fondamenta del Duomo. Si concentrò sul lavoro, ma i suoi pensieri tornavano al custode trovato morto. Aveva forse scoperto qualcosa?
San Giorgio in Vado
Ruben Martinez, pittore spagnolo e conoscitore d’arte, arrivò a Cividale del Friuli chiamato dall’arciprete don Corrado. Il mistero ruotava attorno a un dipinto enigmatico di Matteo Ponzone, esposto nel Duomo, come pala del primo altare laterale a destra. Ma non era solo l’arte a evocare domande. Pochi giorni prima del solstizio d’inverno, il custode del Museo Archeologico era stato trovato morto, riverso ai piedi del dipinto. Una scena inquietante che aveva lasciato la città sospesa tra paura e mormorii.
Don Corrado guidò Ruben attraverso le navate silenziose del Duomo. La luce del pomeriggio filtrava dalle vetrate, creando giochi di ombre che rendevano il luogo ancora più solenne.
"Lo hanno trovato qui," disse l’arciprete con un gesto verso il pavimento di fronte al quadro. "Giacomo Martinelli, il custode del Museo. Morto, apparentemente per un infarto. Ma c’è qualcosa di strano…"
Ruben scrutò il dipinto, cercando di ignorare il freddo che sembrava provenire dalle pietre stesse. La Madonna, in penombra, reggeva il Bambino che si protendeva verso San Giovanni Evangelista. Quest’ultimo dominava la scena con le sue fattezze quasi androgine, la coppa tra le mani e il serpente che si affacciava dal bordo. Il gesto di San Cristoforo, che indicava la coppa dall’ombra del colonnato, e la sofferenza di Papa Marcello accasciato sotto il peso di un segreto che il Vescovo Zenone sembrava custodire, completavano l’atmosfera tesa del dipinto.
"Non credo che Ponzone abbia dipinto solo per la gloria divina," mormorò Ruben.
"Crede che ci sia un messaggio nascosto?" chiese don Corrado.
"Ogni dettaglio parla," rispose Ruben, avvicinandosi alla tela per osservarla meglio. "La luce, l’ombra, persino i volti… sembrano raccontare una storia diversa."
Mentre studiava il quadro, un dettaglio attirò l’attenzione di Ruben: nella coppa tenuta da San Giovanni, il serpente sembrava avvolgersi attorno a un simbolo. Sembrava un intreccio, simile a un sigillo. Ruben prese appunti, deciso a studiarlo più tardi.
Don Corrado lo interruppe. "Non è tutto. La notte in cui Giacomo è morto, qualcuno ha detto di aver sentito un suono… un canto sommesso, come un coro distante."
Ruben si voltò, sorpreso. "Un canto?"
"L’ho sentito anch’io," ammise don Corrado. "Ma sembrava impossibile. Non c’era nessuno in chiesa a quell’ora."
Il pittore non rispose. Iniziava a sospettare che il quadro non fosse solo un’opera enigmatica, ma un catalizzatore. Qualcosa di antico sembrava annidarsi in quel luogo.
La sera Ruben tornò al Duomo da solo, portando con sé una piccola lampada e i suoi strumenti di disegno. Voleva studiare meglio il dipinto e cercare tracce di pigmenti nascosti o dettagli che la luce naturale non rivelava.
Mentre lavorava, notò un’insolita traccia sul bordo inferiore della tela, come se qualcuno avesse toccato il dipinto con dita sporche di cera. Era recente. Un movimento dietro di lui lo fece sobbalzare, ma quando si voltò non vide nulla.
Il silenzio era totale, ma Ruben sentì una vibrazione, un eco che sembrava provenire dalle fondamenta del Duomo. Si concentrò sul lavoro, ma i suoi pensieri tornavano al custode trovato morto. Aveva forse scoperto qualcosa?
San Giorgio in Vado
Il giorno seguente, Ruben visitò l’antico complesso che un tempo ospitava il convento di San Giorgio in Vado, ora trasformato in fattoria didattica. Qui incontrò Guido, il proprietario, che gli mostrò la cappella rimasta in piedi, adornata con un ciclo di affreschi del XIV secolo. Tra le scene sacre, una catturò l’attenzione di Ruben: l’assassinio di Tommaso Becket.
La raffigurazione del martirio era brutale e realistica. Ma ciò che colpì Ruben fu l’insolito simbolo dipinto accanto alla spada del cavaliere: lo stesso sigillo che aveva notato nel dipinto di Ponzone.
"Sa qualcosa di questa scena?" chiese Ruben a Guido.
"Non molto," rispose l’uomo. "Si dice che sia stata aggiunta durante una restaurazione antica, ma nessuno ha mai saputo spiegare il simbolo. Forse un errore."
Ruben sapeva che non era un errore. Il sigillo era un legame tra i due luoghi, un filo conduttore che univa il dipinto nel Duomo alla storia dimenticata del convento.
Tornato al Duomo, Ruben iniziò a collegare i pezzi. La scena del dipinto, il simbolo nella coppa, il canto misterioso. E ora, l’assassinio di Becket negli affreschi del convento. La figura di San Giovanni Evangelista, con la sua ambiguità, era al centro di tutto.
Poi lo colpì un pensiero: il custode Giacomo Martinelli potrebbe aver intuito qualcosa. Forse aveva riconosciuto il simbolo o trovato un documento che spiegava il collegamento. Ma qualcuno o qualcosa lo aveva fermato.
Quella notte Ruben tornò al dipinto con una nuova consapevolezza. Usando una luce ultravioletta, scoprì che Ponzone aveva lasciato un altro dettaglio nascosto: una scritta appena visibile lungo il bordo della tela.
"La luce è eterna, ma l'ombra custodisce la verità."
Ruben capì che non era solo un quadro. Era un enigma. Ma quanto era disposto a rischiare per svelarlo?
La Polizia archivia
Ruben Martinez si trovava ancora davanti al dipinto, con le mani tremanti per l’eccitazione. Il messaggio criptico che aveva scoperto nella pittura di Ponzone sembrava confermare i suoi sospetti: la morte di Giacomo Martinelli non era stata un semplice incidente. Ma ogni passo avanti nella risoluzione del mistero sembrava aprire nuove porte, più oscure e spaventose.
Giacomo Martinelli era stato il custode del Museo Archeologico di Cividale per più di vent’anni. Un uomo solitario, con pochi amici e una passione per le storie antiche. Passava ore nelle sale del museo, immerso nei testi e negli artefatti, quasi fosse alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui riusciva a definire. Don Corrado lo conosceva bene: Martinelli era un assiduo frequentatore del Duomo e aveva una curiosa fissazione per il dipinto di Ponzone.
"Era un uomo silenzioso," raccontò don Corrado a Ruben mentre passeggiavano nel chiostro del Duomo. "Ma ogni tanto si apriva con me. Era convinto che ci fosse un significato nascosto nel quadro. Parlava di un collegamento con il vecchio convento di San Giorgio e con alcuni documenti che aveva trovato negli archivi del Museo. Ma non sono mai riuscito a capire cosa intendesse."
"Credeva che fosse qualcosa di importante?" chiese Ruben.
"Molto importante. Mi disse che se avesse trovato ciò che cercava, avrebbe potuto cambiare la storia."
Questa frase riecheggiava nella mente di Ruben. Cosa poteva essere così significativo da portare qualcuno a uccidere? Perché, ormai, Ruben era convinto che la morte di Martinelli non fosse stata naturale.
