Il nonno sedeva sulla vecchia sedia in ferro battuto sotto il fico, con la schiena un po’ curva ma lo sguardo ancora vivo. Ogni estate, quando il sole cominciava a battere più forte sulle tegole della casa, si spostava nel punto d’ombra dove i rami tagliavano la luce in strisce oblique. Indossava sempre la camicia bianca, maniche arrotolate, e leggeva il giornale come se stesse decifrando un codice antico. Era stato professore di greco e latino al liceo di Gorizia per più di trent’anni. Andrea sapeva che aveva vissuto il dopoguerra da ragazzo, proprio lì, in quella terra di confine che non somigliava a nessun'altra.
«Hai visto cosa succede in Ucraina?» chiese Andrea, scrollando lo smartphone con un gesto rapido, quasi irritato. «E la guerra a Gaza… un’altra escalation.»
Il nonno sollevò appena lo sguardo, non stupito. Posò il giornale e, per un momento, fissò le foglie sopra di loro.
«La prima vittima di ogni guerra è la verità», disse con tono calmo.
Andrea sbuffò. «Ma dai, non cominciamo con le frasi fatte.»
«È fatta perché è vera», replicò il nonno, senza perdere la pazienza. «Quando si spengono le armi, quando ancora nell’aria si sente l’odore della morte, allora comincia un altro tipo di battaglia: quella sulle narrazioni.»
Andrea lo fissò per un attimo. «Ma almeno oggi abbiamo fonti, video, tracciabilità. Possiamo risalire ai fatti. Una volta magari si poteva mistificare tutto, ma oggi…»
Il nonno fece un gesto lento con la mano, come a zittire l’ingenuità.
«La tecnologia non cambia la natura umana, la amplifica. Le menzogne oggi si diffondono con una luce ancora più accecante: subito s’illuminano quelle dei vinti, mentre ombre lunghe coprono quelle dei vincitori che poi diventano la storia. Almeno fino al prossimo giro di valzer.»
Andrea alzò le spalle. «Ho capito. Sei uno di quelli che cerca la memoria condivisa, no? Quelli del “dobbiamo capirci tutti, metterci d’accordo sulla verità…”»
Il nonno si fece più serio. «No. La memoria condivisa è una sciocchezza. È un’invenzione comoda, un compromesso che appiattisce le differenze. Io la guerra l’ho vista dal basso, quando qui la Venezia Giulia era terra contesa. Italiani, sloveni, croati, partigiani, fascisti in fuga, tedeschi, titini. Era un tempo in cui la paura e l’odio erano sparsi come polvere nell’aria: i partigiani titini portavano via uomini, sparivano famiglie, ma anche i soldati italiani avevano commesso azioni tremende di cui non si parlava mai ad alta voce. E noi bambini imparavamo a stare zitti, a non fare domande. Finita la guerra, qui nella Venezia Giulia, tutti parlavano sottovoce. Gli italiani avevano paura degli slavi, gli slavi degli italiani, i fascisti dei comunisti, i comunisti dei titini, e noi bambini… avevano paura di tutti. Mio padre tornò a casa con la divisa strappata e una faccia che non aveva più voglia di parlare. Ma non diceva la verità. Diceva la sua verità. Non c’era nulla di chiaro, i confini si spostavano come le parole: una strada era italiana al mattino, jugoslava alla sera. Mia madre nascondeva le croste di pane in una federa, per darmele quando tornavo dalla scuola con la giacca piena di sputi perché mio padre aveva combattuto ‘dalla parte sbagliata’. Ma cos’è la parte giusta, Andrea, se nessuno può piangere i suoi morti senza sentirsi accusato? La verità era che nessuno era del tutto innocente e nessuno era colpevole da solo."
Il nipote si fece serio.
«Ma non possiamo relativizzare tutto. Altrimenti nessuno è più responsabile di nulla, si finisce di mettere aggressori e aggrediti sullo stesso piano!»
Il nonno annuì lentamente.
«Vedi, la matematica ti consola perché ha errori assoluti. Due più due non fa mai cinque. Ma nell’uomo, nelle sue scelte, non c’è nulla di così netto, anche ciò che ci appare più sgradevole, più ripugnante, può contenere un minuscolo granello di Verità e se non siamo disposti a cercarlo, allora diventiamo ciechi. Se non vogliamo vedere la verità degli altri, saremo sempre i primi a raccontarci bugie.»
Il nonno si alzò lentamente, appoggiandosi al bastone, e indicò il muretto oltre il quale si apriva la campagna friulana. «Vedi là? Quella casa con le tegole rosse era della famiglia di Lorenzo. Mio compagno di scuola. Aveva dodici anni, come me, quando nel '45, poco dopo la fine della guerra, suo padre fu portato via dai partigiani titini. Sparito. Nessuna tomba, nessuna parola. Per anni ho creduto che fossero solo criminali.»
Fece una pausa, poi si sedette di nuovo. «Poi, da professore, ho letto, studiato, parlato con chi stava dall’altra parte del confine. E sai cosa ho scoperto? Che Lorenzo aveva perso un padre, sì. Ma anche Mateja, la figlia del falegname sloveno, aveva perso il fratello, ammazzato da un plotone italiano nel ’42, senza processo. Eppure nessuno me lo aveva mai detto.»
Andrea abbassò lo sguardo. «E allora? Non c’è via d’uscita?»
«La via d’uscita non è la memoria condivisa. È il rispetto. La pace vera arriva quando ogni parte riconosce le sofferenze dell’altro, quando si ha il coraggio di dire: tu eri mio nemico, ma la tua identità ha valore, la tua ferita è reale; solo allora si comincia a guarire mentre fino a quel momento, si resta prigionieri della propria versione della luce.»
Il fico sopra di loro oscillava leggermente, mosso da un vento caldo che portava con sé l’odore secco dell’erba e del ferro vecchio.
Andrea rimase in silenzio, poi spense il telefono e si alzò.
Andò in cucina, preparò due caffè e tornò con le tazzine. Le posò sul tavolo di ferro, accanto al giornale. Il nonno annuì, quasi sorpreso.
«Grazie.»
«Di niente», disse Andrea. «Forse il dubbio e la memoria sono algoritmi più potenti di quanto pensassi.»
Il nonno sorrise e replicò: „Ma stai attento, non ti farà aumentare mai i like sul tuo profilo“.