mercoledì 9 luglio 2025

SILENZIO UZBEKO, PAROLE FRANCESI


Il sole stava scivolando lento dietro le cupole turchesi del Registan, quando Émile, con il passo rilassato del viaggiatore solitario, si fermò di colpo. A pochi metri da lui, davanti a un venditore di sete, un uomo con una camicia a righe e il cappello di paglia stava negoziando con un’energia familiare.

«Jules?»
L’uomo si voltò di scatto, sgranando gli occhi. «Émile? Ma… Émile Lafont?»

Si abbracciarono senza vergogna, come due ragazzi che si ritrovano a un incrocio improbabile del mondo. Jules era in viaggio con sua moglie Claire e i loro due figli già grandi, turisti entusiasti in un luogo che pareva disegnato dalla fantasia. Émile era da solo, come sempre nei suoi viaggi fuori stagione.

«Non ci posso credere… a Samarcanda!» rise Jules.
«Un caso meraviglioso,» rispose Émile. «Io ho lasciato Parigi per qualche settimana. Volevo silenzio, polvere e cielo.»

Dopo qualche battuta e le presentazioni dei familiari, si salutarono con una promessa seria: vedersi quella sera, solo loro due. Come ai vecchi tempi, ma con la barba grigia e qualche ruga in più.

Quella sera si ritrovarono su una terrazza che dava sulle cupole della città vecchia. Il cielo era una tavolozza che andava dall’ambra al blu profondo. Ordinarono due bicchieri di kumis, il latte fermentato dei nomadi, e si accesero un sigaro uzbeko che profumava di tabacco e polvere.

«Allora,» iniziò Jules, «la grande Parigi ti ha adottato per sempre?»

Émile sorrise, senza compiacimento. «Direi che ci siamo reciprocamente tollerati. Ho studiato diritto alla Sorbona, ho fatto pratica in un piccolo studio, poi ho lavorato vent’anni con la municipalità. Adesso seguo progetti di diritto urbano, politiche abitative, integrazione… non è banale, ma è stato totalizzante. Per molto tempo è stato tutto.»

«Mai una compagna?»
Émile scrollò le spalle con naturalezza. «Ci sono state persone. Belle, anche importanti e il mio tempo era sempre preso e io non ho mai voluto veramente cedere il passo. Forse è stata una scelta, forse una fuga, ma non ho rimpianti. Solo… oggi il ritmo è un altro.»

Fece una pausa, guardando il fumo salire lento. Poi riprese, con voce più morbida:
«Sai, non ho mai avuto paura della solitudine ma ultimamente mi chiedo se, ora che ho sollevato un po’ il piede dall’acceleratore, ci sia ancora spazio per qualcosa di nuovo. Qualcuno con cui condividere questo tempo che si dilata. Non un rattoppo all’ultimo minuto, ma una vera compagnia. Ho vissuto pienamente il mio lavoro, ma oggi sento che potrei vivere pienamente anche altro. E mi auguro, sinceramente, di essere ancora in tempo.»

Jules sorrise, genuinamente. «Lo sei, amico mio e forse ora sei anche più pronto, perché non hai più bisogno di dimostrare tutto a tutti.»

«Forse è così, non cerco più né fuochi d’artificio, né salvataggi: solo una mano capace di camminare vicino alla mia, al passo giusto.»

«E quando succederà,» disse Jules con una risata, «la torta di nozze la faccio io. Ma niente fronzoli, solo burro vero e lamponi freschi.»

Risero entrambi, come due ragazzi in cortile, prima che la vita li portasse in direzioni opposte.

«E tu?» chiese Émile dopo un altro sorso di kumis. «Hai la luce di uno che ha trovato casa.»

«Sì. E l’ho trovata nella farina e nel lievito,» rispose Jules con orgoglio. «Ho lasciato la scuola presto, ricordi? Il liceo non faceva per me. Ho iniziato come garzone in quella piccola pasticceria sulla Promenade. Poi l’ho rilevata, ho sposato Claire — era cameriera lì — e non ho più smesso. Ogni giorno, da allora, è stato pieno. Non sempre facile, ma sempre giusto.»

«Mai avuto voglia di fare altro?»
«Mai. Perché ho fatto ciò che sentivo mio. Le mani sporche di burro, le alzatacce, i clienti che tornano per un pain au chocolat… È una forma di felicità, la mia. E non cambierei nulla.»

Restarono in silenzio, guardando la città spegnersi piano.

«Lo sai, Jules,» disse Émile, «ho visto troppi ragazzi brillanti finire in posti che non gli appartenevano. E altri ancora — silenziosi, profondi — ignorati perché non brillavano nel modo giusto. È una perdita enorme. Non solo per loro. Per tutti.»

Jules annuì. «Quando una persona non riesce a usare i propri talenti, il danno è della comunità. Della collettività. Perdiamo possibilità, energia, bellezza.»

«La scuola dovrebbe avere il coraggio di guardare davvero. Non solo di insegnare. Ma di ascoltare, intuire, accompagnare.»

«Io ho avuto fortuna,» disse Jules. «Non mi hanno ostacolato, questo è bastato. Ma oggi i ragazzi hanno bisogno di qualcuno che li guardi per davvero.»

Le stelle cominciavano a spuntare sopra Samarcanda.

«Ti rendi conto?» sussurrò Jules. «Due nizzardi che parlano di scuola e destino in Uzbekistan.»

Émile rise. «Forse è solo qui che si può davvero fermare il tempo. E capire che cosa ci ha fatto diventare quelli che siamo.»

«O forse,» aggiunse Jules, «è solo la magia dell’amicizia. Quella vera. Che non ha bisogno di spiegazioni. Solo di un sigaro, un drink strano… e un cielo straniero.»

Rimasero lì ancora un po’, a parlare del nulla e del tutto. Con la calma di chi non deve più dimostrare niente. Con la gratitudine sottile di chi sa che l’essenziale, nella vita, lo si può trovare a Samarcanda come dietro l'angolo di casa.

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