mercoledì 16 luglio 2025

NONNO CONTRO ALGORITMO: LA MEMORIA NON FA LIKE

Il nonno sedeva sulla vecchia sedia in ferro battuto sotto il fico, con la schiena un po’ curva ma lo sguardo ancora vivo. Ogni estate, quando il sole cominciava a battere più forte sulle tegole della casa, si spostava nel punto d’ombra dove i rami tagliavano la luce in strisce oblique. Indossava sempre la camicia bianca, maniche arrotolate, e leggeva il giornale come se stesse decifrando un codice antico. Era stato professore di greco e latino al liceo di Gorizia per più di trent’anni. Andrea sapeva che aveva vissuto il dopoguerra da ragazzo, proprio lì, in quella terra di confine che non somigliava a nessun'altra.

«Hai visto cosa succede in Ucraina?» chiese Andrea, scrollando lo smartphone con un gesto rapido, quasi irritato. «E la guerra a Gaza… un’altra escalation.»

Il nonno sollevò appena lo sguardo, non stupito. Posò il giornale e, per un momento, fissò le foglie sopra di loro.
«La prima vittima di ogni guerra è la verità», disse con tono calmo.

Andrea sbuffò. «Ma dai, non cominciamo con le frasi fatte.»

«È fatta perché è vera», replicò il nonno, senza perdere la pazienza. «Quando si spengono le armi, quando ancora nell’aria si sente l’odore della morte, allora comincia un altro tipo di battaglia: quella sulle narrazioni.»

Andrea lo fissò per un attimo. «Ma almeno oggi abbiamo fonti, video, tracciabilità. Possiamo risalire ai fatti. Una volta magari si poteva mistificare tutto, ma oggi…»

Il nonno fece un gesto lento con la mano, come a zittire l’ingenuità.
«La tecnologia non cambia la natura umana, la amplifica. Le menzogne oggi si diffondono con una luce ancora più accecante: subito s’illuminano quelle dei vinti, mentre ombre lunghe coprono quelle dei vincitori che poi diventano la storia. Almeno fino al prossimo giro di valzer.»

Andrea alzò le spalle. «Ho capito. Sei uno di quelli che cerca la memoria condivisa, no? Quelli del “dobbiamo capirci tutti, metterci d’accordo sulla verità…”»

Il nonno si fece più serio. «No. La memoria condivisa è una sciocchezza. È un’invenzione comoda, un compromesso che appiattisce le differenze. Io la guerra l’ho vista dal basso, quando qui la Venezia Giulia era terra contesa. Italiani, sloveni, croati, partigiani, fascisti in fuga, tedeschi, titini. Era un tempo in cui la paura e l’odio erano sparsi come polvere nell’aria: i partigiani titini portavano via uomini, sparivano famiglie, ma anche i soldati italiani avevano commesso azioni tremende di cui non si parlava mai ad alta voce. E noi bambini imparavamo a stare zitti, a non fare domande. Finita la guerra, qui nella Venezia Giulia, tutti parlavano sottovoce. Gli italiani avevano paura degli slavi, gli slavi degli italiani, i fascisti dei comunisti, i comunisti dei titini, e noi bambini… avevano paura di tutti. Mio padre tornò a casa con la divisa strappata e una faccia che non aveva più voglia di parlare. Ma non diceva la verità. Diceva la sua verità. Non c’era nulla di chiaro, i confini si spostavano come le parole: una strada era italiana al mattino, jugoslava alla sera. Mia madre nascondeva le croste di pane in una federa, per darmele quando tornavo dalla scuola con la giacca piena di sputi perché mio padre aveva combattuto ‘dalla parte sbagliata’. Ma cos’è la parte giusta, Andrea, se nessuno può piangere i suoi morti senza sentirsi accusato? La verità era che nessuno era del tutto innocente e nessuno era colpevole da solo."

Il nipote si fece serio.
«Ma non possiamo relativizzare tutto. Altrimenti nessuno è più responsabile di nulla, si finisce di mettere aggressori e aggrediti sullo stesso piano!»

Il nonno annuì lentamente.
«Vedi, la matematica ti consola perché ha errori assoluti. Due più due non fa mai cinque. Ma nell’uomo, nelle sue scelte, non c’è nulla di così netto, anche ciò che ci appare più sgradevole, più ripugnante, può contenere un minuscolo granello di Verità e se non siamo disposti a cercarlo, allora diventiamo ciechi. Se non vogliamo vedere la verità degli altri, saremo sempre i primi a raccontarci bugie.»

