martedì 16 dicembre 2025

SEI MUTA STASERA FINESTRUOLA

 

Ho già avuto in altre occasioni modo di chiarire come per Giffoni, Remfutti, Leonardo, Romano, Gambero e coetanei, la presenza di 3000 militari accasermati nel territorio della loro cittadina di 11.000 anime fosse una tragedia epocale per la loro vita sociale in gioventù.

E, soprattutto, per i loro ormoni fuori controllo in quella fase della vita in cui bisogni e appetiti ancora  sconosciuti sgorgano con l’impeto di torrenti in alta montagna.

Come utilizzare e sfogare, dunque, tutta quell’energia confinata allo stato latente?

L’attività sportiva, certo, era un rimedio efficace, ma di sicuro non riusciva a canalizzare utilmente il potenziale energetico che si accumulava ogni giorno di più, come la differenza di potenziale che crea una diga quando blocca la portata di un fiume.      

In mancanza di soluzioni convincenti, quell’energia allo stato latente prese la via della vendetta: in qualche modo bisognava “punire” quelli che erano ai loro occhi i responsabili di quella cattività esistenziale, i militari stessi.

Così, una sera di noia qualunque, ecco il colpo di genio che sbloccò la situazione: la camera di Giffoni si trovava all’ultimo piano di un palazzo prospicente la via principale che conduceva i militari di leva alla caserma e la camera aveva un’unica finestra fronte strada coperta da una tapparella “veneziana” che consentiva, opportunamente posizionata, agli occupanti della stanza di vederci attraverso la strada, mentre dalla strada la finestra appariva chiusa.

I militari stavano come al solito rientrando rumorosi sciamando a frotte; tra Giffoni e Gambero ci fu uno sguardo d’intesa: posizionarono in modo utile la veneziana ed iniziarono a “battere la stecca” con violenza mentre in strada un drappello di militi aveva appena oltrepassato la linea della finestra.

A questo punto si rende necessaria una precisazione pedante ed ultronea per gli albicriniti, ma essenziale per tutti coloro che non hanno prestato servizio militare: “battere la stecca” era un suono che veniva prodotto facendo  sbattere con perizia il dito indice contro l’unione del medio con il pollice attraverso un movimento rapido del braccio; questo gesto veniva indirizzato dai congedanti nei confronti delle reclute ( i “rospi”)  in segno di scherno.

La reazione in strada fu immediata: i militi si fermarono di scatto per cercare di capire da dove arrivava quel suono “familiare” e poi iniziarono con imprecazioni varie.  “Chi è che batte la stecca?? Fatti vedere!!  Vieni giù!!” La manfrina proseguì per qualche minuto prima che gli sventurati in grigioverde fossero costretti ad affrettare il passo per rientrare in caserma ed evitare il “mancato rientro”.

Giffoni e Gambero ridevano e si rallegravano come se avessero scoperto la caverna dei quaranta ladroni; forti di quella scoperta iniziarono quasi tutte le sere a ripetere il rituale, indirizzando tra le tapparelle anche qualche “Muti rospi” ai malcapitati, tanto per alzare la tensione e far raggiungere il climax alle reazioni in strada.

Il piano era perfetto: i militari non avevano tempo per capire esattamente da dove arrivavano suoni e  sfottò, considerato che avevano i minuti contati per rientrare in caserma; la situazione non faceva altro che aumentare la loro furia che veniva sfogata con insulti spesso coloriti dall’intercalare dei vari dialetti italici: “Addamurittu!  (Devi morire tu!) Capecchio’! (Capo del chiodo: testa di cazzo) Faccica’ (Faccia di cazzo).“ oppure in perfetto italiano come “Vieni giù, devi morire in Friuli! Ce le ha le corna tuo padre? E tua madre?”

Nel frattempo, Giffoni e Gambero continuavano imperterriti a battere la stecca senza curarsi minimamente delle minacce che arrivavano dalla strada come un fiume in piena; una sera qualcuno cercò addirittura  di scalare il palazzo arrampicandosi, inutilmente, su di una grondaia. Tra l’altro, sul lato sbagliato della strada.   

Una sera, mentre Giffoni stava comodamente a letto intento nel ripassare gli appunti di diritto per l’interrogazione prevista il giorno dopo, dalla strada udì un rabbioso: “Sei muta stasera eh? Finestruola di merda!”

L’errore fatale di Giffoni e Gambero fu di non custodire per sé il tesoro che avevano trovato per vincere la noia e vendicare gli ormoni insoddisfatti, decidendo di condividere con Remfutti, Leonardo e Romano le loro avventure serali.

Il risultato fu che, un sabato sera, dietro la finestruola magica della camera di Giffoni,  oltre a Gambero e ai citati, volle essere presente anche un loro compare di cui “è pietoso tacere anche il nome” come avrebbe detto Adso da Melk ne Il nome della rosa.

L’Innominabile, non pago del copione che andava in scena in strada provocato dietro le veneziane, d’improvviso ordinò imperiosamente: “Tenetemi i piedi!”, così facendo alzò bruscamente la tapparella sporgendosi verso la strada, battendo a due mani la stecca.

La reazione sotto fu immediata: i militi triplicarono gli insulti come leoni in gabbia che finalmente vedono vicina la preda in carne ed ossa dietro le sbarre, ma ancora irraggiungibile.

La conseguenza più drammatica, però, si manifestò il giorno seguente; i militi avevano identificato il palazzo a cui apparteneva la finestruola e così furono in grado di capire che il portone di accesso si trovava qualche decina di metri più indietro, circostanza su cui Giffoni e Gambero avevano fatto affidamento per non essere scoperti.

Nel pomeriggio Giffoni dalla terrazza interna si accorse che due energumeni vagavano nella corte del palazzo alla ricerca di “qualcosa” e quando lo videro, con fare minaccioso, gli domandarono: “Chi è che abita all’ultimo piano?”

Giffoni, compresi il pericolo e la gravità della situazione, fece immediatamente lo gnorri e, ostentando sicurezza, si fece trovare pronto: “Abita uno di questa famiglia che al momento non è in casa; devo riferire qualcosa?”

La risposta dell’energumeno fu lapidaria: “Si, digli che se rompe ancora il cazzo la sera gli apriamo il culo come un copertone”.

Non ci fu bisogno di ulteriori chiarimenti.

Il “tesoro” era svanito, la finestruola tacque per sempre.

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