mercoledì 28 maggio 2025

LA CREPA NELLA LIBERTY BELL

Philadelphia quel giorno sembrava più antica del solito, l’asfalto tremolava per il calore, e l’Independence Hall si stagliava davanti ad Andrés come una sentinella della memoria; la Liberty Bell, immobile sotto il suo vetro, sembrava attenderlo da un bel po'.

Non sapeva bene perché fosse lì: forse perché era il 4 luglio, forse perché, dopo cinque anni in America, sentiva il bisogno di capire davvero cosa avesse guadagnato — e cosa avesse perso — in nome di quella parola che aveva portato nel cuore: libertà.

Guardò la campana: una crepa netta, non nascosta, non riparata ma esibita, come se volesse dire che ciò che è spezzato può ancora suonare.

Pensò: tutti cerchiamo la libertà.
Lui l’aveva inseguita dal Messico, da casa sua a Tulum, fino a quel marciapiede di mattoni rossi; l'aveva immaginata lungo quell'interminabile viaggio dal mar dei caraibi nel cassone di un furgone che l'aveva fatto sconfinare in Texas, l’aveva desiderata quando lavava piatti in silenzio nel risorante di Pedro a Philadelphia, invocata nei giorni in cui temeva che un documento sbagliato lo rispedisse indietro, l’aveva sognata da stanco, mentre fissava il soffitto di una stanza in affitto.

Ricordava la Tulum della sua infanzia: il mare turchese, il profumo dei tacos al pastor all’angolo, le serate in cui la sua abuela gli parlava dei sogni che volano più in alto dei muri. "Todos buscan la libertad", gli diceva ma nessuno gli spiegava mai cos’era davvero.

Ma quante volte l’aveva anche gettata via? Quante volte l’aveva sentita pesare addosso come una colpa? Quante volte si era chiesto se valesse la pena continuare a cercarla?

Poi arrivò il pensiero più difficile.

Che cos'è davvero ciò che cerchiamo, desideriamo, invochiamo, sogniamo… e che a volte pure gettiamo via?

Non era un documento. Non era un permesso di soggiorno. Non era neppure un lavoro fisso.

Era potersi addormentare senza paura del domani.
E senza rimpianto del passato.

Un pensiero semplice, eppure gli sembrava rivoluzionario.

Ricordò i giorni passati nei corridoi dell’ufficio immigrazione. Ore in piedi, attese infinite, occhi che lo scansionavano come se dovessero valutarne il valore. Nessuno si domandava chi fosse. Solo cosa fosse: uno straniero, un numero. Anche quando faceva tutto secondo le regole, bastava un errore di stampa, una virgola fuori posto, per sentirsi cancellato e sentiva che non c’era niente di più ingiusto di dover provare ogni giorno di meritare il diritto di restare.

E poi, c’era l’altra faccia della medaglia: quella di chi si diceva “accogliente”, ma solo se poteva guadagnarci. Associazioni, datori di lavoro, mediatori: in tanti si dicevano pronti ad aiutarti, ma a condizioni precise, poca vera solidarietà, solo transazioni ben mascherate con i sorrisi; aveva imparato presto a distinguere coloro che tendevano la mano per aiutare davvero da chi lo faceva invece per stringere un guinzaglio, per ricavare un profitto o un tornaconto personale.

Un dolore diverso, più intimo, invece lo pungeva altrove: veniva da volti familiari, da certi connazionali che arrivavano e non volevano capire il luogo in cui si trovavano, che rifiutavano la lingua, le regole, la cultura.
Che al posto dell’impegno, sceglievano la scorciatoia.
Che rubavano, mentivano, si infilavano nei giri sbagliati c che poi si lamentavano urlando di non essere accolti.

Andrés non li giudicava con superiorità ma con rabbia, e con dolore, perché ogni errore di chi arrivava e sbagliava ricadeva anche su di lui: ogni furto, ogni rissa, ogni abuso veniva usato come scusa per diffidare anche dei tanti come lui che lavoravano onestamente.

“Uno di loro”, dicevano. E in quel loro, finiva anche lui.
Uno di quelli.
E non c’era curriculum, stipendio, gentilezza che bastasse a fargli guadagnare fiducia.

Sentiva crescere un rancore amaro verso chi, per pigrizia o arroganza, distruggeva l’immagine di una comunità intera.
La libertà — lo sapeva bene — non era un diritto automatico, era una responsabilità e se lui poteva ancora sperare, era solo perché aveva scelto di rispettare, di costruire e di appartenere.

Guardò di nuovo la campana.

Quella campana, pensò, aveva suonato per annunciare un passo fondamentale verso la libertà. Era stata la voce di una nazione che si staccava dall’oppressione, aveva chiamato a raccolta uomini in fuga dalla povertà, dalle monarchie assolute, dall’odio, dai pogrom e aveva dato speranza a gente che era stata umiliata in Europa. 

Molti degli avi di chi oggi lo discriminava erano venuti qui perché perseguitati, affamati, esclusi.

Erano stati degli esuli, dei profughi. Come lui.

E adesso — ironia amara — i discendenti di quegli stessi fuggiaschi si ergevano a guardiani di un’identità che non era mai stata davvero loro, se non per concessione della memoria.

La verità, però, era che nessuno nasce libero: la Libertà, quella vera, si paga con la fatica e con la pazienza, spesso con la solitudine.

Andrés chiuse gli occhi. Non sperava più in un momento in cui tutto sarebbe andato al suo posto ma desiderava ancora, profondamente, qualcosa di semplice e impossibile: addormentarsi una notte senza temere il giorno dopo,  senza dover pensare al permesso di soggiorno in scadenza, al contratto da rinnovare, alla voce che lo tradiva quando cercava di sembrare sicuro.

Solo quello.
Un sonno che non fosse interrotto dall’ansia, dal rancore o dalla troppa nostalgia e dal rimpianto.
Una tregua.

Chissà se sarebbe mai arrivata.
Chissà se quella libertà che tutti nominano ma pochi comprendono esisteva davvero per qualcuno come lui.

Forse sì.
O forse era solo un’illusione ben educata, messa lì per impedire alla disperazione di prendergli tutto.

Aprì gli occhi.
La Liberty Bell era lì, inchiodata nel suo silenzio.
La crepa sembrava più profonda, adesso. 

Più sincera.

Non sapeva cosa aspettarsi dal futuro ma almeno aveva capito cosa voleva.

E quel desiderio — anche se non gli dava pace — lo teneva vivo.

Forse era poco.
Ma era tutto ciò che aveva.



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