Il nonno si alzò lentamente, appoggiandosi al bastone, e indicò il muretto oltre il quale si apriva la campagna friulana. «Vedi là? Quella casa con le tegole rosse era della famiglia di Lorenzo. Mio compagno di scuola. Aveva dodici anni, come me, quando nel '45, poco dopo la fine della guerra, suo padre fu portato via dai partigiani titini. Sparito. Nessuna tomba, nessuna parola. Per anni ho creduto che fossero solo criminali.»

Fece una pausa, poi si sedette di nuovo. «Poi, da professore, ho letto, studiato, parlato con chi stava dall’altra parte del confine. E sai cosa ho scoperto? Che Lorenzo aveva perso un padre, sì. Ma anche Mateja, la figlia del falegname sloveno, aveva perso il fratello, ammazzato da un plotone italiano nel ’42, senza processo. Eppure nessuno me lo aveva mai detto.»

Andrea abbassò lo sguardo. «E allora? Non c’è via d’uscita?»

«La via d’uscita non è la memoria condivisa. È il rispetto. La pace vera arriva quando ogni parte riconosce le sofferenze dell’altro, quando si ha il coraggio di dire: tu eri mio nemico, ma la tua identità ha valore, la tua ferita è reale; solo allora si comincia a guarire mentre fino a quel momento, si resta prigionieri della propria versione della luce.»

Il fico sopra di loro oscillava leggermente, mosso da un vento caldo che portava con sé l’odore secco dell’erba e del ferro vecchio.

Andrea rimase in silenzio, poi spense il telefono e si alzò.
Andò in cucina, preparò due caffè e tornò con le tazzine. Le posò sul tavolo di ferro, accanto al giornale. Il nonno annuì, quasi sorpreso.

«Grazie.»

«Di niente», disse Andrea. «Forse il dubbio e la memoria sono algoritmi più potenti di quanto pensassi.»

Il nonno sorrise e replicò: „Ma stai attento, non ti farà aumentare mai i like sul tuo profilo“.

mercoledì 9 luglio 2025

SILENZIO UZBEKO, PAROLE FRANCESI


Il sole stava scivolando lento dietro le cupole turchesi del Registan, quando Émile, con il passo rilassato del viaggiatore solitario, si fermò di colpo. A pochi metri da lui, davanti a un venditore di sete, un uomo con una camicia a righe e il cappello di paglia stava negoziando con un’energia familiare.

«Jules?»
L’uomo si voltò di scatto, sgranando gli occhi. «Émile? Ma… Émile Lafont?»

Si abbracciarono senza vergogna, come due ragazzi che si ritrovano a un incrocio improbabile del mondo. Jules era in viaggio con sua moglie Claire e i loro due figli già grandi, turisti entusiasti in un luogo che pareva disegnato dalla fantasia. Émile era da solo, come sempre nei suoi viaggi fuori stagione.

«Non ci posso credere… a Samarcanda!» rise Jules.
«Un caso meraviglioso,» rispose Émile. «Io ho lasciato Parigi per qualche settimana. Volevo silenzio, polvere e cielo.»

Dopo qualche battuta e le presentazioni dei familiari, si salutarono con una promessa seria: vedersi quella sera, solo loro due. Come ai vecchi tempi, ma con la barba grigia e qualche ruga in più.

Quella sera si ritrovarono su una terrazza che dava sulle cupole della città vecchia. Il cielo era una tavolozza che andava dall’ambra al blu profondo. Ordinarono due bicchieri di kumis, il latte fermentato dei nomadi, e si accesero un sigaro uzbeko che profumava di tabacco e polvere.

«Allora,» iniziò Jules, «la grande Parigi ti ha adottato per sempre?»

Émile sorrise, senza compiacimento. «Direi che ci siamo reciprocamente tollerati. Ho studiato diritto alla Sorbona, ho fatto pratica in un piccolo studio, poi ho lavorato vent’anni con la municipalità. Adesso seguo progetti di diritto urbano, politiche abitative, integrazione… non è banale, ma è stato totalizzante. Per molto tempo è stato tutto.»

«Mai una compagna?»
Émile scrollò le spalle con naturalezza. «Ci sono state persone. Belle, anche importanti e il mio tempo era sempre preso e io non ho mai voluto veramente cedere il passo. Forse è stata una scelta, forse una fuga, ma non ho rimpianti. Solo… oggi il ritmo è un altro.»

