Ho già avuto in altre occasioni
modo di chiarire come per Giffoni, Remfutti, Leonardo, Romano, Gambero e
coetanei, la presenza di 3000 militari accasermati nel territorio della loro
cittadina di 11.000 anime fosse una tragedia epocale per la loro vita sociale
in gioventù.
E, soprattutto, per i loro ormoni
fuori controllo in quella fase della vita in cui bisogni e appetiti ancora sconosciuti sgorgano con l’impeto di torrenti
in alta montagna.
Come utilizzare e sfogare,
dunque, tutta quell’energia confinata allo stato latente?
L’attività sportiva, certo, era
un rimedio efficace, ma di sicuro non riusciva a canalizzare utilmente il
potenziale energetico che si accumulava ogni giorno di più, come la differenza
di potenziale che crea una diga quando blocca la portata di un fiume.
In mancanza di soluzioni
convincenti, quell’energia allo stato latente prese la via della vendetta: in
qualche modo bisognava “punire” quelli che erano ai loro occhi i responsabili
di quella cattività esistenziale, i militari stessi.
Così, una sera di noia qualunque,
ecco il colpo di genio che sbloccò la situazione: la camera di Giffoni si
trovava all’ultimo piano di un palazzo prospicente la via principale che
conduceva i militari di leva alla caserma e la camera aveva un’unica finestra
fronte strada coperta da una tapparella “veneziana” che consentiva,
opportunamente posizionata, agli occupanti della stanza di vederci attraverso
la strada, mentre dalla strada la finestra appariva chiusa.
I militari stavano come al solito
rientrando rumorosi sciamando a frotte; tra Giffoni e Gambero ci fu uno sguardo
d’intesa: posizionarono in modo utile la veneziana ed iniziarono a “battere la
stecca” con violenza mentre in strada un drappello di militi aveva appena
oltrepassato la linea della finestra.
A questo punto si rende
necessaria una precisazione pedante ed ultronea per gli albicriniti, ma
essenziale per tutti coloro che non hanno prestato servizio militare: “battere
la stecca” era un suono che veniva prodotto facendo sbattere con perizia il dito indice contro l’unione
del medio con il pollice attraverso un movimento rapido del braccio; questo
gesto veniva indirizzato dai congedanti nei confronti delle reclute ( i “rospi”)
in segno di scherno.
La reazione in strada fu
immediata: i militi si fermarono di scatto per cercare di capire da dove arrivava
quel suono “familiare” e poi iniziarono con imprecazioni varie. “Chi è che batte la stecca?? Fatti vedere!! Vieni giù!!” La manfrina proseguì per qualche
minuto prima che gli sventurati in grigioverde fossero costretti ad affrettare
il passo per rientrare in caserma ed evitare il “mancato rientro”.
Giffoni e Gambero ridevano e si rallegravano
come se avessero scoperto la caverna dei quaranta ladroni; forti di quella
scoperta iniziarono quasi tutte le sere a ripetere il rituale, indirizzando tra
le tapparelle anche qualche “Muti rospi” ai malcapitati, tanto per alzare la
tensione e far raggiungere il climax alle reazioni in strada.
Il piano era perfetto: i militari
non avevano tempo per capire esattamente da dove arrivavano suoni e sfottò, considerato che avevano i minuti
contati per rientrare in caserma; la situazione non faceva altro che aumentare
la loro furia che veniva sfogata con insulti spesso coloriti dall’intercalare
dei vari dialetti italici: “Addamurittu! (Devi morire tu!) Capecchio’! (Capo del chiodo: testa di cazzo) Faccica’ (Faccia di cazzo).“ oppure in perfetto
italiano come “Vieni giù, devi morire in Friuli! Ce le ha le corna tuo padre? E
tua madre?”
Nel frattempo, Giffoni e Gambero
continuavano imperterriti a battere la stecca senza curarsi minimamente delle
minacce che arrivavano dalla strada come un fiume in piena; una sera qualcuno cercò
addirittura di scalare il palazzo
arrampicandosi, inutilmente, su di una grondaia. Tra l’altro, sul lato
sbagliato della strada.
Una sera, mentre Giffoni stava
comodamente a letto intento nel ripassare gli appunti di diritto per l’interrogazione
prevista il giorno dopo, dalla strada udì un rabbioso: “Sei muta stasera eh? Finestruola
di merda!”
L’errore fatale di Giffoni e
Gambero fu di non custodire per sé il tesoro che avevano trovato per vincere la
noia e vendicare gli ormoni insoddisfatti, decidendo di condividere con Remfutti,
Leonardo e Romano le loro avventure serali.
Il risultato fu che, un sabato
sera, dietro la finestruola magica della camera di Giffoni, oltre a Gambero e ai citati, volle essere
presente anche un loro compare di cui “è pietoso tacere anche il nome” come
avrebbe detto Adso da Melk ne Il nome della rosa.
L’Innominabile, non pago del
copione che andava in scena in strada provocato dietro le veneziane, d’improvviso
ordinò imperiosamente: “Tenetemi i piedi!”, così facendo alzò bruscamente la
tapparella sporgendosi verso la strada, battendo a due mani la stecca.
La reazione sotto fu immediata: i
militi triplicarono gli insulti come leoni in gabbia che finalmente vedono vicina la preda in carne ed ossa dietro le sbarre, ma ancora irraggiungibile.
La conseguenza più drammatica,
però, si manifestò il giorno seguente; i militi avevano identificato il palazzo
a cui apparteneva la finestruola e così furono in grado di capire che il portone di accesso si trovava qualche
decina di metri più indietro, circostanza su cui Giffoni e Gambero avevano
fatto affidamento per non essere scoperti.
Nel pomeriggio Giffoni dalla
terrazza interna si accorse che due energumeni vagavano nella corte del palazzo
alla ricerca di “qualcosa” e quando lo videro, con fare minaccioso, gli
domandarono: “Chi è che abita all’ultimo piano?”
Giffoni, compresi il pericolo e
la gravità della situazione, fece immediatamente lo gnorri e, ostentando
sicurezza, si fece trovare pronto: “Abita uno di questa famiglia che al momento
non è in casa; devo riferire qualcosa?”
La risposta dell’energumeno fu
lapidaria: “Si, digli che se rompe ancora il cazzo la sera gli apriamo il culo
come un copertone”.
Non ci fu bisogno di ulteriori
chiarimenti.
Il “tesoro” era svanito, la finestruola
tacque per sempre.