La mattina successiva, Ruben fu convocato dal commissario di polizia, Irene Boschi. Una donna alta, dal portamento sicuro e dai modi sbrigativi, lo attendeva nella sua stanza d’ufficio presso la piccola stazione di polizia locale.
"Signor Martinez," iniziò con tono calmo ma fermo, "ho letto il suo rapporto e ho parlato con don Corrado. Apprezzo il suo entusiasmo, ma temo che stia andando fuori strada."
Ruben sollevò un sopracciglio. "Non mi sembra così. Martinelli era un uomo in salute, e la sua morte è avvenuta in circostanze troppo particolari per essere ignorate."
"Le circostanze sono particolari solo nella sua immaginazione," ribatté Boschi. "L’autopsia ha confermato che è morto per un infarto. Non ci sono segni di violenza o di altro genere. Capisco che il dipinto possa essere affascinante, ma stiamo parlando di un uomo anziano con una vita sedentaria."
"Anche se fosse stato un infarto," insistette Ruben, "cosa faceva Martinelli nel Duomo a quell’ora? E perché ai piedi di quel quadro? Non può essere una coincidenza."
Boschi lo guardò con un sorriso di cortesia, ma il tono della sua voce si fece più secco. "Le coincidenze esistono, signor Martinez. Capisco che siate un artista, e forse la vostra sensibilità vi porta a cercare significati ovunque. Ma non siamo in un romanzo giallo. Non ho intenzione di disperdere risorse per inseguire fantasmi."
Ruben si alzò di scatto. "E se invece fossero ombre concrete?"
La donna scrollò le spalle. "Se trova delle prove, sono pronta ad ascoltarle. Ma finché non ne ha, questo rimane un caso di morte naturale."
Ruben lasciò l’ufficio della polizia frustrato, ma non scoraggiato. Non si fidava della lettura superficiale della situazione fatta dal commissario. Sapeva che doveva scavare più a fondo.
La pergamena
Quella sera tornò al Duomo. Con l’aiuto di don Corrado, che ormai condivideva il suo scetticismo verso la versione ufficiale, Ruben cercò nei registri della chiesa.
"Martinelli passava molto tempo qui negli ultimi mesi," disse don Corrado, sfogliando un libro delle visite. "Non solo durante il giorno. Veniva spesso di notte, da solo."
"Che faceva?"
"Lavorava sugli archivi della parrocchia, o almeno così diceva."
Poi don Corrado si fermò su una pagina e indicò un’annotazione. "Guarda questo."
Ruben si avvicinò. L’annotazione, scritta di pugno da Martinelli, riportava un riferimento enigmatico: "Codice XIII, Nicchia di San Cristoforo. La verità si cela sotto il serpente."
"Che significa?" chiese Ruben.
"Non lo so," rispose l’arciprete, "ma la nicchia di San Cristoforo è proprio quella del dipinto di Ponzone."
Ruben e don Corrado si recarono immediatamente presso la Pala del Ponzone. Con una torcia e alcuni strumenti, Ruben iniziò a esaminare attentamente la cornice del dipinto. Dopo un’ora di ricerca, trovò una piccola incisione sul retro della cornice, nascosta da uno strato di polvere e cera.
Era un altro sigillo, identico a quello dipinto nella coppa di San Giovanni Evangelista. Ruben lo sfiorò con le dita, sentendo il freddo del metallo sotto di sé. Con uno scalpello delicato, riuscì a rimuoverlo. Dietro il sigillo, c’era una piccola cavità scavata nel legno.
Dentro, un rotolo di pergamena.
Ruben lo aprì con cautela. Era scritto in latino, e le parole erano difficili da decifrare, ma un passaggio colpì subito la sua attenzione: "La luce eterna non splende nel cielo, ma tra le mani di chi osa cercare. Giovanni non è solo un santo: è il custode della coppa della verità."
Il cuore di Ruben batteva forte. Quello non era un semplice dipinto. Era la chiave di un segreto custodito per secoli, un enigma che qualcuno era disposto a uccidere per proteggere.
"Don Corrado," mormorò Ruben, "abbiamo appena trovato qualcosa di molto pericoloso."
La raffigurazione del martirio era brutale e realistica. Ma ciò che colpì Ruben fu l’insolito simbolo dipinto accanto alla spada del cavaliere: lo stesso sigillo che aveva notato nel dipinto di Ponzone.
"Sa qualcosa di questa scena?" chiese Ruben a Guido.
"Non molto," rispose l’uomo. "Si dice che sia stata aggiunta durante una restaurazione antica, ma nessuno ha mai saputo spiegare il simbolo. Forse un errore."
Ruben sapeva che non era un errore. Il sigillo era un legame tra i due luoghi, un filo conduttore che univa il dipinto nel Duomo alla storia dimenticata del convento.
Tornato al Duomo, Ruben iniziò a collegare i pezzi. La scena del dipinto, il simbolo nella coppa, il canto misterioso. E ora, l’assassinio di Becket negli affreschi del convento. La figura di San Giovanni Evangelista, con la sua ambiguità, era al centro di tutto.
Poi lo colpì un pensiero: il custode Giacomo Martinelli potrebbe aver intuito qualcosa. Forse aveva riconosciuto il simbolo o trovato un documento che spiegava il collegamento. Ma qualcuno o qualcosa lo aveva fermato.
Quella notte Ruben tornò al dipinto con una nuova consapevolezza. Usando una luce ultravioletta, scoprì che Ponzone aveva lasciato un altro dettaglio nascosto: una scritta appena visibile lungo il bordo della tela.
"La luce è eterna, ma l'ombra custodisce la verità."
Ruben capì che non era solo un quadro. Era un enigma. Ma quanto era disposto a rischiare per svelarlo?
La Polizia archivia
Ruben Martinez si trovava ancora davanti al dipinto, con le mani tremanti per l’eccitazione. Il messaggio criptico che aveva scoperto nella pittura di Ponzone sembrava confermare i suoi sospetti: la morte di Giacomo Martinelli non era stata un semplice incidente. Ma ogni passo avanti nella risoluzione del mistero sembrava aprire nuove porte, più oscure e spaventose.
Giacomo Martinelli era stato il custode del Museo Archeologico di Cividale per più di vent’anni. Un uomo solitario, con pochi amici e una passione per le storie antiche. Passava ore nelle sale del museo, immerso nei testi e negli artefatti, quasi fosse alla ricerca di qualcosa che nemmeno lui riusciva a definire. Don Corrado lo conosceva bene: Martinelli era un assiduo frequentatore del Duomo e aveva una curiosa fissazione per il dipinto di Ponzone.
"Era un uomo silenzioso," raccontò don Corrado a Ruben mentre passeggiavano nel chiostro del Duomo. "Ma ogni tanto si apriva con me. Era convinto che ci fosse un significato nascosto nel quadro. Parlava di un collegamento con il vecchio convento di San Giorgio e con alcuni documenti che aveva trovato negli archivi del Museo. Ma non sono mai riuscito a capire cosa intendesse."
"Credeva che fosse qualcosa di importante?" chiese Ruben.
"Molto importante. Mi disse che se avesse trovato ciò che cercava, avrebbe potuto cambiare la storia."
Questa frase riecheggiava nella mente di Ruben. Cosa poteva essere così significativo da portare qualcuno a uccidere? Perché, ormai, Ruben era convinto che la morte di Martinelli non fosse stata naturale.
La mattina successiva, Ruben fu convocato dal commissario di polizia, Irene Boschi. Una donna alta, dal portamento sicuro e dai modi sbrigativi, lo attendeva nella sua stanza d’ufficio presso la piccola stazione di polizia locale.
