Ruben si sistemò meglio il cappello di paglia sulla testa mentre il vento tiepido della Sicilia gli soffiava contro. Il sole del tardo pomeriggio illuminava le pietre antiche del teatro greco di Segesta, avvolgendole in una luce dorata che sembrava filtrata direttamente dall’eternità. Quel luogo, con la sua austerità senza tempo, gli ricordava l’irriducibile distanza tra passato e presente, ma anche la sottile continuità che li univa.
I suoi passi risuonavano appena sulle pietre lisce del sentiero mentre scendeva tra le file degli spalti. Ogni gradino era un frammento di storia, un’eco di voci antiche che ancora sussurravano tra le colonne spezzate. La vastità della valle sottostante si apriva davanti a lui, brulla e ondulata, come una tela grezza su cui il tempo stesso aveva dipinto paesaggi in grado di suscitare moti nell’animo e mille domande dalle risposte incerte.
Era a Palermo per la sua mostra: un’occasione importante, forse l’ultima di quel calibro nella sua carriera. Eppure, mentre camminava tra le vestigia del passato, quella serata imminente si faceva sempre più piccola, meno rilevante. La sua mente tornava continuamente a Toledo, alla casa dove era cresciuto e che adesso era vuota. Due settimane prima, l’improvvisa morte di sua madre aveva spezzato qualcosa dentro di lui. Aveva ricevuto quella telefonata mentre era in studio, con il pennello fermo a mezz’aria. La voce del medico era stata ferma, impersonale. Un attimo prima sua madre esisteva ancora; un attimo dopo, era già un ricordo.
“Memento mori,” sussurrò tra sé. Ricordati che devi morire.
Queste parole, che ora gli pesavano come una sentenza, un tempo gli avevano parlato di una saggezza antica. Gli stessi autori greci che tanto lo avevano affascinato sembravano comprenderle profondamente. Sofocle, Eschilo, Euripide: erano maestri nel raccontare l’ineluttabilità del destino e la fragilità umana. La tragedia greca lo aveva sempre attratto proprio per questo. Nei drammi del passato, nei re caduti e negli eroi sconfitti, Ruben aveva sempre visto qualcosa di universale, di spietatamente vero. Forse perché, in fondo, quelle storie parlavano anche di lui. Della sua lotta per dare un senso alle sue tele, alla sua solitudine, alla consapevolezza della propria mortalità.
Mentre si fermava al centro dell’orchestra, il cuore pulsante del teatro, pensò a come i classici non lo avevano mai tradito. Erano sempre stati lì, con parole eterne che riflettevano le sue paure e le sue speranze. La morte della madre aveva aperto una voragine, eppure anche in quel dolore gli antichi gli offrivano una via: accettare la vita in tutta la sua asprezza e bellezza, senza illusioni.
Ma qualcosa, ultimamente, stava sciogliendo il gelo del passato. Pensò a Madrid, a quella sera di fine estate quando aveva incontrato Isabel in una galleria d’arte. La giovane donna aveva osservato i suoi dipinti con un’attenzione così profonda da fargli sentire di essere davvero visto. Da quella sera, tutto era cambiato. Aveva aperto uno spiraglio di possibilità, una luce che si insinuava tra le crepe del suo essere. La loro relazione, benché appena agli inizi, lo stava riappacificando con parti di sé che credeva perdute per sempre.
Forse Isabel rappresentava proprio ciò che la letteratura antica aveva sempre cercato di insegnargli: che anche nella tragedia c’è una speranza ostinata. Che l’amore e la bellezza, pur fragili e transitori, valgono ogni sforzo.
Si tolse il cappello e si passò di nuovo la mano tra i capelli passò una mano sulla barba e sorrise. Per anni aveva costruito barriere, rifugiandosi nella pittura e nei miti antichi, lontano da qualsiasi legame vero. Ora, invece, si trovava a desiderare quella presenza accanto a sé. Un’ironia dolce e crudele. Proprio quando il tempo gli mostrava il suo limite più crudo, la vita gli porgeva una nuova possibilità.
Guardò verso l’orizzonte. Il sole scivolava lentamente verso il tramonto, tingendo tutto di rosso e arancio. Un’ultima pennellata prima della notte.
Forse “memento mori” non era solo un ammonimento alla fine, ma un invito a vivere con coraggio. Ogni pennellata, ogni respiro, ogni passo su quelle pietre antiche era un atto di resistenza. Forse l’amore, come l’arte, era la risposta più umana e fragile alla certezza della morte.
Ruben inspirò a fondo l’aria profumata di erba secca e pietra scaldata dal sole. Sarebbe tornato a Palermo,
alla sua mostra. Avrebbe affrontato la folla e le luci, non per celebrare sé stesso, ma per celebrare quel momento effimero che chiamiamo vita. E poi, di sicuro, avrebbe chiamato Isabel.
Il sole scese ancora e le ombre si allungarono come dita gentili, pronte a cullare la notte.
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