martedì 27 maggio 2025

BIGLIETTI A BELGRADO



Ogni  mattina, prima che il sole spuntasse sullo skyline irregolare di Belgrado, Lazar usciva dalla sua piccola stanza in affitto nel cuore di Dorćol, uno dei quartieri più antichi e vivi della città.

L’aria era fresca, intrisa di umidità e del profumo pungente del Danubio che si mescolava a quello più dolce delle prime panetterie che aprivano lungo le vie acciottolate.
La città sembrava sospesa, avvolta da un velo di calma fragile come un respiro trattenuto.

I lampioni ancora accesi gettavano una luce arancione che sfumava piano verso l’azzurro nascente del cielo, mentre le prime rondini tracciavano traiettorie nervose sopra i tetti rossi dei palazzi ottomani e austro-ungarici.
Lazar camminava lentamente, assaporando ogni suono: il rumore dei passi sui sampietrini, lo scricchiolio di qualche porta di legno, il lontano canto di un venditore di giornali.

Quella città, con i suoi contrasti marcati, era il suo mondo. Un mondo fatto di strade larghe dove i tram cigolavano, di bar all’aperto dove uomini anziani giocavano a carte con la tensione di chi custodisce segreti antichi, di muri coperti di graffiti che raccontavano rivolte, sogni e speranze mai sopite.

Il ponte Brankov si stagliava maestoso davanti a lui, un arco di metallo che univa due rive separate ma inseparabili, proprio come la sua vita: divisa a lungo tra il desiderio di andare via e il bisogno profondo di restare.

Salì sul battello turistico che quel giorno avrebbe fatto la sua solita mini-crociera sul Danubio e sulla Sava. Il sole si alzava in un cielo che si tingeva di arancione e rosa, e il riflesso dorato sull’acqua calma pareva quasi irreale.
I turisti salivano con valigie leggere e macchine fotografiche al collo, pieni di aspettative e meraviglia. Lazar, in uniforme blu, timbrava i biglietti con un gesto quasi rituale, sentendo la vibrazione metallica del dispositivo sotto le dita, come il battito silenzioso di quella giornata che cominciava.

Faceva il bigliettaio sul battello turistico da sette anni.
Non era una vocazione, né un incidente, era semplicemente accaduto.
Eppure, negli ultimi tempi, Lazar si interrogava con più lucidità, non tanto sul lavoro in sé, ma su quella lunga permanenza.
Perché era rimasto davvero?

Mentre il battello scivolava sull’acqua, la mente di Lazar si perdeva nei ricordi e nelle riflessioni che quel lavoro semplice e ripetitivo aveva fatto emergere in lui.
Pensava a quel regalo prezioso: il piccolo quaderno con la poesia scritta dal professor Novak il giorno della sua laurea.

Il professore non gli aveva mai detto chi fosse l’autore, né se fosse una sua composizione personale.
Lazar aveva cercato quei versi per anni, senza trovare traccia né in libri né in internet; quella poesia, misteriosa e sospesa, era diventata senza saperlo la sua guida invisibile, un’ancora segreta.

Живети је пробудити се у зору,
мислећи да једног дана
више неће бити.

Vivere è svegliarsi all’alba,
pensando che un giorno
non succederà più.

Poi il professore era partito. Venezia.
Una cattedra in letteratura serba, un nuovo pubblico a cui raccontare le storie di una lingua minore, ricchissima e ferita: insegnava letteratura serba a studenti italiani che amavano Ivo Andrić e Desanka Maksimović senza mai aver camminato per Knez Mihailova o sentito l’odore delle pljeskavice a Skadarlija.

Lazar era rimasto.

Prima aveva detto che avrebbe trovato “qualcosa nel suo campo”. Poi era arrivata la malattia della madre. Poi le bollette, poi l’urgenza.
Il battello era stato un compromesso che si era trasformato in abitudine, prima per aiutare sua madre, poi per i conti, per la stabilità ma ormai quei motivi erano svaniti o si erano trasformati. E lui invece era ancora lì.

All’inizio si era detto che non aveva avuto scelta.
Pensò ancora ai suoi genitori, ai vicini, alla signora del panificio che gli lasciava sempre un pezzo di burek in più, ora sapeva che le scelte non si fanno sempre gridando. A volte si compiono restando fermi, senza clamore, resistendo.