"Signor Martinez," iniziò con tono calmo ma fermo, "ho letto il suo rapporto e ho parlato con don Corrado. Apprezzo il suo entusiasmo, ma temo che stia andando fuori strada."
Ruben sollevò un sopracciglio. "Non mi sembra così. Martinelli era un uomo in salute, e la sua morte è avvenuta in circostanze troppo particolari per essere ignorate."
"Le circostanze sono particolari solo nella sua immaginazione," ribatté Boschi. "L’autopsia ha confermato che è morto per un infarto. Non ci sono segni di violenza o di altro genere. Capisco che il dipinto possa essere affascinante, ma stiamo parlando di un uomo anziano con una vita sedentaria."
"Anche se fosse stato un infarto," insistette Ruben, "cosa faceva Martinelli nel Duomo a quell’ora? E perché ai piedi di quel quadro? Non può essere una coincidenza."
Boschi lo guardò con un sorriso di cortesia, ma il tono della sua voce si fece più secco. "Le coincidenze esistono, signor Martinez. Capisco che siate un artista, e forse la vostra sensibilità vi porta a cercare significati ovunque. Ma non siamo in un romanzo giallo. Non ho intenzione di disperdere risorse per inseguire fantasmi."
Ruben si alzò di scatto. "E se invece fossero ombre concrete?"
La donna scrollò le spalle. "Se trova delle prove, sono pronta ad ascoltarle. Ma finché non ne ha, questo rimane un caso di morte naturale."
Ruben lasciò l’ufficio della polizia frustrato, ma non scoraggiato. Non si fidava della lettura superficiale della situazione fatta dal commissario. Sapeva che doveva scavare più a fondo.
La pergamena
Quella sera tornò al Duomo. Con l’aiuto di don Corrado, che ormai condivideva il suo scetticismo verso la versione ufficiale, Ruben cercò nei registri della chiesa.
"Martinelli passava molto tempo qui negli ultimi mesi," disse don Corrado, sfogliando un libro delle visite. "Non solo durante il giorno. Veniva spesso di notte, da solo."
"Che faceva?"
"Lavorava sugli archivi della parrocchia, o almeno così diceva."
Poi don Corrado si fermò su una pagina e indicò un’annotazione. "Guarda questo."
Ruben si avvicinò. L’annotazione, scritta di pugno da Martinelli, riportava un riferimento enigmatico: "Codice XIII, Nicchia di San Cristoforo. La verità si cela sotto il serpente."
"Che significa?" chiese Ruben.
"Non lo so," rispose l’arciprete, "ma la nicchia di San Cristoforo è proprio quella del dipinto di Ponzone."
Ruben e don Corrado si recarono immediatamente presso la Pala del Ponzone. Con una torcia e alcuni strumenti, Ruben iniziò a esaminare attentamente la cornice del dipinto. Dopo un’ora di ricerca, trovò una piccola incisione sul retro della cornice, nascosta da uno strato di polvere e cera.
Era un altro sigillo, identico a quello dipinto nella coppa di San Giovanni Evangelista. Ruben lo sfiorò con le dita, sentendo il freddo del metallo sotto di sé. Con uno scalpello delicato, riuscì a rimuoverlo. Dietro il sigillo, c’era una piccola cavità scavata nel legno.
Dentro, un rotolo di pergamena.
Ruben lo aprì con cautela. Era scritto in latino, e le parole erano difficili da decifrare, ma un passaggio colpì subito la sua attenzione: "La luce eterna non splende nel cielo, ma tra le mani di chi osa cercare. Giovanni non è solo un santo: è il custode della coppa della verità."
Il cuore di Ruben batteva forte. Quello non era un semplice dipinto. Era la chiave di un segreto custodito per secoli, un enigma che qualcuno era disposto a uccidere per proteggere.
"Don Corrado," mormorò Ruben, "abbiamo appena trovato qualcosa di molto pericoloso."
Il pozzo di Callisto
Ruben Martinez srotolò lentamente la pergamena, il respiro sospeso. La carta antica, macchiata dal tempo e dal silenzio, portava con sé una promessa di enigmi e pericoli. Al centro c’era una mappa, tracciata con linee sottili e sfuggenti che delineavano il territorio di Cividale e i suoi dintorni. Accanto, un testo in latino, ricco di simboli e allegorie.
"Colui che cerca la luce seguirà il cammino oscuro, dal Pozzo di Callisto all’ombra della collina dei Re. Là dove il serpente dorme, il sapere giace sepolto."
Don Corrado si fece il segno della croce. "Il Pozzo di Callisto… si trova dietro il Duomo. È lì da secoli."
Ruben guardò la mappa. Il percorso tracciato si spingeva dalla posizione del Duomo verso nord-ovest, fino alla collina dove un tempo sorgeva il Castello di Zuccola. "E la collina dei Re?"
"Là sorgeva il maniero di Zuccola," spiegò don Corrado. "Un castello che dominava la città e distrutto nel XIV secolo dalle truppe del Patriarca di Aquileia. Non ne rimane nulla, solo qualche pietra in mezzo al bosco e qualche leggenda."
"Leggende?"
"L’antica tradizione popolare parla di cunicoli sotterranei che collegavano il castello a diversi punti della città. Nessuno li ha mai trovati, ma la mappa…" Corrado indicò la pergamena. "Potrebbe essere la chiave."
Ruben non dormì quella notte. Nella stanza dell’agriturismo che si affacciava sui resti del convento di San Giorgio in Vado, la pergamena era stesa sul tavolo, illuminata da una lampada fioca. L’artista tracciò mentalmente il percorso indicato: dal Pozzo di Callisto, il sentiero sembrava dirigersi verso un punto preciso sotto la collina del castello.
Il testo allegorico parlava di un cammino oscuro e di un serpente che dorme. Ruben si chiedeva se questi elementi avessero un significato simbolico o pratico. Il serpente, già presente nel dipinto di Ponzone, sembrava essere il centro del mistero.
La mattina seguente, decise di iniziare dal Pozzo di Callisto.
Il pozzo si trovava in un angolo appartato dietro l’abside del Duomo e il palazzo del Museo, in cima ad una scalinata che conduceva alle Mura dell’antico monastero delle suore Orsoline. Ruben, con don Corrado al suo fianco, osservò la struttura antica. Sul bordo, incise nella pietra, c’erano iscrizioni consunte dal tempo. Una frase in latino attirò la sua attenzione:
"In tenebris lucet lux, sed viae sub aquis latent."
(La luce splende nelle tenebre, ma i sentieri si nascondono sotto l’acqua.)
"Sotto l’acqua?" chiese Ruben, accovacciandosi per guardare meglio.
"Un’altra allegoria," disse Corrado. "O forse un’indicazione letterale."
Ruben decise di calare una torcia elettrica legata a una corda dentro il pozzo. La luce illuminò le pareti scivolose, fino a rivelare qualcosa di inaspettato: un’apertura laterale, nascosta tra le ombre.
"È un passaggio," disse Ruben, con gli occhi che brillavano di eccitazione.
Con l’aiuto di Guido, il proprietario dell’agriturismo, Ruben e don Corrado riuscirono a calarsi nel pozzo. L’apertura conduceva a uno stretto cunicolo. L’aria era umida, e l’odore di terra e muffa rendeva difficile respirare. Ruben si fece strada con una torcia, mentre i passi risuonavano sordi nel silenzio.
