CIVIDALE ON TIME
Sport, Memoria, Pensieri & Arte varia oltre il Natisone dall'antica capitale del Friuli
martedì 2 settembre 2025
VOLO ALFA-OMEGA FIUMICINO-MALPENSA
giovedì 28 agosto 2025
LA SINDROME DI POLA
mercoledì 30 luglio 2025
BLANCHIMONT
Luca spinse il borsone nel bagagliaio della Golf con una certa violenza. I jeans bagnati, la felpa zuppa sulle spalle, in mano una Red Bull tiepida. L’autogrill belga odorava di carburante e pane raffermo, e l’umidità gli appiccicava i pensieri addosso come uno strato di vinile.
Mattia rientrò con due panini sottovuoto e due caffè lunghi, il vapore che si arrendeva all’aria grigia.
«Tranquillo. Siamo a meno di un’ora. Le FP1 non le perdiamo.»
«Sì, ma se non guidavi come tuo padre, che viaggia come un funzionario dell’INPS, eravamo già là. A volte mi sembra che tu abbia paura di avere fretta.»
Mattia si sedette al volante. Non si giustificò, accese il motore, lasciandolo girare piano e poi, fissando la pioggia sottile che batteva sul parabrezza, disse:
«Sai perché mio padre preferisce Blanchimont a Eau Rouge?»
Luca lo guardò con fastidio.
«Perché è uno di quei boomer che vogliono sentirsi originali? Dai, tutti sanno che Eau Rouge è la curva più iconica.»
«Appunto. Eau Rouge è un salto. Uno schiaffo in faccia: ti lanci, stacchi e speri che la macchina tenga. È giovinezza pura; Blanchimont invece… lui dice che è la più pericolosa perché ti frega quando pensi che non succederà più niente.»
Luca fece una smorfia. «Mi sa che tuo padre ha bisogno di uno psicologo.»
Mattia sorrise appena. Poi continuò:
«Dice che nella prima metà della vita siamo ossessionati dalla fine delle cose. Prima finire la scuola, poi raggiungere la laurea, terminare il servizio militare, superare il tirocinio, andare oltre la gavetta. È tutto un voler passare oltre, con il tempo sembra non finire mai, che passa lento. Troppo lento e la felicità è sempre dopo.»
Luca, con la fronte appoggiata al vetro, replicò con aria annoiata: "Nessuno oggi fa più il militare".
Mattia riprese subito il discorso.
Luca scrollò le spalle.
«Ma che c’entra con noi? Noi siamo prima. Non c’è niente da trattenere. C’è solo da correre.»
«Lo so. E non ti sto dicendo di rallentare. Lui mi ha detto solo questo: che a un certo punto capisci che la felicità non è arrivare, ma essere dentro: dentro alla curva, proprio quando la stai facendo. E che è un attimo, ma se lo perdi, non torna.»
Il resto del viaggio scivolò via quasi in silenzio. I due ragazzi entrarono a Spa-Francorchamps mentre il cielo apriva sprazzi pallidi tra le nuvole. Avevano trovato posto in zona Blanchimont, tra pochi intimi che avevano scelto proprio lì, dove la pista taglia l’illusione della velocità facile.
Il rombo di una Red Bull in simulazione gara ruppe l’aria. La vettura passò incollata all’asfalto, perfetta. Dietro, una Ferrari — livrea opaca, baricentro basso, rumore pieno — forzò un po’ di più. Il pilota cercava il limite.
Poi, improvviso, il posteriore cedette. Forse una traiettoria troppo interna, forse l’asfalto ancora umido: la vettura scivolò, ruotò su sé stessa. Testacoda. Ghiaia. Bandiera gialla.
Luca si alzò in piedi di scatto. «Cazzo. Era dentro. Tutto sotto controllo. Poi fuori. Così. Ma come cazzo si può??»
Mattia non disse nulla. Lo guardava senza fissarlo.
«Blanchimont, eh?» disse Luca, ancora in piedi.
«Già.»
«Ok. Ok. Però domani guido io. E niente soste.»
