Era un pomeriggio ventoso di inizio primavera a Cambridge, Massachusetts.
Le bandiere dell'università di Harvard sventolavano con orgoglio sulle guglie in pietra rossa di Harvard Yard. Gli studenti si affrettavano tra un dipartimento e l’altro con laptop sottobraccio, bicchieri di caffè riciclato in mano e una tensione elettrica tipica della settimana prima degli esami parziali.
Il Jefferson Hall, edificio storico delle scienze esatte, ospitava al secondo piano una delle lezioni più temute e insieme più discusse: Mathematical Structures and Limits, tenuta dal professor Elias Rutherford, una leggenda vivente del dipartimento di matematica teorica.
Uomo taciturno, conosciuto per il suo sarcasmo sottile e l'inquietante capacità di rendere la matematica... umana.
Temutissimo dagli studenti e glaciale.
L'aula era una platea a gradoni, gremita oltre la capienza. Alcuni studenti sedevano sulle scale, altri si accalcavano vicino alle finestre aperte. L'aria odorava di carta, stress e sapone disinfettante.
Alle 14:00 in punto, il professor Rutherford entrò. Alto, sottile, capelli d’argento tirati indietro con ordine maniacale, portava con sé una borsa di cuoio scuro e il silenzio con sé.
Non disse nulla. Non salutò. Andò dritto alla lavagna e scrisse con gesto lento e solenne:
How to graph
y = 1/x
Qualcuno alzò gli occhi al cielo. Altri tirarono fuori i tablet. Ma bastarono pochi secondi prima che una voce interrompesse il silenzio.
— Professor Rutherford, con tutto il rispetto…, — disse Aisha, studentessa nigeriana con doppia laurea in filosofia e scienze cognitive — ma non le sembra... riduttivo? Cosa ci dice questa funzione su di noi, esseri umani complessi, emotivi, contraddittori?
— Sì, cioè… siamo qui per parlare della realtà, non per fare esercizi — aggiunse Jack, studente americano di sociologia, biondo e spavaldo, seduto in quarta fila — Le persone non vivono secondo equazioni. Il comportamento umano non è un algoritmo binario.
Altri risero. Lina, una studentessa siriana seduta vicino alla finestra, aggiunse in un tono più serio:
— Forse è questo il problema della matematica: troppo pulita per descrivere il caos del mondo.
Mormorii. Una piccola ovazione. Alcuni studenti batterono le mani, ironici.
Rutherford non si mosse. Aspettò che il chiacchiericcio si spegnesse da solo. Poi, con calma glaciale, scrisse sotto la formula:
“Se il numero di opinioni tende all’infinito, il valore di ciascuna tende a zero.”
Si voltò verso la platea. Gli occhiali leggeri gli riflettevano la luce della lavagna.
— Harvard. L'élite del pensiero globale. Eppure, appena si scrive una formula, scatta la resistenza. Perché? Perché il pensiero matematico non vi consola, non vi accarezza l’Ego, lo disintegra.
Camminava ora lungo la pedana, lentamente.
— Volete parlare di realtà? Benissimo. Guardatevi: centocinquanta studenti, tutti con un'opinione, tutti con una voce, una protesta, un punto di vista, ognuno convinto di avere qualcosa da dire; ma quanti di voi ascoltano davvero?
Un silenzio teso. Rutherford continuò:
— Pensate che la matematica sia fredda, distante, inumana mentre invece è solo precisa e nella sua precisione svela un fatto scomodo: se tutti parlano contemporaneamente, nessuno vale nulla. È una legge, non un’opinione.
Jack sbuffò, ma Aisha incalzò con cortesia:
— Ma professore, davvero crede che una funzione come possa spiegare qualcosa di così vasto come il pensiero umano?
Rutherford si fermò, guardandola dritto negli occhi.
— No. Non tutto. Ma può spiegare ciò che succede quando il pensiero si moltiplica senza ascolto., quando ogni idea viene urlata nel vuoto.
Quando i social network — ah, eccoci al cuore del problema — diventano cimiteri di pensieri sepolti sotto valanghe di commenti, tweet, reazioni. Nessuna profondità, solo volume.
Tutti parlano, nessuno ascolta. Il valore? Zero.
Si voltò e scrisse a lettere chiare:
y = 1/x → valore dell’opinione individuale al crescere della folla.
— Questo non è cinismo, signori: è una diagnosi e i social sono un'ulteriore e potente conferma del mio teorema: più voci avete, meno valore ha ciascuna. L’informazione si trasforma in rumore bianco e quando tutto è rumore, il silenzio diventa l’unica cosa che ha un senso.
Lina, dalla finestra, sussurrò appena:
— Come la quiete dopo la tempesta.
— Esatto. O meglio: come la condizione che dà senso alla parola. Il silenzio non è debolezza, è selezione, è atto critico.
Rutherford tornò alla lavagna e scrisse lentamente:
Com’è bello restare in silenzio quando tutti fanno rumore.
L'intera aula tacque, ora il silenzio era diventato sacro.
Poi, senza che nessuno lo invitasse, Takeshi, uno studente giapponese di ingegneria e logica formale, si alzò in fondo all’aula. Camminò in avanti con rispetto, prese un pennarello e riscrisse tutto in forma di teorema, sotto gli occhi attenti di tutti.
POSTULATO
Sia il numero di opinioni espresse su un evento umano o naturale.
Sia il valore percepito di ciascuna opinione espresso dalla funzione con
TESI
Al crescere del numero di opinioni espresse, il valore di ciascuna decresce fino a tendere a zero quando il numero di voci tende all’infinito.
COROLLARIO
Il silenzio ha valore se e solo se esiste rumore da cui distinguersi.
E tale valore cresce proporzionalmente al caos che lo circonda.
Riposò il pennarello. Tornò al suo posto.
Rutherford guardò la lavagna, poi la platea. Nessuno parlava. Non serviva.
— Ora, — disse — possiamo iniziare.
Applausi.
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