lunedì 1 dicembre 2025

L'ALTOFORNO

Nell’aula di chimica il neon tremolava come un vecchio televisore Telefunken, e l’odore era quello classico dei mattini invernali delle scuole tecniche: gesso, gasolio dei termosifoni e un vago sentore di disperazione adolescenziale.

Tutte le fila sedevano composte come un coro di monaci. Tutti impauriti, tutti ligi, tutti col righello allineato.

Tranne Roversi, in ultima fila, solitario, dedito a chissà qualche attività ludica vietata per passare il tempo.

Roversi — che l’anno prima era stato, dicono, uno dei migliori… o forse erano solo voci, ricordi sfumati, roba che ormai nessuno avrebbe giurato vera — adesso si presentava con gli anfibi, la giacca di jeans con la scritta “METAL” fatta col bianchetto e una postura da teppista zen: immobile, sprezzante, in totale armonia con il proprio menefreghismo.

Il professore di chimica-merceologia, un uomo scolpito nelle occhiaie e nei diagrammi di fase, entrò con il registro sotto braccio come un boia con la scure.

Puntò subito Roversi. Lui, ovviamente. Era come se il destino dicesse ogni giorno: “Eccoti l’arena, ecco il toro.”

Il professore avviò l’interrogazione con voce burbera:

«Di quali parti è costituto un altoforno?»

Roversi sollevò il mento. Non per obbedienza: solo per vedere se dal soffitto stesse per cadergli in testa qualcosa di interessante.

«C’è un crogiolo…»

(Una pausa enorme, nella quale sarebbe potuta fiorire una felce tropicale.)

«…un ventre…»

La classe trattenne il fiato, come se qualcuno stesse maneggiando dinamite.

«Ehi ehi ehi… mettimeli in ordine…»

Roversi si stiracchiò le spalle, come un meccanico che ha appena deciso di non aggiustare niente.

«C’è un crogliolo… una sacca…»

Altri due compagni si fecero il segno della croce. Non si sa mai.

Il professore sbottò:

«Ehi ehi, in ordine ho detto! La bocca di essicazione andò stà?»

Roversi, dopo una pausa talmente lunga che sembrava meditativa, illuminante, forse addirittura cosmica, rispose:

«…in basso.»

Il professore cambiò tre colori in due secondi. Poi esplose:

 «La fessa di tua zia stà in basso!!»

Il registro fece un tonfo da ghigliottina. Il voto apparve sul foglio come una sentenza tombale.

E fu così che, tra gli sguardi terrorizzati della classe, Roversi — il nuovo Roversi, quello senza paura, senza deferenza, senza più neppure l’ombra di quello che forse era stato — tornò al suo posto con la camminata di chi rientra al bar dopo aver vinto una rissa.

Il prof si arrese con un sospiro-trombone e riprese a spiegare, mentre la classe — tutta — cercava di non guardare Roversi, come si evita di fissare un temporale per non attirarlo.

Eppure, in quell’aria sospesa da anni ’80, tra carte geografiche scollate e il ticchettio dell’orologio, c’era qualcosa di buffo e malinconico: la sensazione che un giorno, molti anni dopo, si sarebbe ricordata più quella sfrontatezza di Roversi che tutte le lezioni messe insieme.

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