Mattia annuì. Senza discutere.
Luca si sedette di nuovo. Addentò il panino, poi mormorò, quasi tra sé:
«Comunque… è una gran curva.»
«Sì. La più vera che c’è.»
Rimasero lì. Uno, a osservare. L’altro, a sentire il motore ancora tutto da spremere.
mercoledì 23 luglio 2025
DUE E QUARANTADUE DEL MATTINO
mercoledì 16 luglio 2025
NONNO CONTRO ALGORITMO: LA MEMORIA NON FA LIKE
Il nonno si alzò lentamente, appoggiandosi al bastone, e indicò il muretto oltre il quale si apriva la campagna friulana. «Vedi là? Quella casa con le tegole rosse era della famiglia di Lorenzo. Mio compagno di scuola. Aveva dodici anni, come me, quando nel '45, poco dopo la fine della guerra, suo padre fu portato via dai partigiani titini. Sparito. Nessuna tomba, nessuna parola. Per anni ho creduto che fossero solo criminali.»
Fece una pausa, poi si sedette di nuovo. «Poi, da professore, ho letto, studiato, parlato con chi stava dall’altra parte del confine. E sai cosa ho scoperto? Che Lorenzo aveva perso un padre, sì. Ma anche Mateja, la figlia del falegname sloveno, aveva perso il fratello, ammazzato da un plotone italiano nel ’42, senza processo. Eppure nessuno me lo aveva mai detto.»
mercoledì 9 luglio 2025
SILENZIO UZBEKO, PAROLE FRANCESI
«Jules?»
L’uomo si voltò di scatto, sgranando gli occhi. «Émile? Ma… Émile Lafont?»
Si abbracciarono senza vergogna, come due ragazzi che si ritrovano a un incrocio improbabile del mondo. Jules era in viaggio con sua moglie Claire e i loro due figli già grandi, turisti entusiasti in un luogo che pareva disegnato dalla fantasia. Émile era da solo, come sempre nei suoi viaggi fuori stagione.
«Non ci posso credere… a Samarcanda!» rise Jules.
«Un caso meraviglioso,» rispose Émile. «Io ho lasciato Parigi per qualche settimana. Volevo silenzio, polvere e cielo.»
Dopo qualche battuta e le presentazioni dei familiari, si salutarono con una promessa seria: vedersi quella sera, solo loro due. Come ai vecchi tempi, ma con la barba grigia e qualche ruga in più.
Quella sera si ritrovarono su una terrazza che dava sulle cupole della città vecchia. Il cielo era una tavolozza che andava dall’ambra al blu profondo. Ordinarono due bicchieri di kumis, il latte fermentato dei nomadi, e si accesero un sigaro uzbeko che profumava di tabacco e polvere.
«Allora,» iniziò Jules, «la grande Parigi ti ha adottato per sempre?»
Émile sorrise, senza compiacimento. «Direi che ci siamo reciprocamente tollerati. Ho studiato diritto alla Sorbona, ho fatto pratica in un piccolo studio, poi ho lavorato vent’anni con la municipalità. Adesso seguo progetti di diritto urbano, politiche abitative, integrazione… non è banale, ma è stato totalizzante. Per molto tempo è stato tutto.»
«Mai una compagna?»
Émile scrollò le spalle con naturalezza. «Ci sono state persone. Belle, anche importanti e il mio tempo era sempre preso e io non ho mai voluto veramente cedere il passo. Forse è stata una scelta, forse una fuga, ma non ho rimpianti. Solo… oggi il ritmo è un altro.»
Fece una pausa, guardando il fumo salire lento. Poi riprese, con voce più morbida:
«Sai, non ho mai avuto paura della solitudine ma ultimamente mi chiedo se, ora che ho sollevato un po’ il piede dall’acceleratore, ci sia ancora spazio per qualcosa di nuovo. Qualcuno con cui condividere questo tempo che si dilata. Non un rattoppo all’ultimo minuto, ma una vera compagnia. Ho vissuto pienamente il mio lavoro, ma oggi sento che potrei vivere pienamente anche altro. E mi auguro, sinceramente, di essere ancora in tempo.»
