venerdì 6 giugno 2025

POETI, CRITICI E RAGIONIERI

La piazza davanti al municipio di Saint-Malo era viva, ma non affollata e sotto il cielo bretone, grigio e statico come un pensiero rimasto a metà, le bandiere ufficiali sventolavano con la stessa flemma delle buone intenzioni istituzionali. Su una panchina di ferro battuto, proprio di fronte al portone d’ingresso del municipio, due uomini attendevano l’esito di una votazione comunale.

Uno era Étienne Moreau, settantotto anni, scrittore, ex professore, un passato da filosofo mancato e da sognatore disilluso mentre l'altro era Julien Delacourt, trentaquattro anni, avvocato rampante, laureato con lode, incarichi in crescita e capelli sempre perfetti, anche con l’umidità dell’oceano.

Julien era chino sul suo telefono, le dita rapide e nervose, Étienne sorseggiava un caffè preso da una macchinetta automatica, un liquido che avrebbe potuto citare in tribunale per diffamazione al concetto stesso di "bevanda calda".

«Professore Moreau! Ma guarda chi si vede!» esclamò Julien con un sorriso affilato. «Ancora fedele a questa panchina, vedo. Allora, professore… di nuovo qui: immortale come la burocrazia.»

Étienne alzò appena lo sguardo e lo squadrò con una smorfia ironica.

«E tu, Delacourt, come al solito elegante come un avviso di accertamento fiscale e ancora fedele a quel Rolex… e al correre da qualcosa che non ti inseguiva.»

Julien rise. «Sempre acuto.»

«Acuto? Ho solo imparato a tagliare il superfluo: alla mia età, anche le parole costano energia.»

Julien fece un cenno vago con il capo. «Beh, oggi è il grande giorno. Rinnovamento della giunta. Nuove cariche. Aria fresca.»

Étienne soffiò sul caffè, senza berlo. «Ah, la sacra ri-novazione. Un concetto così puro che ormai sa di deodorante da bagno pubblico.»

Julien lo osservò, tra il divertito e l’infastidito, c’era una linea sottile tra ironia e rassegnazione ed  Étienne aveva passato da tempo quella linea, ci camminava sopra come un funambolo ubriaco.

«Lei non ci crede più?»

«Io ci credo, caro il mio brillante avvocato in rampa di lancio, verso dove non si sa... ma credo anche che la parola “nuovo” venga usata come si usano le spezie nei ristoranti economici: per coprire il sapore del vecchio.»

Fece una pausa, poi proseguì con tono più morbido, quasi nostalgico.

«Sai, a vent’anni frequentavo la Sorbona. Non quella plastificata di oggi, ma la vera vecchia scuola, dove l’aria era densa di fumo e idee proibite; il professore di storia delle dottrine politiche aveva l’abitudine di farci discutere per ore, senza mai darci una risposta. “Il sapere è un labirinto,” diceva, “e chi crede di averne la chiave sta solo dormendo.”»

Étienne si appoggiò allo schienale.

«Era frustrante. Oggi lo chiamerebbero “metodo socratico”, ma all’epoca ero solo uno studente che voleva risposte e si ritrovava a fare più domande. All'esame m’interrogò su Kant, e io osai essere sincero, dire quello che pensavo, credendo che avrebbe premiato la mia onestà. “Professore, la ragion pratica è una bella idea, ma quando ti arriva la bolletta, le belle idee non pagano il riscaldamento.”»

Scosse il capo con un mezzo sorriso.

«Il professore, senza scomporsi, replicò: “Moreau, lei è bravissimo a sviare la domanda con l’umorismo, ma assai pessimo nel comprendere come dosarlo nel contesto in cui si trova.” E mi bocciò.»

Julien ascoltava in silenzio, affascinato.

«Rifeci l’esame tre mesi dopo. Il professore entrò, guardò tutti con un’espressione da inquisitore e disse: “Dimostrate di aver capito tutto, o tornate a casa a lavorare.” Io, impavido giovane filosofo, iniziai il mio discorso sull’importanza del dubbio e dell’ironia, stavolta senza divagazioni o battute. Dopo due minuti, mi interruppe: “Bravo, ma qui non vendiamo filosofia, vendiamo politica e certezze. E lei cerchi di non prendersi troppo sul serio.” Bocciato di nuovo.»

Fece una pausa teatrale, poi concluse.

«Alla terza volta, mi chiese di disegnare una retta alla lavagna. Pensava di cogliermi in fallo con una domanda completamente fuori programma, di provocarmi forse; io non mi scomposi e segnai il punto d’origine, tracciando la linea oltre la lavagna, sul muro, fino alla porta. Quando mi chiese dove stessi andando, risposi: “All’infinito.” Mi guardò, annuì e disse: “Ecco, adesso lei ha capito tutto.” E mi diede il massimo dei voti.»