Fece una pausa, guardando il fumo salire lento. Poi riprese, con voce più morbida:
«Sai, non ho mai avuto paura della solitudine ma ultimamente mi chiedo se, ora che ho sollevato un po’ il piede dall’acceleratore, ci sia ancora spazio per qualcosa di nuovo. Qualcuno con cui condividere questo tempo che si dilata. Non un rattoppo all’ultimo minuto, ma una vera compagnia. Ho vissuto pienamente il mio lavoro, ma oggi sento che potrei vivere pienamente anche altro. E mi auguro, sinceramente, di essere ancora in tempo.»

Jules sorrise, genuinamente. «Lo sei, amico mio e forse ora sei anche più pronto, perché non hai più bisogno di dimostrare tutto a tutti.»

«Forse è così, non cerco più né fuochi d’artificio, né salvataggi: solo una mano capace di camminare vicino alla mia, al passo giusto.»

«E quando succederà,» disse Jules con una risata, «la torta di nozze la faccio io. Ma niente fronzoli, solo burro vero e lamponi freschi.»

Risero entrambi, come due ragazzi in cortile, prima che la vita li portasse in direzioni opposte.

«E tu?» chiese Émile dopo un altro sorso di kumis. «Hai la luce di uno che ha trovato casa.»

«Sì. E l’ho trovata nella farina e nel lievito,» rispose Jules con orgoglio. «Ho lasciato la scuola presto, ricordi? Il liceo non faceva per me. Ho iniziato come garzone in quella piccola pasticceria sulla Promenade. Poi l’ho rilevata, ho sposato Claire — era cameriera lì — e non ho più smesso. Ogni giorno, da allora, è stato pieno. Non sempre facile, ma sempre giusto.»

«Mai avuto voglia di fare altro?»
«Mai. Perché ho fatto ciò che sentivo mio. Le mani sporche di burro, le alzatacce, i clienti che tornano per un pain au chocolat… È una forma di felicità, la mia. E non cambierei nulla.»

Restarono in silenzio, guardando la città spegnersi piano.

«Lo sai, Jules,» disse Émile, «ho visto troppi ragazzi brillanti finire in posti che non gli appartenevano. E altri ancora — silenziosi, profondi — ignorati perché non brillavano nel modo giusto. È una perdita enorme. Non solo per loro. Per tutti.»

Jules annuì. «Quando una persona non riesce a usare i propri talenti, il danno è della comunità. Della collettività. Perdiamo possibilità, energia, bellezza.»

«La scuola dovrebbe avere il coraggio di guardare davvero. Non solo di insegnare. Ma di ascoltare, intuire, accompagnare.»

«Io ho avuto fortuna,» disse Jules. «Non mi hanno ostacolato, questo è bastato. Ma oggi i ragazzi hanno bisogno di qualcuno che li guardi per davvero.»

Le stelle cominciavano a spuntare sopra Samarcanda.

«Ti rendi conto?» sussurrò Jules. «Due nizzardi che parlano di scuola e destino in Uzbekistan.»

Émile rise. «Forse è solo qui che si può davvero fermare il tempo. E capire che cosa ci ha fatto diventare quelli che siamo.»

«O forse,» aggiunse Jules, «è solo la magia dell’amicizia. Quella vera. Che non ha bisogno di spiegazioni. Solo di un sigaro, un drink strano… e un cielo straniero.»

Rimasero lì ancora un po’, a parlare del nulla e del tutto. Con la calma di chi non deve più dimostrare niente. Con la gratitudine sottile di chi sa che l’essenziale, nella vita, lo si può trovare a Samarcanda come dietro l'angolo di casa.

martedì 1 luglio 2025

INCUBI DISSOLTI ALLA QUESTURA




La luce filtrava già dalle finestre, illuminando la sala d’attesa della Questura di Firenze. Erano da poco passate le otto, ma l’aria sapeva già di rinuncia: sudore, scartoffie e caffè bruciato dal distributore automatico. Su una delle sedie di plastica grigia, una ragazza scrollava nervosamente il piede, le mani serrate sul cellulare. Il viso era bello, giovane, acceso da una rabbia ostinata.

«È un incubo… davvero, un incubo. Ho preso un giorno di permesso solo per questo. Il volo è tra tre giorni e quella là, quella stronza con l'aria da "perenne lunedì mattina", più simpatica di un mal di denti mi liquida con un “Il sistema è in blocco da ieri sera, non possiamo procedere con le consegne”. Ma ti rendi conto? Siamo ostaggi di una burocrazia che nemmeno funziona!»

