lunedì 26 maggio 2025

LA BRECCIA DI CAMBRIDGE

Università di Cambridge, novembre.

Cambridge, in autunno, pareva un luogo trattenuto tra due secoli.
Le guglie gotiche dei college emergevano appena dalla nebbia, come se non volessero essere del tutto presenti, né completamente dimenticate. Il fiume Cam scorreva lento e silenzioso sotto i ponti in pietra, riflettendo luci tremolanti come pensieri incerti.

Il professor Edward Scott-Alcott, storico della seconda metà del Novecento, saliva ogni giorno le scale della biblioteca del Magdalene College con il passo di chi porta con sé più memorie che oggetti. Nella sua borsa di cuoio: libri con le pagine annotate a matita, ritagli di giornale, bozze di saggi mai completati.

La sua stanza era una piccola navata privata della memoria: libri ovunque, mappe appese alle pareti, una scrivania massiccia sopra cui campeggiava, tra le carte, il manoscritto su cui lavorava da anni:

“Fratture della memoria: identità e conflitto nel secolo breve.”

Quel pomeriggio, entrò nel suo studio la studentessa Ava Rescott.
Zaino minimale, tablet tra le mani. Nessuna penna, nessun foglio.

«La mia tesina è pronta, professore. Ho condiviso il file: “Dalla notte al giorno? Retorica e realtà dopo la caduta del Muro di Berlino.”»

Scott-Alcott la ascoltava parlare con lucidità e freschezza di eventi che per lui erano carne viva. Lei citava dati, articoli, documenti digitalizzati, come se il Muro fosse solo un oggetto storico, e non una ferita ancora pulsante nella sua memoria.

Poi, come a caso, Ava chiese:
«Lei dove si trovava, quella notte del 9 novembre 1989?»

Edward la fissò per un istante.
«Ero qui. Seduto proprio a questa scrivania. Passai la notte a guardare la televisione. Berlino si apriva come un polmone dopo una lunga apnea. Le persone ridevano, si abbracciavano, ballavano sopra il cemento. E noi, da qui, pensavamo fosse l’inizio di un’epoca nuova. Una svolta definitiva.»

Fece una pausa.

«Credevamo che con il Muro crollasse anche la paura. La Guerra Fredda. Il rischio nucleare. La Storia stessa, intesa come conflitto. Un’illusione potente. Ma fragile.»

Ava annuì. Ma qualcosa nel suo sguardo tradiva distanza. Non indifferenza. Solo... un altro tempo.

E allora, come spesso gli accadeva in quegli incontri, Edward fu assalito da una sensazione antica.
Un vuoto intergenerazionale, profondo. La percezione che si stessero parlando da due estremità del tempo.

E tornò con la mente al passato. A quando era lui a sedere nei banchi.
Anche allora, i suoi professori raccontavano eventi grandiosi con voce solenne. La fine della Seconda guerra mondiale. I Trattati. La decolonizzazione.
Ma lui, giovane, voleva altro. Cercava parole che parlassero del presente, del caos, dell’urgenza.

"Li ascoltavo con rispetto," ricordò, "ma non li sentivo. Cercavo solo conferme alle mie idee. E adesso... fanno lo stesso con me."

Capì, in quel momento, che il ciclo si ripeteva.
Le generazioni si sfiorano come vetri appannati. Si osservano, ma non si toccano mai davvero.
Gli uni parlano al futuro. Gli altri, al presente. Sempre con lo stesso sguardo rivolto altrove.

Dopo che Ava se ne fu andata, lasciando sorprendentemente un taccuino cartaceo sulla scrivania, Edward lo aprì con curiosità.
Dentro, tra pensieri sparsi, lesse una breve poesia:

"Sogni vecchi e nuovi
che si rincorrono
senza fondersi
né trovarsi.
Mai."

Più tardi, camminando nel cortile interno del college, incrociò Dr. Nathan Clarke, collega più giovane, storico del digitale e dei media post-Guerra Fredda.

«Hai l’aria di chi ha appena rivisto Berlino Est,» disse Nathan, notando il suo volto pensieroso.

«In effetti. Ma non come la ricordavo.»

«Studentessa brillante?»

«Sì. Ma mi ha fatto sentire… un soprammobile del passato.»

Nathan rise piano.
«Benvenuto nel club.»

Camminarono lungo il fiume. Il vento muoveva piano l’acqua, come se anche lei cercasse una direzione. Le luci dei lampioni tremolavano come ricordi.

«Quando ero giovane,» disse Edward, «mi sembrava che i miei professori parlassero da un altro mondo. Li ascoltavo, ma aspettavo solo che finissero, per dire la mia. Ora, mi accorgo che Ava mi guarda nello stesso modo. Non con disprezzo. Ma con la stessa attesa. E io non so più cosa dire.»

Nathan si fermò.
«Ed, forse non dobbiamo parlare. Forse dobbiamo solo esserci. Rappresentare il tempo. Il passato non serve per spiegare, ma per dare spessore al presente. I giovani non ci devono capire. Solo riflettere, per un istante.»

Edward abbassò lo sguardo.
«E se non riflettono? Se scorrono via come il Cam, e non si voltano più?»

Nathan gli mise una mano sulla spalla.
«Allora lasciamo i nostri libri lì, come pietre nel fiume. Qualcuno, prima o poi, ci inciampa.»

Quella sera, Edward rientrò nel suo studio.
Riaprì il manoscritto.

Sotto il titolo, scrisse una nuova frase, senza pensarci troppo:

“Il futuro ci ascolta solo per un attimo. Poi ci dimentica. Ma quell’attimo vale il nostro silenzio.”

E per la prima volta da mesi, sentì che stava davvero scrivendo qualcosa che restava.






Nessun commento:

Posta un commento

Post in evidenza

NOTTI MAGICHE ANTE LITTERAM

25 giugno 1983 – Arrivo al campo mezz’ora prima del fischio d’inizio, di corsa dopo essere riuscito a fuggire da una riunione familiare ...