Il cunicolo sembrava seguire il percorso indicato sulla mappa. A un certo punto, trovarono un piccolo altare scavato nella roccia. Sopra, un’incisione rappresentava un serpente avvolto attorno a una coppa, lo stesso simbolo visto nel dipinto di Ponzone.
"Stiamo andando nella direzione giusta," disse Ruben.
Il cammino continuava, tortuoso e in salita, fino a raggiungere una vasta cavità che sembrava appartenere a una struttura più grande. Le pareti erano rivestite di pietra lavorata, e Ruben capì che si trovavano nei sotterranei di quello che un tempo era il castello di Zuccola.
Al centro della stanza, c’era un’altra nicchia con una coppa in pietra, simile a quella nel dipinto. Dentro, un liquido scuro e denso emanava un odore pungente. Sopra la nicchia, incisa in lettere antiche, c’era una frase:
"Il sapere è un veleno per chi non è degno."
Ruben si avvicinò con cautela. Sentiva il peso della storia che lo circondava, il legame tra quel luogo, il dipinto, e il destino di Giacomo Martinelli.
"Forse Martinelli è arrivato qui," mormorò. "Forse ha scoperto qualcosa che non avrebbe dovuto."
Don Corrado si fece il segno della croce. "E se fosse stato punito per questo? Il serpente non è solo un simbolo: è un avvertimento."
Mentre Ruben osservava la coppa, un’idea lo colpì. Forse il sapere nascosto lì non era un semplice oggetto o un segreto banale. Forse era qualcosa che poteva cambiare tutto ciò che si sapeva sul passato di Cividale, della Chiesa, e delle verità custodite nei secoli.
Ma mentre i due uomini contemplavano il significato di ciò che avevano trovato, un rumore improvviso risuonò nel cunicolo alle loro spalle. Qualcuno li stava seguendo. E non era mosso da intenzioni amichevoli.
Non siamo soli
Ruben e don Corrado si voltarono di scatto, le torce tremolanti che illuminavano il buio alle loro spalle. Tre figure emersero dall'oscurità del cunicolo, avanzando lentamente. Le prime due erano giovani, con capelli raccolti sotto scialli neri, il volto pallido e serio. Camminavano con passo sicuro, come se conoscessero bene il luogo. Dietro di loro, in abiti civili, seguiva il commissario Irene Boschi.
"Commissario?" esclamò Ruben, incredulo.
Boschi non rispose subito. I suoi occhi si posavano sulla coppa al centro della stanza, quasi ignorando la sorpresa dell'artista. Quando finalmente parlò, il tono della sua voce era calmo, ma carico di sottintesi.
"Non pensavate davvero che vi avrei lasciati vagare da soli in questo labirinto, vero?" disse, accennando un sorriso sottile. "Voi due sembrate attrarre i guai, e io odio lasciare le cose a metà."
Ruben si avvicinò a un passo da lei, puntando la torcia contro il pavimento. "Cosa significa tutto questo? E loro chi sono?" indicò le due giovani donne.
Boschi alzò lo sguardo verso di loro. "Loro mi aiutano. È tutto quello che dovete sapere per ora."
Don Corrado era più esitante. Fece il segno della croce e si rivolse a Boschi. "Commissario, questo luogo è sacro… o maledetto. Non dovremmo essere qui."
Boschi lo fissò con un’espressione di calma autoritaria. "Padre, è proprio per questo che siamo qui. Non vi rendete conto di cosa rappresenta questo posto? Di cosa avete trovato?"
Ruben, ancora diffidente, incrociò le braccia. "Sembra che sappia più di quanto abbia voluto ammettere in precedenza."
Boschi sospirò. "Ci sono storie, Martinez. Storie che la gente di Cividale racconta sottovoce. Parlo delle leggende che circondano il Castello di Zuccola, il convento di San Giorgio, e sì, anche il Duomo. Ma non sono solo storie, vero? Sono frammenti di una verità più grande. Una verità che qualcuno ha cercato di seppellire per secoli."
"Come mai ne sa così tanto?" chiese Ruben.
Boschi fece un passo avanti, osservando attentamente la coppa di pietra al centro della stanza. "Mio nonno lavorava nel Museo Archeologico. Mi raccontava sempre del custode del sapere, un segreto che nessuno avrebbe dovuto cercare. Eppure, il suo interesse era più forte del buon senso." Guardò Ruben. "Mi ha trasmesso quella curiosità. Ma poi Giacomo Martinelli è morto, e mi sono accorta che quel segreto è pericoloso."
Ruben si chinò sulla coppa, osservando il liquido scuro al suo interno. "Questo segreto è legato al serpente, alla coppa e alla mappa. Ma perché le leggende di Cividale dovrebbero essere così pericolose?"
Boschi alzò un dito per zittirlo, mentre una delle due giovani donne si avvicinò al tavolo di pietra, portando con sé una candela accesa. Le sue mani erano ferme, il volto inespressivo. Posò la candela accanto alla coppa e poi si rivolse a Ruben e Corrado.
"Ciò che cercate non vi appartiene," disse, con una voce calma e distante.
Don Corrado sgranò gli occhi. "Chi siete voi?"
L’altra giovane si avvicinò, il volto serio come quello della prima. "Siamo custodi. Da generazioni proteggiamo i segreti di questo luogo. Quando Giacomo Martinelli ha trovato la mappa, sapevamo che sarebbe stato solo l’inizio."
Boschi, che fino a quel momento aveva mantenuto una certa distanza emotiva, si voltò verso Ruben. "Capite ora perché dovevo seguirvi? Non potevo lasciare che questa storia prendesse una piega incontrollata. Non mi fido nemmeno di loro."
"Nemmeno di noi?" rispose una delle giovani. "Ma senza di noi non saresti mai arrivata qui."
La tensione aumentò, palpabile come l’umidità nel sotterraneo. Ruben osservava il liquido nella coppa e le donne intorno a lui, cercando di mettere ordine nei pensieri. La coppa era più di un simbolo: sembrava contenere qualcosa di fisico e concreto, ma anche intriso di una potenza oscura, come se fosse stata al centro di rituali o conoscenze proibite.
"Martinelli ha trovato la mappa," disse Ruben, cercando di collegare i fili. "E probabilmente è arrivato fin qui. Ma cosa ha scoperto?"
Boschi scosse la testa. "Non lo sapremo mai. Ma io voglio capirlo, Ruben. E se per farlo devo andare contro ogni regola, lo farò."
Le due giovani donne si scambiarono uno sguardo, poi una di loro si avvicinò ancora di più alla coppa. "La verità che cercate non è per voi," disse con un tono definitivo.
Ma prima che potesse fare altro, un rumore sordo risuonò nel cunicolo. Un'eco inquietante che fece voltare tutti verso l'oscurità. Non erano soli.
Manzoni
Dal buio del cunicolo emerse una figura, avanzando con passi lenti e deliberati. La luce tremolante delle torce rivelò il volto del direttore del Museo Archeologico, Federico Manzoni. Indossava un lungo cappotto scuro, e il suo viso era impassibile, come se avesse pianificato quell’incontro da tempo.
"Manzoni!" esclamò don Corrado, sorpreso. "Cosa ci fa qui?"
Il direttore sorrise freddamente. "Padre, ci sono segreti che non possono essere lasciati nelle mani sbagliate. E sembra che voi abbiate avuto la sfortuna di imbattervi in uno dei più pericolosi."
Ruben lo fissò con sospetto. "E lei come lo sa, direttore? Cosa sta cercando?"
