(Udine, marzo 1986)
Avevo deciso solo all’ultimo. Italia–Austria allo Stadio Friuli, amichevole pre-Mondiale: occasione irripetibile, mi dicevo, soprattutto per uno studente universitario che di solito le partite le vedeva in televisione, tra libri di diritto e panini con la mortadella.
La terza volta che la nazionale maggiore giocava ad Udine, dopo i precedenti con la Svizzera del novebre 1979 e con la Germania sbagliata, quella dell'Est, il giorno di Pasqua del 1981. Tutte amichevoli.
I mondiali messicani erano ormai prossimi e non potevo certo mancare alla possibilità di vedere con i miei occhi se il Vecjo era riuscito in qualche modo a sistemare i suoi azzurri per la difesa del titolo mondiale conquistato in Spagna 4 anni prima, anche se Paolo Rossi, come cantava Antonello Venditti, era diventato "un ragazzo come noi", ed era lontanissimo parente del Pablito "manolete" di Barcellona e Madrid.
Così, in quella mattina fuori dall'ordinario, lasciai aperto sul tavolo della camera il manuale di diritto pubblico e mi lanciai all’avventura con il mezzo più improbabile del Triveneto, e forse dell'Italia intera: la Fiat 850 special color sabbia di mio zio.
Identica a quella che usava Sergio Benvenuti, quando non era Manuel Fantoni, in "Borotalco".
Ero un neopatentato e in quel tempo il possesso di un automobile tutta per sè era appannaggio o di chi si era già procurato un lavoro oppure faceva parte dell'alta aristocrazia "borghese" come avrebbe dedotto il geometra Calboni.
Ed io non rientravo in nessuna di queste categorie.
Però c'era lo zio. Lui era il proprietario della mitica 850 color sabbia che non usava più da un bel pezzo e che aveva riconvertito a serra invernale. Letteralmente. Dentro ci teneva le piante da vaso: gerani, qualche ficus stanco, chissà forse persino un’orchidea fallita.
Così arrivata la primavera, me l'aveva imprestata fino al prossimo inverno.
Quando la guidavo, sentivo il profumo di terriccio e anticongelante fuso col sudore delle decadi. L’autonomia era di venti chilometri: poi l’acqua del radiatore cominciava a bollire, e giuro che una volta mi sfiorò l'idea di buttarci dentro gli spaghetti; l’avevo soprannominata Il Veliero: ogni curva produceva un lamento degli ammortizzatori che pareva il cigolio degli alberi di un galeone sotto vento. Navigare sì, ma costantemente per mare in tempesta.
Arrivai in centro a Udine in prossimità dell’orario di chiusura della Fogolâr Viaggi, dove vendevano i biglietti. Naturalmente non c’era un solo parcheggio libero. Nemmeno l’ombra. Il centro pareva un formicaio imbottigliato: Golf diesel, Uno bianche, qualche 127 superstite e l’immancabile Panda 30 che tutti disprezzavano ma tutti, sotto sotto, desideravano.
Poi, come un’apparizione mariana, scorsi un posto libero proprio davanti all’ingresso del palazzo di fronte all’agenzia. Libero. Vuoto. Pulito. Liscio. Un invito del destino.
«Tanto entro, compro il biglietto ed esco. Cinque minuti. Nessun vigile può essere così rapido», mi dissi con l’incoscienza di chi non ha ancora compiuto vent’anni.
Parcheggiai. Il Veliero gemette come sempre, azionai il freno a mano e corsi dentro.
Naturalmente, dentro c’era coda. Non una coda normale: una coda biblica, una serpentina umana di gente col giaccone della nazionale e l'immancabile Gazzetta rosea sotto al braccio. Gli ultimi biglietti scottavano in mano ad impiegati ormai iracondi come Lucifero nel canto finale dell'Inferno.
Quando uscii, mezz’ora dopo, col mio prezioso tagliando in tasca e la sensazione di aver scalato il K2, vidi la scena.
L’850 era piantonata da due agenti di Polizia di Stato.
Li osservai da lontano, facendo lo gnorri. Loro si voltarono verso di me inerpicando lo sguardo sull’auto e poi sulla mia faccia, come se faticassero a credere di aver finalmente trovato il proprietario.
Il primo parlò con un tono tra lo stupito e l’offeso:
— «Ti abbiamo aspettato invece di chiamare subito il carro attrezzi per la rimozione… eravamo troppo curiosi di vedere chi fosse il figo che aveva parcheggiato questa Ferrari nel posto del Prefetto.»
Ferrari. Aveva detto Ferrari.
Gettai un’occhiata al Veliero: paraurti arrugginito, sportello sinistro che si apriva solo con un colpo di fianco, vernice color sabbia scolorita dal sole. Una Ferrari in effetti, se il Cavallino fosse stato un geranio.
Provai una scusa:
— «Non sapevo fosse il posto del Prefetto… chiedo scusa... pensavo di stare due minuti… stavano per chiudere…»
L’altro agente scoppiò in una risata incredula:
Io annuii, mortificato ma non troppo. Forse la nonchalance fu la mia salvezza. Forse il destino aveva deciso di applicare le attenuanti generiche e la condizionale. O forse la semi-infermità mentale, riservando le penitenze adeguate per gli anni a venire.
E mentre nella mia mente incominciavano invece a formarsi gli scenari più cupi e catastrofici, la Pietà mosse, come avrebbe detto il Sommo Poeta, l'Alto Fattore senza dover neppure costringermi a scalare la montagna del Purgatorio.
Non vollero neanche vedere i documenti. Niente targa, niente libretto, niente sermoni.
— «Vada via, subito. Prima che torni il Prefetto. E per carità, non la parcheggi davanti alla Questura se non vuole trovarsi la Digos sotto casa questo pomeriggio.»
Salpai a bordo del Veliero con la fretta di una ciurma di marinai di un galeone spagnolo sfuggito ai pirati di Barbanera; la nave, ops, la Fiat 850 special partì tossendo come un marinaio con quarant’anni di porto alle spalle, e mi riportò oscillando più che mai verso casa, con il biglietto in tasca, il cuore che batteva alla velocità di un compressore e l'occhio sul radiatore per capire quando sarebbe arrivata l'ora di buttarci la pasta e fermare la corsa.
Per la cronaca l'indomani l'Italia vinse 2-1, ma quando in autuno fu tempo di riconsegnare il Veliero al suo porto sicuro e alle sue piante, l'Italia di Bearzot, crollata in Messico, non esisteva più.
Sia il Veliero che il Vecjo erano diventati leggenda, oltre che essere giunti alla meritata e definitiva pensione.

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