Cambridge, Massachusetts, inverno 2015
La sala del dipartimento di Psicologia di Harvard era silenziosa, interrotta solo dal ronzio sommesso del proiettore; le finestre gotiche lasciavano filtrare una luce lattiginosa, tipica delle mattine invernali a Boston. John Muiesan, studente all’ultimo anno, si alzò in piedi davanti alla commissione per l’esame di laurea. Dietro di lui, le slide mostravano un titolo insolito: “La Sindrome di Pola: dinamiche di perdita forzata e nostalgia irreversibile”.
John si schiarì la voce.
— «Questa sindrome non si limita a descrivere un lutto, ma un lutto non elaborabile, bloccato. Colpisce coloro che non hanno potuto scegliere l’addio, chi è stato costretto a staccarsi dal proprio luogo d’identità, dalla propria Heimat — uso qui il termine in senso figurato — per salvarsi da una forza invincibile: un capo persecutore, un regime ostile, un gruppo sociale dominante.»
Sul volto dei docenti si alternavano curiosità e perplessità mentre John continuava l'esposizione, con un ritmo che non era solo accademico, ma sapeva di confessione:
— «Il trauma non guarisce del tutto, anche nei casi più resilienti: perfino chi ricostruisce una nuova vita, con successo e relazioni soddisfacenti, resta vulnerabile a improvvisi e dolorosi accessi di malinconia mentre nei casi più fragili, invece, la rabbia divora e conduce a comportamenti antisociali. Il paradosso, che contribuisce a rendere particolarmente dolorosa la convivenza con il disturbo per chi ne soffre, è che il nuovo ambiente non riconosce l’ingiustizia originaria: tende a leggere il traumatizzato come fuggitivo colpevole, mai come vittima di una forza sproporzionata.»
Un professore, il più anziano della commissione, interruppe:
— «Mr. Muiesan, lei ha definito questa condizione Sindrome di Pola. Perché proprio questo nome?»
John si fermò un istante. Guardò le proprie mani. Poi, lentamente, iniziò a raccontare.
— «Perché il termine non fu coniato da uno psicologo, ma da un professore di lettere classiche, originario di Pola, in Istria. Dopo la Seconda guerra mondiale fu costretto, come trentamila concittadini, ad abbandonare la città dei suoi avi senza potervi fare mai più ritorno; rifugiato in Australia, lavorò come orientatore in un ufficio di collocamento a Darwin, dove si accorse che tutti coloro che erano stati forzati a lasciare il lavoro in cui si identificavano presentavano gli stessi segni di sofferenza che lui aveva osservato su di sé e sui membri della sua comunità: rabbia, nostalgia, difficoltà di adattamento. Non si trattava di semplice malinconia, ma di una frattura profonda: il sentirsi ingiustamente esiliati senza rimedio da qualcosa che si considera, a torto o a ragione, una sorta di "paradiso perduto".»
John sollevò lo sguardo e concluse con fermezza:
— «Ed è proprio questo il cuore della Sindrome di Pola: mentre altri traumi possono col tempo essere elaborati, perché la vita concede almeno la possibilità di riconciliazione o un teorico possibile ritorno, qui il dolore resta irrimediabile. Chi ne soffre sa di non poter mai più tornare indietro e la consapevolezza stessa dell’impossibilità del ritorno rende la ferita eterna. La perdita non è solo reale, è definitiva.»
Il Decano prese di nuovo la parola e interrogò il laureando: "Esiste una possibile terapia per liberare il paziente affetto da questa sindrome?"
John rispose senza tentennamenti. "La particolarità di questa sindrome è che non può essere superata del tutto, ed è bene che il terapeuta nel mettere in campo le strategie cliniche ne sia consapevole: dalla sindrome di Pola non si guarisce, però il paziente può imparare a conviverci in maniera funzionale. Nella prassi clinica si osserva un fallimento vicino al 100% di tutti gli approcci che hanno mirato ad aiutare il paziente nel trovare dei "surrogati" del suo "paradiso perduto", mentre buoni risultati danno tutti i percorsi finalizzati all'accettazione della perdita e soprattutto nell'esplorazione e nella ricerca di altre caratteristiche personali che il paziente non ha focalizzato o sperimentato in passato. Questa "conquista" gli permetterà la costruzione di una nuova Heimat ed una sorta di oblio selettivo verso la perdita, che si affaccerà di tanto in tanto, solo quando i nuovi percorsi intrapresi incontreranno degli intoppi. "
Nella sala cadde un silenzio che non era più accademico, ma umano. La luce fuori si fece più bianca, riflettendosi sulle pareti. John fece un passo avanti e aggiunse, con voce più intima:
— «Il fatto che io abbia scelto di laurearmi con questa tesi è esso stesso prova di quanto in profondità essa accompagni chi ne soffre. Io stesso sono nipote di un profugo polesano che nel 1947 sbarcò con la sua famiglia sulla costa est degli Stati Uniti. Le sue cicatrici, i suoi silenzi, i suoi improvvisi scatti di malinconia hanno attraversato le generazioni. Io sono qui anche per lui.»
La commissione rimase immobile. Uno dei professori si tolse gli occhiali e li pulì lentamente, più per nascondere la commozione che per necessità. Il più anziano sospirò e mormorò, quasi a sé stesso:
— «Sì, non c’è guarigione quando il ritorno è impossibile.»
Si scambiarono sguardi brevi, intensi. Poi il presidente si chinò verso gli altri membri. Quando rialzò il capo, annunciò solennemente:
— «Mr. Muiesan, la sua tesi viene approvata con il massimo dei voti e la lode.»
Un applauso riempì l’aula, stavolta non solo formale, ma attraversato da un calore inatteso. John sorrise appena, senza trionfo, con la discrezione di chi sa che quel riconoscimento non era soltanto accademico, ma un atto di memoria e di giustizia verso chi non aveva mai potuto tornare al proprio paradiso perduto.