Jules sorrise, genuinamente. «Lo sei, amico mio e forse ora sei anche più pronto, perché non hai più bisogno di dimostrare tutto a tutti.»
«Forse è così, non cerco più né fuochi d’artificio, né salvataggi: solo una mano capace di camminare vicino alla mia, al passo giusto.»
«E quando succederà,» disse Jules con una risata, «la torta di nozze la faccio io. Ma niente fronzoli, solo burro vero e lamponi freschi.»
Risero entrambi, come due ragazzi in cortile, prima che la vita li portasse in direzioni opposte.
«E tu?» chiese Émile dopo un altro sorso di kumis. «Hai la luce di uno che ha trovato casa.»
«Sì. E l’ho trovata nella farina e nel lievito,» rispose Jules con orgoglio. «Ho lasciato la scuola presto, ricordi? Il liceo non faceva per me. Ho iniziato come garzone in quella piccola pasticceria sulla Promenade. Poi l’ho rilevata, ho sposato Claire — era cameriera lì — e non ho più smesso. Ogni giorno, da allora, è stato pieno. Non sempre facile, ma sempre giusto.»
«Mai avuto voglia di fare altro?»
«Mai. Perché ho fatto ciò che sentivo mio. Le mani sporche di burro, le alzatacce, i clienti che tornano per un pain au chocolat… È una forma di felicità, la mia. E non cambierei nulla.»
Restarono in silenzio, guardando la città spegnersi piano.
«Lo sai, Jules,» disse Émile, «ho visto troppi ragazzi brillanti finire in posti che non gli appartenevano. E altri ancora — silenziosi, profondi — ignorati perché non brillavano nel modo giusto. È una perdita enorme. Non solo per loro. Per tutti.»
Jules annuì. «Quando una persona non riesce a usare i propri talenti, il danno è della comunità. Della collettività. Perdiamo possibilità, energia, bellezza.»
«La scuola dovrebbe avere il coraggio di guardare davvero. Non solo di insegnare. Ma di ascoltare, intuire, accompagnare.»
«Io ho avuto fortuna,» disse Jules. «Non mi hanno ostacolato, questo è bastato. Ma oggi i ragazzi hanno bisogno di qualcuno che li guardi per davvero.»
Le stelle cominciavano a spuntare sopra Samarcanda.
«Ti rendi conto?» sussurrò Jules. «Due nizzardi che parlano di scuola e destino in Uzbekistan.»
Émile rise. «Forse è solo qui che si può davvero fermare il tempo. E capire che cosa ci ha fatto diventare quelli che siamo.»
«O forse,» aggiunse Jules, «è solo la magia dell’amicizia. Quella vera. Che non ha bisogno di spiegazioni. Solo di un sigaro, un drink strano… e un cielo straniero.»
Rimasero lì ancora un po’, a parlare del nulla e del tutto. Con la calma di chi non deve più dimostrare niente. Con la gratitudine sottile di chi sa che l’essenziale, nella vita, lo si può trovare a Samarcanda come dietro l'angolo di casa.
martedì 1 luglio 2025
INCUBI DISSOLTI ALLA QUESTURA
«È un incubo… davvero, un incubo. Ho preso un giorno di permesso solo per questo. Il volo è tra tre giorni e quella là, quella stronza con l'aria da "perenne lunedì mattina", più simpatica di un mal di denti mi liquida con un “Il sistema è in blocco da ieri sera, non possiamo procedere con le consegne”. Ma ti rendi conto? Siamo ostaggi di una burocrazia che nemmeno funziona!»
Accanto a lei, seduto con la calma tipica di chi non ha più nulla da dimostrare, un signore elegante, sulla settantina, si sistemò gli occhiali e sorrise.