Manzoni avanzò fino a posizionarsi accanto alla coppa, i suoi occhi che brillavano nel buio come se il liquido oscuro lo ipnotizzasse. "Quello che sto cercando, Martinez, è la verità. La stessa che Giacomo Martinelli ha osato scoprire. Ma lui non era degno. Io sì."
Boschi intervenne, con il tono tagliente che usava nelle interrogazioni. "Degno di cosa, Manzoni? Si spieghi."
Manzoni si voltò verso di lei, il sorriso appena accennato. "Temo che la spiegazione superi ciò che voi potete comprendere, commissario. Ma visto che insistete…"
Si fermò, quasi a voler creare un effetto drammatico. Poi continuò: "Da anni sono affiliato a un ordine che molti credono scomparso: i Nuovi Cavalieri Templari. Non siamo come quelli delle leggende. Non cerchiamo oro o gloria. Il nostro scopo è preservare le conoscenze antiche, quelle che la Chiesa e i poteri mondani hanno tentato di cancellare per secoli."
Ruben osservava Manzoni con crescente inquietudine. "E cosa c’entra questa coppa con il suo ordine?"
Manzoni indicò il simbolo del serpente inciso sulla pietra. "Questo non è solo un simbolo. È un sigillo. E questa coppa non è una reliquia qualunque. È l’ultimo frammento di un sapere perduto, custodito dai templari originali prima che fossero distrutti. Un sapere che può cambiare tutto ciò che crediamo di sapere sulla fede, sulla storia e sul potere."
Don Corrado scosse la testa, allarmato. "Questa è blasfemia! Non avete alcun diritto di interferire con ciò che appartiene alla Chiesa!"
Manzoni rise, una risata breve e tagliente. "La Chiesa, padre? La stessa Chiesa che ha distrutto il Castello di Zuccola per seppellire questi segreti? La stessa che ha scacciato le monache di San Giorgio quando hanno scoperto troppo? Non mi faccia ridere."
Boschi avanzò, posizionandosi tra Manzoni e la coppa. "Qualunque cosa creda di sapere, direttore, questa non è una giustificazione per intralciare un’indagine ufficiale. Martinelli è morto, e io devo capire perché."
Manzoni la guardò con compassione, quasi con pena. "Martinelli è morto perché era curioso, ma non aveva una guida. Non era parte dell’Ordine. Non avrebbe mai dovuto mettere piede qui."
"Lo ha ucciso lei?" chiese Ruben, sfidandolo apertamente.
Manzoni scosse la testa. "Non direttamente. Ma ho fatto in modo che la sua curiosità fosse il suo stesso nemico."
Boschi strinse i pugni, ma prima che potesse reagire, una delle due giovani donne che accompagnavano il commissario parlò. "Direttore Manzoni, non ci interessa la sua affiliazione. Il nostro compito è proteggere questo luogo, e se necessario, impedire che chiunque se ne appropri."
"Proteggere?" rispose Manzoni, alzando un sopracciglio. "Proteggere da chi? Da voi stesse? O da chi, come me, potrebbe usare questo sapere per il bene dell’umanità?"
Ruben si rese conto che la tensione stava crescendo. Le parole di Manzoni erano calcolate, ma c’era una sfumatura di fanatismo che lo rendeva pericoloso. Cercando di riportare l’attenzione sul mistero, si avvicinò alla coppa.
"Qualunque sia la verità," disse Ruben, "non possiamo ignorare che questa coppa e ciò che contiene sono simboli di qualcosa di più grande. Ma la domanda è: è una verità che deve essere rivelata, o sepolta per sempre?"
Manzoni si voltò verso di lui, con un’espressione quasi compassionevole. "Martinez, lei è un artista. Dovrebbe capire che la verità non può essere rinchiusa. È destinata a venire alla luce, in un modo o nell’altro."
Il momento fu spezzato da un rumore improvviso. Qualcosa si mosse nelle profondità del cunicolo, come se il luogo stesso rispondesse alla presenza di troppi estranei. La terra tremò leggermente, e un soffio di aria umida e gelida attraversò la stanza.
Boschi estrasse la pistola dalla fondina, puntandola verso l’oscurità. "Cosa diavolo è stato?"
Manzoni sorrise. "Forse il luogo ci sta dicendo che il tempo delle decisioni è giunto. Chi di noi è davvero degno di custodire questo segreto?"
La stanza sembrava pulsare di un’energia invisibile, e Ruben capì che il pericolo non veniva solo da Manzoni o dalle misteriose custodi. C’era qualcosa di antico, qualcosa che vegliava su quel luogo, e che non avrebbe permesso a nessuno di andarsene senza un prezzo da pagare.
Non illuminate la tenebra
L’aria nella stanza sembrava divenire più pesante, carica di un’energia arcana che spingeva tutti i presenti verso un limite invisibile. Ruben Martinez sentiva il peso delle decisioni che si accumulavano come ombre attorno alla coppa. Davanti a lui, Federico Manzoni fissava il calice come un devoto davanti a una reliquia sacra, mentre il commissario Boschi e le due misteriose giovani donne sembravano pronte a un confronto inevitabile.
Poi, un tremore. Non solo nella terra, ma nelle menti di tutti i presenti, come un pensiero collettivo imposto da qualcosa di oltre la comprensione umana.
"Questo luogo non è un semplice deposito di storia," sussurrò Ruben, guardando la coppa. "È un confine. Una soglia tra ciò che conosciamo e ciò che non dovremmo sapere."
Manzoni scattò in avanti, afferrando il calice. "La verità appartiene a chi ha il coraggio di prenderla!"
Boschi puntò la pistola contro di lui. "Metta giù quella cosa, Manzoni. Non so cosa lei creda che sia, ma non glielo lascerò portare via."
Le due giovani donne si mossero contemporaneamente, una verso Manzoni e l’altra verso Boschi. La tensione esplose in un momento di caos: Manzoni indietreggiò, stringendo la coppa, mentre Boschi gridava di fermarsi. Ruben si mosse istintivamente, cercando di raggiungere Manzoni per impedirgli di fare qualcosa di avventato.
Manzoni alzò la coppa sopra la testa, gridando con voce quasi profetica: "Se il sapere è veleno, io lo berrò. Se è salvezza, io sarò colui che lo porterà al mondo!"
Prima che qualcuno potesse fermarlo, portò la coppa alle labbra e bevve.
Il silenzio cadde nella stanza, rotto solo dal suono metallico del calice che cadeva a terra. Manzoni rimase immobile, gli occhi spalancati. Per un momento, sembrò che nulla fosse accaduto. Poi, un urlo straziante uscì dalla sua gola.
Si piegò in avanti, afferrandosi il petto, mentre il suo volto si contorceva in un’espressione di terrore. Ruben e Boschi si ritrassero, impotenti, mentre le due giovani donne recitavano qualcosa a bassa voce, come un’antica preghiera.
Manzoni cadde a terra, immobile.
Boschi si avvicinò con cautela, mantenendo l’arma puntata. Si inginocchiò accanto al corpo, controllando il polso. Poi guardò Ruben, il volto pallido. "È morto."
Don Corrado si fece il segno della croce. "Il sapere nella coppa… era davvero un veleno."
Una delle giovani donne scosse la testa. "Non era veleno. Era giudizio. La coppa riconosce chi è degno e chi non lo è. E lui non lo era."
Ruben fissava il calice, ora vuoto, che giaceva sul pavimento. Sentiva il peso di ciò che era appena accaduto. La coppa non era solo un oggetto antico, ma un simbolo vivente di un potere che non apparteneva a questo mondo.
