venerdì 30 maggio 2025

TEMAZCAL: IL CHIRURGO E LO SCIAMANO

Il sole stava calando dietro le palme svettanti della Riviera Maya, tingendo il cielo di un arancio impastato col sangue. Il mare si frangeva sulla sabbia chiara in onde larghe e pigre, e i profumi della giungla – terra bagnata, fiori intensi, fumo di legna – salivano nell’aria densa come un incenso invisibile.

Il dottor Alan Pierce, chirurgo plastico di Beverly Hills, sedeva su una pietra piatta ricoperta di muschio ai margini del Temazcal, il tradizionale igloo di pietra lavica usato dai popoli mesoamericani per la purificazione rituale. Le gambe gli tremavano ancora, i polmoni cercavano ossigeno e la mente era come annebbiata.

Aveva accettato di partecipare a quella “esperienza rigenerativa” perché era inclusa nel pacchetto benessere del resort a cinque stelle dove alloggiava con la moglie. Il "Sol Cenote Resort & Spa" vantava una combinazione esclusiva di comfort occidentale e “spiritualità autentica”: camere con vasca idromassaggio e vista sulle mangrovie, champagne all’arrivo… e, tra le attività, la “cerimonia temazcal guidata da un vero sciamano maya”.

Un’escursione spirituale in un’area riservata al limitare della giungla, promossa come “purificazione fisica, mentale ed energetica”. Alan aveva pensato che potesse essere un diversivo interessante, qualcosa di più originale del solito massaggio aromatico.

Ciò a cui aveva appena partecipato però non somigliava affatto a un trattamento spa.

All’interno del Temazcal – una cupola bassa fatta di pietre e fango – regnava un buio assoluto. L’aria era carica di vapore, erbe sacre bruciate, e il profumo pungente del copal mentre nel centro, delle pietre roventi venivano bagnate con acqua infusa di piante medicinali, sollevando nuvole di calore che toglievano il respiro.

C’erano otto turisti nella cupola e durante le quattro fasi del rituale, dette "porte", le grida si mescolavano ai canti in nahuatl dello sciamano; alcuni avevano addirittura vomitato. mentre altri erano scoppiati in lacrime. Due donne avevano chiesto di uscire alla seconda porta, incapaci di reggere il calore. Il corpo di Alan sembrava liquefarsi; il suo razionalismo vacillava come una parete sotto pressione.

E lo sciamano – Ixbalam, “giaguaro dell’ombra”, come si era presentato – non parlava come un animatore spirituale: era serio, ieratico, la pelle scura ricoperta di disegni a spirale e linee verticali, portava collane di semi e piume, e nei momenti più intensi del rituale cantava con una voce profonda, ancestrale, come se non provenisse dalla gola ma dalla terra stessa.

Alan non aveva pianto, non aveva vomitato ma in un momento – non sapeva se durante la terza o la quarta porta – aveva smesso di respirare per un attimo: era come se il suo corpo si fosse svuotato, aveva sentito la propria pelle dissolversi e i pensieri sciogliersi in una nebbia primitiva. Una sensazione breve, disorientante, come se qualcosa lo avesse osservato da dentro.

Ora, fuori, il corpo grondava umidità e tremore mentre il vento della sera gli passava addosso come una carezza improvvisa e fresca e lui si dirigeva nel vicino cenote per l'ultima fase prevista dal rituale: l'incontro tra l'acqua fredda con la pelle ancora calda.

Uscito dal cenote Alan si sedette su di un masso vicino all'ingresso della scalinata che conduceva alla cavità, cercando di far riprendere alla mente il possesso della situazione, dopo che i pensieri erano stati azzerati dai ripetuti e violenti shock fisici a cui il suo corpo era stato sottoposto.

Lo sciamano lo raggiunse, camminando a piedi nudi sulla terra battuta e si sedette accanto a lui, con calma, gli occhi rivolti verso l’orizzonte dove la giungla si fondeva con il mare.

«Tu sei medico», disse senza girarsi.