«Ti capisco, ragazza mia. Io sono qui invece per denunciare lo smarrimento della carta d’identità. La terza volta, se contiamo anche quella finita in lavatrice. Ma almeno… grazie a questa coda ho socializzato con una ragazza giovane. Evento da festeggiare, alla mia età. Già i miei nipoti mi snobbano in maniera permanente, salvo Pasqua e Natale.»
Lei lo guardò, combattuta tra il sarcasmo e un sorriso vero.
«Lei la prende sul ridere, alla sua età e con le sue certezze se lo può permettere. Beato lei.»
«No, no. Non la prendo sul ridere. La prendo da lontano. Che è diverso. Eppoi, mi permetto di darti del tu, sai qual è l'età migliore? Come diceva Gasmann ne "Il Sorpasso" - l'età migliore è quello che uno c'ha, fin non si schiatta, si capisce.»
La ragazza tornò a fissare il cellulare, ma poi alzò di nuovo lo sguardo, come se qualcosa nelle parole del vecchio avesse trovato un appiglio.
«Io... non riesco a pensarla così, a prenderla da lontano. È come se ogni cosa fosse sul punto di crollare, sempre. Il lavoro è precario, le relazioni pure, e adesso anche i passaporti… Tutto digitalizzato, tutto instabile, tutto fuori dal nostro controllo: è un mondo ricco e generoso solo nel distribuire illusioni e io mi ritrovo sempre più spesso a ripetere: mi mancano le certezze, mi mancano le certezze!»
L’anziano annuì piano, poi si voltò a guardarla con uno sguardo più intenso, come se avesse aspettato quel momento per dire qualcosa che gli stava dentro da tempo.
«Sai, quando ero più giovane, vivevo con la paura che accadesse qualcosa che mi stravolgesse la vita in maniera definitiva. La perdita del lavoro, qualcuno o qualcosa che mandasse all'aria la carriera, una malattia, l’addio di una persona cara: erano incubi ricorrenti, sempre lì, sul fondo della mente. E quando qualcosa di tutto ciò è realmente successo… sì, mi ha fatto male, ma non era più un incubo: era diventato realtà e una cosa vera la si può affrontare. Si abita. Si attraversa. Quando l’incubo diventa realtà, cessa di essere un incubo e finalmente hai di nuovo la tua vita in mano, scoprendo energie che neppure sospettavi di avere.»
La ragazza lo fissò. Qualcosa si incrinò dentro di lei — non la rabbia, ma la sua inutilità.
«Dice sul serio?»
«Assolutamente. L’incubo paralizza perché è sospeso mentre la realtà, anche quando è dura, è concreta. Ti obbliga a muoverti, ti costringe a scegliere, a cambiare, e in quel momento — paradossalmente — torni libero. Non sei più prigioniera della paura che succeda qualcosa. È successo. E tu ci sei ancora.»
«È… potente, quello che ha detto.»
L’anziano fece un gesto con la mano come a dire: “Macché potente, , è solo sopravvivenza.” Poi sorrise.
«Sai cosa invece mi manca davvero, ora che tu dici che ti mancano le certezze, le mie certezze?»
Lei lo guardò, curiosa.
«Le illusioni. Mi mancano le tue illusioni.»
Un attimo di silenzio. La ragazza rise, non forte, ma vera. Quel tipo di risata che non cambia la giornata, ma cambia come la guardi.
Dall’altoparlante gracchiante arrivò una nuova chiamata. Nessuno dei due si alzò.
Poi, con un’espressione più calma, quasi leggera, la ragazza parlò:
«Sa che le dico? Il passaporto e il Kenia possono aspettare. Prenderò il treno e andrò con la carta d'identità fino in Normandia, ora che ci penso ho sempre voluto attraversare le Alpi in carrozza, vedere i paesi cambiare fuori dal finestrino, arrivare a Mont Saint-Michel e mangiare poi ostriche a Cancal... »
L’uomo la guardò con un certo stupore divertito. «E allora cerca di non perdere la carta d'identità come me! buon viaggio! E mi raccomando, ricordati: vai tranquilla e vai serena, qualsiasi cosa accada non ne fare un dramma, tutt’al più ti arrangerai!”
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