"Che facciamo ora?" chiese Boschi, il tono insolitamente insicuro.
Una delle giovani donne si avvicinò al calice, lo raccolse con delicatezza e lo ripose nella nicchia da cui era stato prelevato. "Questo luogo deve essere sigillato di nuovo. Il segreto deve restare qui, dove è sempre appartenuto."
Boschi guardò le due donne con sospetto. "E voi? Chi siete davvero?"
La più anziana delle due sorrise debolmente. "Non importa chi siamo. Siamo solo custodi. La nostra missione è proteggere ciò che non può essere compreso."
Mentre il gruppo usciva dai sotterranei, Ruben non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa fosse cambiato in lui. Aveva visto l’arte trasformarsi in un enigma vivente, il passato prendere vita e il mistero consumare un uomo.
Boschi, ora più silenziosa e riflessiva, lo avvicinò mentre camminavano. "Non so cosa abbiamo trovato, Martinez, ma so che questo luogo non dovrebbe mai più essere disturbato."
Ruben annuì. "Il sapere è potente, ma non tutti sono pronti per esso. Forse è meglio così."
Dietro di loro, le due giovani donne chiusero l’ingresso del sotterraneo, murandolo con blocchi di pietra portati da Guido e alcuni uomini dell’agriturismo. Quando l’ultimo mattone fu posto, sembrò che l’oscurità del luogo tirasse un sospiro di sollievo.
Di Manzoni rimase solo un ricordo sbiadito e il peso di una lezione: non tutto ciò che è nascosto merita di essere scoperto.
Ruben lasciò Cividale il giorno dopo, con un cuore gravato dal mistero e una mente piena di domande che non avrebbero mai avuto risposta. Ma mentre il treno lo portava lontano, sapeva che il dipinto di Ponzone, il Pozzo di Callisto e il Castello di Zuccola sarebbero rimasti con lui per sempre, come un enigma indelebile nella tela della sua anima.
Ruben Martinez srotolò lentamente la pergamena, il respiro sospeso. La carta antica, macchiata dal tempo e dal silenzio, portava con sé una promessa di enigmi e pericoli. Al centro c’era una mappa, tracciata con linee sottili e sfuggenti che delineavano il territorio di Cividale e i suoi dintorni. Accanto, un testo in latino, ricco di simboli e allegorie.
"Colui che cerca la luce seguirà il cammino oscuro, dal Pozzo di Callisto all’ombra della collina dei Re. Là dove il serpente dorme, il sapere giace sepolto."
Don Corrado si fece il segno della croce. "Il Pozzo di Callisto… si trova dietro il Duomo. È lì da secoli."
Ruben guardò la mappa. Il percorso tracciato si spingeva dalla posizione del Duomo verso nord-ovest, fino alla collina dove un tempo sorgeva il Castello di Zuccola. "E la collina dei Re?"
"Là sorgeva il maniero di Zuccola," spiegò don Corrado. "Un castello che dominava la città e distrutto nel XIV secolo dalle truppe del Patriarca di Aquileia. Non ne rimane nulla, solo qualche pietra in mezzo al bosco e qualche leggenda."
"Leggende?"
"L’antica tradizione popolare parla di cunicoli sotterranei che collegavano il castello a diversi punti della città. Nessuno li ha mai trovati, ma la mappa…" Corrado indicò la pergamena. "Potrebbe essere la chiave."
Ruben non dormì quella notte. Nella stanza dell’agriturismo che si affacciava sui resti del convento di San Giorgio in Vado, la pergamena era stesa sul tavolo, illuminata da una lampada fioca. L’artista tracciò mentalmente il percorso indicato: dal Pozzo di Callisto, il sentiero sembrava dirigersi verso un punto preciso sotto la collina del castello.
Il testo allegorico parlava di un cammino oscuro e di un serpente che dorme. Ruben si chiedeva se questi elementi avessero un significato simbolico o pratico. Il serpente, già presente nel dipinto di Ponzone, sembrava essere il centro del mistero.
La mattina seguente, decise di iniziare dal Pozzo di Callisto.
Il pozzo si trovava in un angolo appartato dietro l’abside del Duomo e il palazzo del Museo, in cima ad una scalinata che conduceva alle Mura dell’antico monastero delle suore Orsoline. Ruben, con don Corrado al suo fianco, osservò la struttura antica. Sul bordo, incise nella pietra, c’erano iscrizioni consunte dal tempo. Una frase in latino attirò la sua attenzione:
"In tenebris lucet lux, sed viae sub aquis latent."
(La luce splende nelle tenebre, ma i sentieri si nascondono sotto l’acqua.)
"Sotto l’acqua?" chiese Ruben, accovacciandosi per guardare meglio.
"Un’altra allegoria," disse Corrado. "O forse un’indicazione letterale."
Ruben decise di calare una torcia elettrica legata a una corda dentro il pozzo. La luce illuminò le pareti scivolose, fino a rivelare qualcosa di inaspettato: un’apertura laterale, nascosta tra le ombre.
"È un passaggio," disse Ruben, con gli occhi che brillavano di eccitazione.
Con l’aiuto di Guido, il proprietario dell’agriturismo, Ruben e don Corrado riuscirono a calarsi nel pozzo. L’apertura conduceva a uno stretto cunicolo. L’aria era umida, e l’odore di terra e muffa rendeva difficile respirare. Ruben si fece strada con una torcia, mentre i passi risuonavano sordi nel silenzio.
Il cunicolo sembrava seguire il percorso indicato sulla mappa. A un certo punto, trovarono un piccolo altare scavato nella roccia. Sopra, un’incisione rappresentava un serpente avvolto attorno a una coppa, lo stesso simbolo visto nel dipinto di Ponzone.
"Stiamo andando nella direzione giusta," disse Ruben.
Il cammino continuava, tortuoso e in salita, fino a raggiungere una vasta cavità che sembrava appartenere a una struttura più grande. Le pareti erano rivestite di pietra lavorata, e Ruben capì che si trovavano nei sotterranei di quello che un tempo era il castello di Zuccola.
Al centro della stanza, c’era un’altra nicchia con una coppa in pietra, simile a quella nel dipinto. Dentro, un liquido scuro e denso emanava un odore pungente. Sopra la nicchia, incisa in lettere antiche, c’era una frase:
"Il sapere è un veleno per chi non è degno."
Ruben si avvicinò con cautela. Sentiva il peso della storia che lo circondava, il legame tra quel luogo, il dipinto, e il destino di Giacomo Martinelli.
"Forse Martinelli è arrivato qui," mormorò. "Forse ha scoperto qualcosa che non avrebbe dovuto."
Don Corrado si fece il segno della croce. "E se fosse stato punito per questo? Il serpente non è solo un simbolo: è un avvertimento."
Mentre Ruben osservava la coppa, un’idea lo colpì. Forse il sapere nascosto lì non era un semplice oggetto o un segreto banale. Forse era qualcosa che poteva cambiare tutto ciò che si sapeva sul passato di Cividale, della Chiesa, e delle verità custodite nei secoli.
Ma mentre i due uomini contemplavano il significato di ciò che avevano trovato, un rumore improvviso risuonò nel cunicolo alle loro spalle. Qualcuno li stava seguendo. E non era mosso da intenzioni amichevoli.
