Pula (Pola), luglio 2013.
Il sole picchiava sulle pietre chiare della strada, disegnando ombre corte e taglienti. Giacomo camminava lentamente, come se ogni passo fosse una sfida al tempo e alla memoria. Non metteva piede in Istria da sessantasei anni. Era nato lì, nel 1934, quando le sirene suonavano più spesso dei campanelli e il confine tra casa e campo di battaglia era fatto di vetro e silenzi, un'infanzia passata con la paura come fedele ed indesiderata compagna di banco.
La sua famiglia se n'era andata come tanti altri, nel lungo esodo che aveva svuotato le coste istriane praticamente di tutta la popolazione istro-veneta che lì ci stava da secoli; avevano lasciato la loro casa a Pola, in fretta, tra le lacrime, le minacce e le promesse poi infrante dal trattato di pace del 1947 che cedeva definitivamente Pola alla Jugoslavia.
Quel giorno del febbario 1947, quando la porta del giardino di casa si era chiusa per sempre dietro a lui e ai suoi genitori, si era sentito come se i denti aguzzi di un serpente velenoso lo avessero morso dappertutto.
Da allora, Giacomo aveva portato quel ricordo come un dolore nascosto, davvero come un morso nella carne che non guariva mai del tutto.
Quando arrivarono in Italia, non furono accolti con abbracci.
Erano in tanti, famiglie intere che sbarcavano con due valigie, un fazzoletto al collo e il dolore tra le scapole ma per molti italiani, erano solo ospiti indesiderati, di nuovo considerati stranieri a casa loro; li guardavano con sospetto, parlavano un dialetto diverso, avevano nomi che suonavano sbagliati e dicevano che venivano a togliere il pane ai residenti, a contendersi case e lavori in un Paese che non aveva più nulla. Alcuni li chiamavano fascisti, senza sapere nemmeno chi fossero.
Giacomo aveva 13 anni quando li trasferirono da un campo profughi all'altro: ricorda l’umidità, il rumore dei pianti nei dormitori, le madri silenziose, e i padri con la rabbia compressa nel petto. Anni dopo, capì che quello non era solo esilio: era diventata una forma di colpa ereditata, qualcosa che doveva spiegare ovunque andasse.
Fu solo quando arrivarono in Sardegna, nella borgata di Fertilia, che la vita cominciò lentamente a ricostruirsi. Un borgo fondato pochi anni prima, dove si parlavano mille accenti. Là trovarono una casa vera, un campo da coltivare, una scuola per lui, ma il dolore non era scomparso: aveva solo messo radici più in profondità.
L’ingresso della Croazia nell’Unione Europea, nel 2013, gli aveva dato il pretesto – o forse il coraggio – di tornare, non per cercare risposte ma solo un contatto con il passato. La sua vecchia casa era ancora lì, riconoscibile nonostante gli anni. Il giardino aveva cambiato volto, ma la pietra del muro esterno era la stessa. Rimase lì, fermo, davanti al cancello, come se guardare potesse bastare a colmare una vita.
Un rumore lo scosse, un uomo uscì dalla casa, visibilmente infastidito e aveva una faccia larga, bruciata dal sole, lo sguardo carico di diffidenza.
«Što radiš ovdje?» chiese in croato, la voce tesa.
("Che cosa ci fai qui?")
Giacomo si voltò lentamente. Il cuore gli batteva forte, ma volle rispondere con quel po' di croato che ricordava e che aveva imparato naturalmente a Pola durante l'infanzia assieme all'italiano, la sua lingua madre.
«Ja... ja sam bio ovdje... nekad. Ovo je bila... moja kuća. Moj otac...»
("Io... io sono stato qui... un tempo. Questa era... la mia casa. Mio padre...")
L’uomo lo fissò per un attimo. Un silenzio teso cadde tra loro. Poi parlò, con voce dura ma contenuta:
«Vaša kuća? Ovo je Hrvatska! Znaš li što su nam učinili Talijani? Moj djed je umro u zatvoru. Moja baka je bila gladna. Bio je to pakao.»
("La vostra casa? Questa è Croazia! Sai cosa ci hanno fatto gli italiani? Mio nonno è morto in prigione. Mia nonna ha patito la fame. È stato un inferno.")
Giacomo ascoltò in silenzio, il volto scavato da pensieri lontani. Poi parlò in italiano pacato.
«Non voglio negare nulla. Ma credi davvero che fosse giusto rispondere con altra violenza? Che tutti gli italiani d’Istria meritassero quella sorte? Anche i bambini, anche chi non aveva colpe?»
L’uomo scosse il capo, capiva l'italiano e rispose in croato, con gli occhi che sembravano essere diventati come le feritoie dei castelli da cui spuntano le canne dei cannoni.
«To je zakon povijesti. Tko sije vjetar, žanje oluju. Tko pobijedi, ima pravo. Ako tražiš krivce, traži ih u Italiji — među onima koji su posijali taj vjetar fašizma.»
("È la legge della storia. Chi semina vento raccoglie tempesta. Chi vince ha sempre ragione. Se cerchi colpevoli, cercali in Italia — tra quelli che hanno seminato quel vento del fascismo.")
Giacomo abbassò lo sguardo. Il peso di quelle parole non era nuovo. Lo portava dentro da decenni. Un veleno che non bruciava più con violenza, ma che dentro gli aveva indebolito tutto: il respiro, i ricordi, la lucidità. Ogni tanto si ritrovava in un posto senza sapere perché, a parlare e non trovare le parole giuste. Come ora.
«Volevo solo vedere il giardino. Un’ultima volta,» disse.
L’uomo non rispose. Lo guardò un momento, poi si voltò e rientrò in casa. Non c’erano saluti. Ma neppure urla. Solo una porta che si richiudeva dietro decenni, o forse secoli di rancori.
E di nuovo gli parve di sentir penetrare nella carne i denti aguzzi dello stesso serpente che lo aveva morso nel febbraio 1947 instillando in lui quel veleno che lo aveva intossicato per tutta la vita.
Giacomo si allontanò piano ma quando arrivò in fondo alla via, si voltò.
Un bambino correva sul marciapiede, rincorrendo un pallone, come era solito fare lui tanti anni prima nelle via di Pola.
Si fermò un attimo davanti al bambino, con il fiatone, e lo fissò: il ragazzino gli sorrise, con la naturalezza disarmante di chi non conosce ancora il peso della storia, un sorriso senza bandiere, senza schieramenti, senza colpe.
Giacomo trattenne il respiro, forse era così che il veleno avrebbe finalmente smesso di avvelenare ogni cosa.
Non oggi, non domani. Ma quando i nipoti di quel bambino, e i nipoti del nipote di Giacomo, avessero saputo perdonare le colpe dei loro nonni.
Forse allora il veleno di quel serpente, di quel mostro senza nome, si sarebbe dissolto davvero.
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