Alan annuì, ancora scosso. «Chirurgo. Plastico.»

«Rimodelli la carne degli uomini?»

«Correggo difetti: miglioro ciò che la genetica sbaglia o che il tempo rovina.»

Ixbalam sorrise, ma non c’era ironia nel suo volto, solo un’ombra di tristezza antica.

«E chi corregge l’anima?»

Alan sospirò. Il suo cervello cominciava lentamente a riprendere il controllo. «Non credo nell’anima. Credo nella psiche, nella neurochimica, nella biologia: siamo una macchina; complessa, ma decifrabile, niente di più e niente di meno.»

«Eppure hai visto qualcosa là dentro. Non puoi spiegare tutto con il sangue e i numeri.»

Alan si voltò verso il mare, dove l’acqua nera accoglieva il riflesso della luna piena alta nel cielo. «L’ho visto perché ero esausto, disidratato, suggestionato: il cervello reagisce così agli estremi, è sempre tutto spiegabile.»

Lo sciamano annuì. «Tu credi che sia spiegabile, questo è il tuo potere… e la tua prigione.»

Una pausa. Il canto lontano di un uccello notturno e il crepitio del fuoco sacro che ancora ardeva vicino alla cupola.

Alan si prese un momento prima di parlare. «E tu? Cosa credi? Che l’uomo debba sottomettersi alla Natura? Tornare a vivere nelle caverne, adorare le piogge o i fulmini?»

«Io credo che l’uomo sia Natura, come il giaguaro, come il fiume: quando cerca di dominarla, di renderla a propria immagine e consumo, si ammala; quando si ricorda chi è, guarisce.»

Il chirurgo lo guardò, cercando un appiglio razionale ma qualcosa, un dettaglio impercettibile, rendeva le parole dello sciamano difficili da respingere; il ricordo del Temazcal lo pungeva come un ago sotto pelle.

«Poveri mortali…» mormorò infine, quasi senza rendersene conto. «Convinti di dominare la Natura.»

Ixbalam lo guardò negli occhi. «Ma anche fortunati… quando si lasciano toccare da essa.»

Alan non replicò. Tornò a Beverly Hills. Riprese a operare: visi, glutei e seni di menti convinte di rinascere solo attraverso la bellezza rifatta; ogni tanto, tra una sutura e l’altra, riaffiorava il ricordo di quella cupola bollente, dei canti gutturali, del buio carico di vapore.

Non cambiò idea. 

Rimase un razionalista ma nel dubbio – piccolo, silenzioso, come una crepa in una protesi perfetta – qualcosa continuava a respirare.

Ogni tanto, quel dubbio prendeva anche la forma di una frase ascoltata anni prima, sotto il sole rovente di Creta, durante una visita alle rovine di Cnosso; allora la guida – una donna anziana, con una voce ferma e occhi d’ambra – aveva parlato della hybris, l’antica colpa degli uomini che si credevano simili agli dèi.

«Non è punita perché è sbagliata,» aveva detto, indicando le colonne ricostruite, «ma perché è cieca, perché dimentica i limiti. La hybris non nasce dalla forza, ma dall’illusione: quella di poter oltrepassare ciò che ci rende umani senza conseguenze. Gli dèi non punivano per vendetta, ma per ristabilire l’ordine che l’uomo credeva di poter riscrivere.»

Allora Alan aveva sorriso, distratto, convinto che quelle fossero favole di un’altra epoca. Ora però, nel silenzio ovattato della sala operatoria, tra il ronzio artificiale delle macchine e l’odore pungente dell’anestetico, quelle parole tornavano a galla come una verità che si era sempre rifiutato di ascoltare.

Non si trattava di guarire l’anima, qualcosa che per lui continuava ad essere indefinibile e quindi non curabile, ma ricordare alla coscienza i confini biologici; un corpo non si corregge: si maschera e sotto quella maschera, resta fragile, un involucro che, anche quando lo si inganna con la bellezza, non smette mai di appartenere al tempo.


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