lunedì 24 luglio 2017

IN DIFESA DI DON QUIJOTE DE LA MANCHA

Nell'immaginario collettivo la figura di Don Chisciotte, personaggio centrale del celeberrimo romanzo di Miguel de Cervantes Saavedra El ingenioso hidalgo Don Quijote de la Mancha, è quella di colui che combatte battaglie contro avversari immaginari, che vive scollegato dalla realtà oggettiva e sistematicamente esce sconfitto dagli scontri contro avversari che chiaramente sono più forti di lui; nella nostra cultura venire descritti come un Don Chisciotte o come uno uso a combattere i mulini a vento è circostanza che assume una connotazione negativa nei confronti del destinatario. Personalmente ho sempre provato invece tenerezza e simpatia per l'hidalgo Alonso Quijano, che dopo aver fatto "indigestione" di romanzi cavallereschi ne rimane talmente folgorato dagli ideali contenuti che si autoproclama Don Quijote de la Mancha, lascia la sua vita ordinaria per iniziare un “folle” viaggio errante finalizzato a vivere seguendo le finalità e gli ideali del mondo che ha appreso e favoleggiato grazie alle sue morbose letture.
La Spagna in cui lui si muove non è il terreno conosciuto nei suoi romanzi, non ci sono più i mori da combattere, non ci sono Dame da salvare, non esistono i Giganti, gli Ippogrifi, le Chimere o altre figure zoomorfe e i risultati delle sue imprese non possono che avere esiti finali disastrosi per lui e tragicomici per gli osservatori e per i lettori.
Sappiamo che Don Chisciotte è destinato a perdere sistematicamente in ogni avventura usando le lenti della realtà fattuale, tanto che in punto di morte Miguel de Cervantes fa prendere consapevolezza al suo personaggio facendogli esclamare ”Congratulatevi meco, miei buoni amici, chè io ho cessato di essere don Chisciotte della Mancia, e sono quell’Alonso Chisciano che per i miei esemplari costumi ero chiamato il buono (…); adesso mi vengono in odio tutte le storie profane della cavalleria errante; adesso conosco la mia balordaggine ed il pericolo che ho corso nelle mie letture; adesso per misericordia del Signore Iddio imparo a mio costo a dispregiarle e ad averle in abbominazione.„ 
Ma la chiave di lettura che mi ha sempre reso simpatico Don Chisciotte è un’altra, non certo il suo “pentimento” finale.
Durante la sua “pazzia” Don Chisciotte “percepisce” davvero i Giganti in luogo di Mulini a vento, rimane profondamente e sinceramente estasiato dalla “bellezza” della nobildonna Dulcinea del Toboso anche se questa agli occhi del mondo è una donna grassoccia e senza alcun quarto di nobiltà, davvero “vede” un esercito di mori in quello che altro non è che un gregge di pecore: se invece di visioni fantasiose create dalla sua mente si fosse trattato di veri Giganti, di nobildonne ed eserciti reali sarebbero mutate le sue emozioni? Sarebbe mutato il suo comportamento? Sarebbe variato il suo impegno nella sfida? No. Di certo. 
In questo senso Don Chisciotte vive “realmente” la Vita che desidera. Fa le esperienze a cui aspira. In questo senso Don Chisciotte è stato un “vero” cavaliere errante.
Il resto del mondo lo considera un pazzo. Per la moderna psichiatria sarebbe definito un soggetto afflitto da grave disturbo psicotico, privo completamente di esame della realtà.
Il suo fidato scudiero Sancho invece, pur sapendo bene che quelle del padrone sono sempre state solo visioni autoindotte, gli resta fedele e finisce con l’assecondarlo sino sul letto di morte, quando addirittura lo incoraggia annunciando “che la signora Dulcinea non è più incantata e che ci manca tanto poco per diventare pastori e passare cantando la nostra vita beatamente, vossignoria si vuol far romito?” senza comprendere che infine il padrone è “rinsavito”.
La questione finale è: siamo sicuri che tra la “psicosi” di Don Chisciotte che passa la sua vita convinto di combattere creature fantastiche e di essere un cavaliere errante che dedica le sue gesta per salvare gli oppressi in onore della sua Dama e un uomo o una donna che passano invece tutta la vita svolgendo ogni giorno passivamente azioni che non vorrebbero fare, che ritengono prive di senso alcuno ma che continuano a ripetere in ossequio ad un generico (ma non compreso) “senso di un dovere” capace di bloccare ogni tentativo di “ribellione”, confinando i propri desideri nel mondo del fantastico e dell’onirico, la patologia da curare sia solo quella dell’ispanico?
Ammesso che esista, a ciascuno sua la risposta.
Io mi limito a segnalare che, al Notaio giunto per la redazione del testamento dell’hidalgo Alonso Quijano, Miguel de Cervantes, mette in bocca queste parole: “Non ho mai letto in alcuna opera di cavalleria che un cavaliere errante sia morto nel suo letto così tranquillo e così cristianamente rassegnato come don Chisciotte.” Chissà cosa avrebbe fatto a dire al Notaio, dopo la fatale dipartita di un “comune” e “normodotato” mortale. 

Questo l’epitaffio di Sansone Carrasco.

“Giace qui il forte hidalgo salito a tal grado di valore, che morte non potè trionfare di lui nel suo morire.

“Affrontò tutto il mondo e vi recò lo spavento; e fu sua ventura viver pazzo e morir rinsavito.„

Chissà, forse la figura del nostro ingenioso Hidalgo, meriterebbe diversa considerazione.
Per parte mia, tanta tenerezza e tanta simpatia. OLE’!

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