martedì 3 giugno 2025

IL DIO MITRA E I SEGRETI DI PETTAU-PTUJ

Non era mai stato a Ptuj, suo padre, sì.

Controvoglia.

Nel 1943, quando Mussolini cadde e l’Italia firmò l’armistizio, i tedeschi inglobarono nel Reich la Bassa Stiria slovena e il Sud Tirolo, invitando molti abitanti della regione germanofona in territorio italiano a trasferirsi forzatamente  a Pettau — oggi Ptuj — nella Bassa Stiria.

La finalità era di germanizzare le scuole e la cultura di quella cittadina dal passato ricco di tanti mutamenti. Professore di lettere classiche a Vipiteno, il padre conosceva Virgilio ancor meglio della lingua che si trovò costretto a insegnare a chi non aveva nessuna voglia d'imparare.

 “Ogni casa che educo alla lingua tedesca è una ferita, ogni parola che impongo è una bugia che si scrive nella bocca di chi non la vuole” aveva letto nei diari del padre, scritti in una calligrafia nervosa e inclinata.

I nazisti lo chiamavano neuordnung - nuovo ordine, ma era una pulizia linguistica: vietare lo sloveno, restaurare il tedesco, far dimenticare delle radici per re-impiantarvi delle altre, che fino al 1919 avevano comunque convissuto per secoli nell’Impero Asburgico.

Il figlio arrivò a Ptuj un pomeriggio di giugno, deciso finalmente a vedere il luogo che aveva plasmato e piegato suo padre. Sembrava una cittadina sospesa nel tempo, ma il tempo – sapeva – qui non era mai stato generoso; la luce del sole lambiva i tetti rossi e il fiume Drava scorreva calmo, come se nulla fosse mai accaduto, ma ogni pietra sussurrava storie e guardandole con attenzione, dolore.

Camminò piano, quasi con rispetto. La città antica si mostrava a piccoli strappi: a nord, il castello medievale dominava la scena, costruito nel XII secolo e arricchito nei secoli con fasti rinascimentali e barocchi; dalle sue mura vide l’ansa del fiume e il campanile di Sveti Jurij - San Giorgio che sfiorava il cielo come un indice  teso. La sua tipica cupola a cipolla riluceva chiara, mentre le case gotiche e rinascimentali del centro storico raccontavano il vociare di commercianti tedeschi, il passeggio austero della nobiltà austroungarica, il rumore dei carri dei contadini sloveni che portavano al mercato i frutti della terra e poi ancora le lotte della resistenza, le grida dei partigiani e dei soldati tedeschi, il crepitio di mitragliatrici, fumo e silenzi.

Silenzio sempre rotto nei secoli dagli stessi rintocchi delle campane della Stolp svetega Jurija  - torre di San Giorgio guidate dai precisi e antichi meccanismi dell'orologio custoditi al suo interno..

Ma la storia di Ptuj era più antica ancora. E più profonda.

Paetovio, così la chiamavano i Romani, fu fondata come castrum fortificato sul fronte del Norico e della Pannonia come un avamposto della civiltà contro l’incertezza barbarica e qui fu stanziata stabilmente la Legio XIII Gemina; proprio da questa pianura, un tempo piena di tende e sudore militare, nel 69 d.C., l’anno dei Quattro Imperatori, i soldati proclamarono imperatore Tito Flavio Vespasiano.

Il figlio si fermò su una panchina, nella piazza innanzi alla Stolp svetega Jurija dove fa bella mostra una stele funeraria romana del II sec. d.C. e molte altre sono incastonate tra le pietre che formano la base di quella che al tempo di suo padre era la Stadt Turm. «Qui l'impero romano si divise per la prima volta tra quattro imperatori», pensò. «E sempre qui, qualche secolo dopo, nacque una donna — Flavia — madre di Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore romano.»

Il primo e l’ultimo, la difficoltà di riconoscere un solo capo, una sola visione, un solo potere e il Tempo che macina ogni umana cosa.

Un cerchio che si chiude, una luce che si spegne o forse solo che si trasforma.

“Non c'è traguardo nella dura e formidabile corsa verso il Bene…”, sussurrò, quasi fosse una preghiera. Era la poesia che sua madre gli recitava da bambino, come ninna nanna e ammonimento; quei versi lo avevano accompagnato per anni, ma solo ora — in questo luogo — sembravano davvero prendere forma.

Nel piomeriggio entrò in uno dei due mitrei, piccole grotte scavate nella roccia fuori dal centro e osservò le statue mutilate di Mitra emergevano dall’ombra: il dio dalla berretta frigia che sacrifica il toro per dare vita al mondo; un culto misterico importato in età imperiale a Roma dall'Oriente, dalla lontana Persia, simbolo di rigenerazione e lotta contro l’oscurità. Il sangue del toro fecondava la terra: dalla morte, vita.

Suo padre l’aveva annotato in uno dei diari:

“Ho portato la lingua di un impero in rovina, in una terra già esausta ma qui, sotto la chiesa barocca, tra le radici profonde, Mitra ride ancora: sa che ogni impero cade, mentre l’uomo cerca sempre la luce.”

Il figlio camminò poio fino al ponte sulla Drava, là dove il fiume rallenta e gli aironi sembrano galleggiare nell’aria: era qui che suo padre, nel maggio del ’45, era stato fermato dai partigiani. «Torna di corsa a casa tua e non guardarti indietro», gli avevano intimato in modo spiccio. Dietro di lui, la popolazione tedesca fatta immigrare pochi anni prima veniva espulsa. L’ordine diventava vendetta, il passato, un debito insaldabile.

L'unico vero Dio in quei giorni era il mitra che soldati tedeschi e partigiani con la stella rossa sul cappello imbracciavano e facevano cantare senza tanti complimenti verso chi era ritenuto un infedele, verso chiunque mettesse solo in discussione i loro ordini, tesedsco o sloveno che fosse.

Ptuj, un tempo Paetovio, era stata romana, gotica, slovena, tedesca, jugoslava e adesso solo slovena: troppe bandiere per un solo nome, troppe identità per una sola anima. Churchill aveva ragione: "I Balcani producono più storia di quanta riescano a digerirne."

“Mi mandarono per cambiare le parole degli uomini,” aveva scritto il padre, “ma furono i luoghi a cambiare le parole dentro di me.”

Ora anche lui, il figlio, era cambiato, aveva creduto di cercare risposte, ma Ptuj gli aveva dato solo rivelazioni.

Non c’era redenzione, non c’erano traguardi.

Solo luce forte, intensa.

Nel lento bruciare del tramonto sulle torri, nel sorriso gentile di una bibliotecaria che gli aveva indicato i resti romani sparsi alla rinfusa, nella pietra consunta dell’altare mitraico.

E allora pensò:

"Chi è più infastidito dal buio della notte,
se non chi si è sempre nutrito della Luce più radiosa?"

"E chi può amare di più,
di colui al quale è stato sottratto l’amore?"

Ptuj non gli aveva dato pace, gli aveva restituito la complessità.

Aveva compreso, in quel frammento di mondo, che la luce non è l’assenza di tenebra, ma la sua accettazione.

Chiuse gli occhi. 

Gli parve di vedere il dio Mitra nell'atto di sgozzare il toro: come diceva suo padre "la luce nasce solo dopo il sacrificio, non c'è Male senza Bene, né Bene senza Male".

E per la prima volta, lasciò che la città lo adottasse.

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