Accanto a lei, seduto con la calma tipica di chi non ha più nulla da dimostrare, un signore elegante, sulla settantina, si sistemò gli occhiali e sorrise.

«Ti capisco, ragazza mia. Io sono qui invece per denunciare lo smarrimento della carta d’identità. La terza volta, se contiamo anche quella finita in lavatrice. Ma almeno… grazie a questa coda ho socializzato con una ragazza giovane. Evento da festeggiare, alla mia età. Già i miei nipoti mi snobbano in maniera permanente, salvo Pasqua e Natale.»

Lei lo guardò, combattuta tra il sarcasmo e un sorriso vero.

«Lei la prende sul ridere, alla sua età e con le sue certezze se lo può permettere. Beato lei.»

«No, no. Non la prendo sul ridere. La prendo da lontano. Che è diverso. Eppoi, mi permetto di darti del tu,  sai qual è l'età migliore? Come diceva Gasmann ne "Il Sorpasso" - l'età migliore è quello che uno c'ha, fin non si schiatta, si capisce.»

La ragazza tornò a fissare il cellulare, ma poi alzò di nuovo lo sguardo, come se qualcosa nelle parole del vecchio avesse trovato un appiglio.

«Io... non riesco a pensarla così,  a prenderla da lontano. È come se ogni cosa fosse sul punto di crollare, sempre. Il lavoro è precario, le relazioni pure, e adesso anche i passaporti… Tutto digitalizzato, tutto instabile, tutto fuori dal nostro controllo: è un mondo ricco e generoso solo nel distribuire illusioni  e io mi ritrovo sempre più spesso a ripetere: mi mancano le certezze, mi mancano le certezze!»

L’anziano annuì piano, poi si voltò a guardarla con uno sguardo più intenso, come se avesse aspettato quel momento per dire qualcosa che gli stava dentro da tempo.

«Sai, quando ero più giovane, vivevo con la paura che accadesse qualcosa che mi stravolgesse la vita in maniera definitiva. La perdita del lavoro, qualcuno o qualcosa che mandasse all'aria la carriera, una malattia, l’addio di una persona cara: erano incubi ricorrenti, sempre lì, sul fondo della mente. E quando qualcosa di tutto ciò è realmente successo… sì, mi ha fatto male, ma non era più un incubo: era diventato realtà e una cosa vera la si può affrontare. Si abita. Si attraversa. Quando l’incubo diventa realtà, cessa di essere un incubo e finalmente hai di nuovo la tua vita in mano, scoprendo energie che neppure sospettavi di avere.»

La ragazza lo fissò. Qualcosa si incrinò dentro di lei — non la rabbia, ma la sua inutilità.

«Dice sul serio?»

«Assolutamente. L’incubo paralizza perché è sospeso mentre la realtà, anche quando è dura, è concreta. Ti obbliga a muoverti, ti costringe a scegliere, a cambiare, e in quel momento — paradossalmente — torni libero. Non sei più prigioniera della paura che succeda qualcosa. È successo. E tu ci sei ancora.»

«È… potente, quello che ha detto.»

L’anziano fece un gesto con la mano come a dire: “Macché potente, , è solo sopravvivenza.” Poi sorrise.

«Sai cosa invece mi manca davvero, ora che tu dici che ti mancano le certezze,  le mie certezze?»

Lei lo guardò, curiosa.

«Le illusioni. Mi mancano le tue illusioni.»

Un attimo di silenzio. La ragazza rise, non forte, ma vera. Quel tipo di risata che non cambia la giornata, ma cambia come la guardi.

Dall’altoparlante gracchiante arrivò una nuova chiamata. Nessuno dei due si alzò.

Poi, con un’espressione più calma, quasi leggera, la ragazza parlò:
«Sa che le dico? Il passaporto e il Kenia possono aspettare. Prenderò il treno e andrò con la carta d'identità fino in Normandia, ora che ci penso ho sempre voluto attraversare le Alpi in carrozza, vedere i paesi cambiare fuori dal finestrino, arrivare a Mont Saint-Michel e mangiare poi ostriche a Cancal... »

L’uomo la guardò con un certo stupore divertito. «E allora cerca di non perdere la carta d'identità come me! buon viaggio! E mi raccomando, ricordati: vai tranquilla e vai serena, qualsiasi cosa accada non ne fare un dramma,  tutt’al più ti arrangerai!”




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