Julien scosse il capo, divertito. «Questo spiega molto del suo scetticismo.»

Étienne annuì. «Da lì ho imparato che la sincerità a volte è una condanna, non un premio e che il potere ama chi parla chiaro… finché non diventa pericoloso. E, soprattutto,  detesta chi non è ricattabile.»

Poi, come se cambiasse registro, raccontò un altro episodio.

«Quando avevo diciassette anni, d’estate, aiutai a costruire un muro in campagna. Il muratore, un uomo con più rughe che espressioni, mi disse: “Non tutte le pietre sono uguali ragazzo: le grezze reggono, le lisce scivolano.” Da allora ho capito che per reggere un edificio — un partito, una comunità, una nazione, un'azienda — servono pietre diverse mentre noi vogliamo costruire tutto con blocchi prefabbricati.»

«Bello. Poetico, ma vintage.» Julien si sistemò la giacca. «Le decisioni oggi si prendono nei board, nei comitati, con metodi scientifici non con le metafore.»

Étienne rise. «Sì, come quella volta in cui una riunione del mio partito si bloccò per tre ore per decidere dove mettere una virgola. Tre ore. Risolse tutto una segretaria di sessantacinque anni: “Togliamola.” E nessuno fiatò.»

Julien rise di gusto. Étienne si limitò a sollevare le spalle.

«Pragmatica. I giovani fanno brainstorming, i vecchi fanno stormi veri: volano e atterrano.»

Un attimo di silenzio, poi Étienne aggiunse: «Il mio primo romanzo parlava di rivoluzione, giustizia, lotta sociale. La critica lo definì “utopico”, i lettori “troppo filosofico”. Vendette poco più delle copie che comprai io per mia madre.»

«Era in anticipo sui tempi, forse.»

«No. Era solo ingenuo e sinceramente pure un po’ noioso.»

Julien lo guardò con un misto di ammirazione e inquietudine. «Ma allora lei propone cosa? Equilibrio? Un governo fatto da poeti, critici e ragionieri?»

«Sì, ma messi nel giusto ordine e nel posto giusto, mi raccomando: il poeta sogna, il critico sconsiglia, il ragioniere paga le conseguenze. Se inverti l’ordine, ottieni solo debiti poetici e delusioni metodiche; ma se vuoi veder crollare tutto come un castello sabbia alla prima mareggiata scegli solo poeti, se vuoi rimanere immobile come una lapide in cimitero affidati ai critici e se invece desideri che i conti tornino mentre muori di noia va in cerca convinta di ragionieri.»

Poi, come se ricordasse qualcosa.

«Una volta, un giornalista mi chiese cosa servisse per cambiare davvero la società. Risposi: “Onestà, coraggio e un po’ di sana pazzia.” Sai cosa andarono in onda? Solo: “un po’ di sana pazzia.” Da allora ho smesso di credere nei media.»

«Censura selettiva?»

«No, editing creativo.»

Un ragazzino inciampò vicino alla panchina. Si rialzò senza lamentarsi e corse verso la madre, distratta dal cellulare. Julien lo seguì con lo sguardo.

«Forse il futuro è suo.»

Étienne annuì, con un mezzo sorriso. «Sì, di chi cade, si rialza… e specialmente se non scrive una petizione sulla caduta.»

Dal municipio iniziarono a uscire consiglieri e funzionari, alcuni con espressioni tese, altri annuendo a vuoto.

Julien scrollò il capo. «Hanno deciso. Tutto come previsto: i “nuovi” sono i vecchi con camicia diversa.»

«Ti sorprende?» ribatté Étienne. «È solo ri-novazione: ripetizione del nuovo su fondamenta vecchie, che però nessuno vuole davvero cambiare.»

Julien rimase in silenzio per un attimo. Poi chiese, quasi per scherzo: «Ha mai pensato di candidarsi?»

«Una volta. Ma poi mi resi conto che sapevo scrivere discorsi troppo onesti… e slogan troppo lunghi.»

Julien rise. Poi si alzò e strinse la mano al vecchio professore.

«Grazie. Anche se mi ha tolto qualche illusione.»

«Ne avevi troppe. Qualcuna devi perderla, altrimenti non vedi la strada. Le altre mantienile pure, altrimenti come fai?»

I due risero insieme e Julien si congedò con un "Touchè!", chinando il capo all'indirizzo del Professore.

Étienne restò seduto mentre il sole cominciava a calare e la sua ombra si allungava ai piedi della panchina, sottile e obliqua. Sorrise di nuovo  guardando l’orizzonte.

«L’edificio non sarà mai perfetto,» mormorò tra sé. «Ma se mettiamo insieme pietre diverse forse sarà meno instabile; altrimenti, prima o poi… crollerà addosso a tutti: poeti, critici e ragionieri che siano. »

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