Non siamo soli
Ruben e don Corrado si voltarono di scatto, le torce tremolanti che illuminavano il buio alle loro spalle. Tre figure emersero dall'oscurità del cunicolo, avanzando lentamente. Le prime due erano giovani, con capelli raccolti sotto scialli neri, il volto pallido e serio. Camminavano con passo sicuro, come se conoscessero bene il luogo. Dietro di loro, in abiti civili, seguiva il commissario Irene Boschi.
"Commissario?" esclamò Ruben, incredulo.
Boschi non rispose subito. I suoi occhi si posavano sulla coppa al centro della stanza, quasi ignorando la sorpresa dell'artista. Quando finalmente parlò, il tono della sua voce era calmo, ma carico di sottintesi.
"Non pensavate davvero che vi avrei lasciati vagare da soli in questo labirinto, vero?" disse, accennando un sorriso sottile. "Voi due sembrate attrarre i guai, e io odio lasciare le cose a metà."
Ruben si avvicinò a un passo da lei, puntando la torcia contro il pavimento. "Cosa significa tutto questo? E loro chi sono?" indicò le due giovani donne.
Boschi alzò lo sguardo verso di loro. "Loro mi aiutano. È tutto quello che dovete sapere per ora."
Don Corrado era più esitante. Fece il segno della croce e si rivolse a Boschi. "Commissario, questo luogo è sacro… o maledetto. Non dovremmo essere qui."
Boschi lo fissò con un’espressione di calma autoritaria. "Padre, è proprio per questo che siamo qui. Non vi rendete conto di cosa rappresenta questo posto? Di cosa avete trovato?"
Ruben, ancora diffidente, incrociò le braccia. "Sembra che sappia più di quanto abbia voluto ammettere in precedenza."
Boschi sospirò. "Ci sono storie, Martinez. Storie che la gente di Cividale racconta sottovoce. Parlo delle leggende che circondano il Castello di Zuccola, il convento di San Giorgio, e sì, anche il Duomo. Ma non sono solo storie, vero? Sono frammenti di una verità più grande. Una verità che qualcuno ha cercato di seppellire per secoli."
"Come mai ne sa così tanto?" chiese Ruben.
Boschi fece un passo avanti, osservando attentamente la coppa di pietra al centro della stanza. "Mio nonno lavorava nel Museo Archeologico. Mi raccontava sempre del custode del sapere, un segreto che nessuno avrebbe dovuto cercare. Eppure, il suo interesse era più forte del buon senso." Guardò Ruben. "Mi ha trasmesso quella curiosità. Ma poi Giacomo Martinelli è morto, e mi sono accorta che quel segreto è pericoloso."
Ruben si chinò sulla coppa, osservando il liquido scuro al suo interno. "Questo segreto è legato al serpente, alla coppa e alla mappa. Ma perché le leggende di Cividale dovrebbero essere così pericolose?"
Boschi alzò un dito per zittirlo, mentre una delle due giovani donne si avvicinò al tavolo di pietra, portando con sé una candela accesa. Le sue mani erano ferme, il volto inespressivo. Posò la candela accanto alla coppa e poi si rivolse a Ruben e Corrado.
"Ciò che cercate non vi appartiene," disse, con una voce calma e distante.
Don Corrado sgranò gli occhi. "Chi siete voi?"
L’altra giovane si avvicinò, il volto serio come quello della prima. "Siamo custodi. Da generazioni proteggiamo i segreti di questo luogo. Quando Giacomo Martinelli ha trovato la mappa, sapevamo che sarebbe stato solo l’inizio."
Boschi, che fino a quel momento aveva mantenuto una certa distanza emotiva, si voltò verso Ruben. "Capite ora perché dovevo seguirvi? Non potevo lasciare che questa storia prendesse una piega incontrollata. Non mi fido nemmeno di loro."
"Nemmeno di noi?" rispose una delle giovani. "Ma senza di noi non saresti mai arrivata qui."
La tensione aumentò, palpabile come l’umidità nel sotterraneo. Ruben osservava il liquido nella coppa e le donne intorno a lui, cercando di mettere ordine nei pensieri. La coppa era più di un simbolo: sembrava contenere qualcosa di fisico e concreto, ma anche intriso di una potenza oscura, come se fosse stata al centro di rituali o conoscenze proibite.
"Martinelli ha trovato la mappa," disse Ruben, cercando di collegare i fili. "E probabilmente è arrivato fin qui. Ma cosa ha scoperto?"
Boschi scosse la testa. "Non lo sapremo mai. Ma io voglio capirlo, Ruben. E se per farlo devo andare contro ogni regola, lo farò."
Le due giovani donne si scambiarono uno sguardo, poi una di loro si avvicinò ancora di più alla coppa. "La verità che cercate non è per voi," disse con un tono definitivo.
Ma prima che potesse fare altro, un rumore sordo risuonò nel cunicolo. Un'eco inquietante che fece voltare tutti verso l'oscurità. Non erano soli.
Manzoni
Dal buio del cunicolo emerse una figura, avanzando con passi lenti e deliberati. La luce tremolante delle torce rivelò il volto del direttore del Museo Archeologico, Federico Manzoni. Indossava un lungo cappotto scuro, e il suo viso era impassibile, come se avesse pianificato quell’incontro da tempo.
"Manzoni!" esclamò don Corrado, sorpreso. "Cosa ci fa qui?"
Il direttore sorrise freddamente. "Padre, ci sono segreti che non possono essere lasciati nelle mani sbagliate. E sembra che voi abbiate avuto la sfortuna di imbattervi in uno dei più pericolosi."
Ruben lo fissò con sospetto. "E lei come lo sa, direttore? Cosa sta cercando?"
Manzoni avanzò fino a posizionarsi accanto alla coppa, i suoi occhi che brillavano nel buio come se il liquido oscuro lo ipnotizzasse. "Quello che sto cercando, Martinez, è la verità. La stessa che Giacomo Martinelli ha osato scoprire. Ma lui non era degno. Io sì."
Boschi intervenne, con il tono tagliente che usava nelle interrogazioni. "Degno di cosa, Manzoni? Si spieghi."
Manzoni si voltò verso di lei, il sorriso appena accennato. "Temo che la spiegazione superi ciò che voi potete comprendere, commissario. Ma visto che insistete…"
Si fermò, quasi a voler creare un effetto drammatico. Poi continuò: "Da anni sono affiliato a un ordine che molti credono scomparso: i Nuovi Cavalieri Templari. Non siamo come quelli delle leggende. Non cerchiamo oro o gloria. Il nostro scopo è preservare le conoscenze antiche, quelle che la Chiesa e i poteri mondani hanno tentato di cancellare per secoli."
Ruben osservava Manzoni con crescente inquietudine. "E cosa c’entra questa coppa con il suo ordine?"
Manzoni indicò il simbolo del serpente inciso sulla pietra. "Questo non è solo un simbolo. È un sigillo. E questa coppa non è una reliquia qualunque. È l’ultimo frammento di un sapere perduto, custodito dai templari originali prima che fossero distrutti. Un sapere che può cambiare tutto ciò che crediamo di sapere sulla fede, sulla storia e sul potere."
Don Corrado scosse la testa, allarmato. "Questa è blasfemia! Non avete alcun diritto di interferire con ciò che appartiene alla Chiesa!"
Manzoni rise, una risata breve e tagliente. "La Chiesa, padre? La stessa Chiesa che ha distrutto il Castello di Zuccola per seppellire questi segreti? La stessa che ha scacciato le monache di San Giorgio quando hanno scoperto troppo? Non mi faccia ridere."