Quelle parole gli tornavano in mente ogni mattina, mentre osservava l’alba sul Danubio, fragile e irripetibile come un momento sacro mentre il profumo del caffè appena fatto, mescolato a quello intenso del pane tostato, si diffondeva dalle piccole caffetterie lungo la riva.

Sul battello, osservava invece i turisti come fossero apparizioni.

Alcuni ridevano forte, altri restavano in silenzio con lo sguardo immerso nell’acqua.
Ogni tanto, un bambino gli chiedeva se il Danubio finisse davvero nel mare, o se portasse in un posto segreto.

A volte Lazar si lasciava andare al pensiero che, se fosse salito lui per primo su quel battello, non ne sarebbe mai più sceso.
Forse il fiume lo avrebbe condotto lontano da Belgrado.
O forse no: forse lo avrebbe riportato sempre qui, come un elastico invisibile.

Belgrado non era una città facile.
Aveva la bellezza scomoda delle cose che non si vendono subito: era sporca, rumorosa, ma anche viva come poche; il suo cielo cambiava colore ogni mezz’ora, e l’odore dei tigli in giugno si mescolava a quello della birra e del tabacco.
In certi tramonti, quando il sole si adagiava sulle facciate scrostate dei palazzi di Dorćol, sembrava di essere dentro un film degli anni ’70.
E Lazar, in quei momenti, si sentiva pienamente lì, come se il suo tempo valesse davvero.

Lazar amava quella sensazione di fatica mista a pace, il corpo stanco e la mente limpida come quella “aurora estiva sulla battigia” descritta nella poesia.

Живети је легнути
с телом олабављеним од умора
и умом јасним
као летње зоре на обали.

Vivere è coricarsi
con le membra sciolte dalla fatica
e la mente limpida
come l’aurora estiva sulla battigia.

A volte si sorprendeva a pensare alle tante generazioni prima di lui, costrette a lasciare la città per guerre e povertà, senza mai poter tornare al proprio porto e che avrebbero fatto carte false pur di restare.
Suo nonno Milan, con gli occhi segnati dalla guerra, era uno di quei fantasmi gentili che aleggiavano nella sua memoria.

Живети је знати
да те неко негде
далеко или близу
чека
тражи
мисли о теби.

Vivere è sapere
che qualcuno in qualche posto
lontano o vicino
ti sta aspettando,
ti sta cercando,
ti sta pensando.

Ma chi era quel qualcuno per lui?
Forse non una persona, ma Belgrado stessa, con i suoi ponti, le sue piazze, i suoi rumori e i suoi silenzi.
Belgrado che lo aveva accolto e trattenuto, che gli offriva un porto sicuro, nonostante tutto.

Живети је заспати
са чистом жељом
да зора што пре дође.

Живети је остати будан
са чистом жељом
да зора никад не дође.

Живети није сан,
већ дело.

Vivere è addormentarsi
con il desiderio puro
che l’alba arrivi presto.

Vivere è rimanere sveglio
con il desiderio puro
che l’alba non arrivi mai.

Vivere non è sogno,
è azione.

Aveva pensato spesso di partire.
Andare anche lui a Venezia. Scrivere al professore. Iniziare qualcosa di nuovo.
Ma ogni volta che ci pensava davvero, sentiva una voce dentro che gli chiedeva: partire per dove, se non sai più da dove vieni?

Belgrado non lo aveva mai lasciato andare.
E lui, forse, non aveva mai davvero voluto andarsene.

In quel pensiero, Lazar trovava finalmente la sua verità: non era il viaggio a definire un uomo, ma la consapevolezza del porto al quale tornare: chi parte senza radici è un vagabondo o peggio ancora un profugo o un esule; solo chi sa di avere una casa può essere un marinaio.

La barca scivolava lenta tra le acque tranquille, Belgrado era intorno a lui, con i suoi odori, i suoi suoni, la sua luce.
Lazar timbrava l’ultimo biglietto della giornata, sentendosi fortunato di poter vivere un tempo che, seppur semplice, era suo.

Si sedette infine al molo, con il quaderno sulle ginocchia.
Un ultimo sguardo al cielo che si tingeva d’oro e speranza.
Era consapevole di amare quella città, più di quanto avesse mai immaginato, e che forse proprio quel legame lo aveva tenuto qui, contro ogni dubbio.

Rimanere, pensò, era la sua più grande avventura.

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