Boschi avanzò, posizionandosi tra Manzoni e la coppa. "Qualunque cosa creda di sapere, direttore, questa non è una giustificazione per intralciare un’indagine ufficiale. Martinelli è morto, e io devo capire perché."
Manzoni la guardò con compassione, quasi con pena. "Martinelli è morto perché era curioso, ma non aveva una guida. Non era parte dell’Ordine. Non avrebbe mai dovuto mettere piede qui."
"Lo ha ucciso lei?" chiese Ruben, sfidandolo apertamente.
Manzoni scosse la testa. "Non direttamente. Ma ho fatto in modo che la sua curiosità fosse il suo stesso nemico."
Boschi strinse i pugni, ma prima che potesse reagire, una delle due giovani donne che accompagnavano il commissario parlò. "Direttore Manzoni, non ci interessa la sua affiliazione. Il nostro compito è proteggere questo luogo, e se necessario, impedire che chiunque se ne appropri."
"Proteggere?" rispose Manzoni, alzando un sopracciglio. "Proteggere da chi? Da voi stesse? O da chi, come me, potrebbe usare questo sapere per il bene dell’umanità?"
Ruben si rese conto che la tensione stava crescendo. Le parole di Manzoni erano calcolate, ma c’era una sfumatura di fanatismo che lo rendeva pericoloso. Cercando di riportare l’attenzione sul mistero, si avvicinò alla coppa.
"Qualunque sia la verità," disse Ruben, "non possiamo ignorare che questa coppa e ciò che contiene sono simboli di qualcosa di più grande. Ma la domanda è: è una verità che deve essere rivelata, o sepolta per sempre?"
Manzoni si voltò verso di lui, con un’espressione quasi compassionevole. "Martinez, lei è un artista. Dovrebbe capire che la verità non può essere rinchiusa. È destinata a venire alla luce, in un modo o nell’altro."
Il momento fu spezzato da un rumore improvviso. Qualcosa si mosse nelle profondità del cunicolo, come se il luogo stesso rispondesse alla presenza di troppi estranei. La terra tremò leggermente, e un soffio di aria umida e gelida attraversò la stanza.
Boschi estrasse la pistola dalla fondina, puntandola verso l’oscurità. "Cosa diavolo è stato?"
Manzoni sorrise. "Forse il luogo ci sta dicendo che il tempo delle decisioni è giunto. Chi di noi è davvero degno di custodire questo segreto?"
La stanza sembrava pulsare di un’energia invisibile, e Ruben capì che il pericolo non veniva solo da Manzoni o dalle misteriose custodi. C’era qualcosa di antico, qualcosa che vegliava su quel luogo, e che non avrebbe permesso a nessuno di andarsene senza un prezzo da pagare.
Non illuminate la tenebra
L’aria nella stanza sembrava divenire più pesante, carica di un’energia arcana che spingeva tutti i presenti verso un limite invisibile. Ruben Martinez sentiva il peso delle decisioni che si accumulavano come ombre attorno alla coppa. Davanti a lui, Federico Manzoni fissava il calice come un devoto davanti a una reliquia sacra, mentre il commissario Boschi e le due misteriose giovani donne sembravano pronte a un confronto inevitabile.
Poi, un tremore. Non solo nella terra, ma nelle menti di tutti i presenti, come un pensiero collettivo imposto da qualcosa di oltre la comprensione umana.
"Questo luogo non è un semplice deposito di storia," sussurrò Ruben, guardando la coppa. "È un confine. Una soglia tra ciò che conosciamo e ciò che non dovremmo sapere."
Manzoni scattò in avanti, afferrando il calice. "La verità appartiene a chi ha il coraggio di prenderla!"
Boschi puntò la pistola contro di lui. "Metta giù quella cosa, Manzoni. Non so cosa lei creda che sia, ma non glielo lascerò portare via."
Le due giovani donne si mossero contemporaneamente, una verso Manzoni e l’altra verso Boschi. La tensione esplose in un momento di caos: Manzoni indietreggiò, stringendo la coppa, mentre Boschi gridava di fermarsi. Ruben si mosse istintivamente, cercando di raggiungere Manzoni per impedirgli di fare qualcosa di avventato.
Manzoni alzò la coppa sopra la testa, gridando con voce quasi profetica: "Se il sapere è veleno, io lo berrò. Se è salvezza, io sarò colui che lo porterà al mondo!"
Prima che qualcuno potesse fermarlo, portò la coppa alle labbra e bevve.
Il silenzio cadde nella stanza, rotto solo dal suono metallico del calice che cadeva a terra. Manzoni rimase immobile, gli occhi spalancati. Per un momento, sembrò che nulla fosse accaduto. Poi, un urlo straziante uscì dalla sua gola.
Si piegò in avanti, afferrandosi il petto, mentre il suo volto si contorceva in un’espressione di terrore. Ruben e Boschi si ritrassero, impotenti, mentre le due giovani donne recitavano qualcosa a bassa voce, come un’antica preghiera.
Manzoni cadde a terra, immobile.
Boschi si avvicinò con cautela, mantenendo l’arma puntata. Si inginocchiò accanto al corpo, controllando il polso. Poi guardò Ruben, il volto pallido. "È morto."
Don Corrado si fece il segno della croce. "Il sapere nella coppa… era davvero un veleno."
Una delle giovani donne scosse la testa. "Non era veleno. Era giudizio. La coppa riconosce chi è degno e chi non lo è. E lui non lo era."
Ruben fissava il calice, ora vuoto, che giaceva sul pavimento. Sentiva il peso di ciò che era appena accaduto. La coppa non era solo un oggetto antico, ma un simbolo vivente di un potere che non apparteneva a questo mondo.
"Che facciamo ora?" chiese Boschi, il tono insolitamente insicuro.
Una delle giovani donne si avvicinò al calice, lo raccolse con delicatezza e lo ripose nella nicchia da cui era stato prelevato. "Questo luogo deve essere sigillato di nuovo. Il segreto deve restare qui, dove è sempre appartenuto."
Boschi guardò le due donne con sospetto. "E voi? Chi siete davvero?"
La più anziana delle due sorrise debolmente. "Non importa chi siamo. Siamo solo custodi. La nostra missione è proteggere ciò che non può essere compreso."
Mentre il gruppo usciva dai sotterranei, Ruben non riusciva a scrollarsi di dosso la sensazione che qualcosa fosse cambiato in lui. Aveva visto l’arte trasformarsi in un enigma vivente, il passato prendere vita e il mistero consumare un uomo.
Boschi, ora più silenziosa e riflessiva, lo avvicinò mentre camminavano. "Non so cosa abbiamo trovato, Martinez, ma so che questo luogo non dovrebbe mai più essere disturbato."
Ruben annuì. "Il sapere è potente, ma non tutti sono pronti per esso. Forse è meglio così."
Dietro di loro, le due giovani donne chiusero l’ingresso del sotterraneo, murandolo con blocchi di pietra portati da Guido e alcuni uomini dell’agriturismo. Quando l’ultimo mattone fu posto, sembrò che l’oscurità del luogo tirasse un sospiro di sollievo.
Di Manzoni rimase solo un ricordo sbiadito e il peso di una lezione: non tutto ciò che è nascosto merita di essere scoperto.
Ruben lasciò Cividale il giorno dopo, con un cuore gravato dal mistero e una mente piena di domande che non avrebbero mai avuto risposta. Ma mentre il treno lo portava lontano, sapeva che il dipinto di Ponzone, il Pozzo di Callisto e il Castello di Zuccola sarebbero rimasti con lui per sempre, come un enigma indelebile nella tela della sua anima.
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