lunedì 22 dicembre 2025

ADDIO ALLE ARMI: FINALE COL BOTTO

Negli anni '70 del novecento nella nota località friulana occupata dai 3000 militari di leva, per la gran parte dei ragazzini in età di frequenza della scuola elementare servire la Santa Messa domenicale era un obbligo che pareggiava quello scolastico.

Alla domenica mattina erano previste ben 5 funzioni nel solo Duomo: 8.30, 9.30, 10.30, 12.00 e 18.00, senza contare che nelle altre chiese parrocchiali nel solo centro cittadino (San Pietro ai Volti - Borgo San Pietro, San Valentino - Borgo San Domenico, San Martino - Borgo di Ponte, San Giovanni in Xenodochio - Borgo Duomo e San Biagio - Borgo Brossana) "andavano in onda" altrettante celebrazioni ad orari mattutini.

Non solo le chiese si riempivano di fedeli, ma il numero dei sacerdoti era tale da garantire un officiante diverso per ogni rito e un'adeguata coda di chierichetti ad assisterlo e tutti rigorosamente di sesso maschile.

Ne cito, a memoria, solo alcuni: il temuto Arciperte Don D'Agosto, Mons. Corrado Puppa economo capitolare e già Arciprete, Don Claudio Snidero incaricato per il Ricreatorio, Don Mesaglio per Borgo San Domenico, Don Pietro Moratto per Borgo San Pietro, Don Danilo Puntel per Borgo di Ponte più altri due ottuagenari Monsignori membri dell'Insigne Collegiata di Santa Maria Assunta, di cui ho sempre ignorato il nome.

Senza considerare che era ancora abitato dalle Madri Orsoline il Convento di Santa Maria in valle: insomma i 7.000 abitanti del centro storico avevano solo l'imbarazzo della scelta.

La messa delle 9,30 in Duomo era quella "principale" per la comunità, quindi la più affollata dalle famiglie al completo e celebrata dall'Arciprete, quella delle 10,30 officiata da Mons. Puppa era il rituale solenne accompagnata dall'organo, cantata dal coro, con molte parti in latino e frequentata dalle persone più anziane mentre quelle delle 12,00 e delle 18,30 erano affidate di prassi a Don Claudio e destinata ai "ritardatari".

I chierichetti venivano reclutati al catechismo e avevano una stanza a loro dedicata all'interno della Sagrestia del Duomo, dove negli armadi erano riposte in ordine il camice nero e la cotta bianca di ciascuno che periodicamente venivano portate a casa per il lavaggio a cura delle famiglie.

Esisteva una vera e propria gerarchia: i più anziani (ragazzi di quinta elementare) decidevano fra loro chi ne era "il capo" e i suoi sostituti, che avevano il compito di scegliere i ruoli da svolgere durante la messa e soprattutto a quale messa i più piccoli potevano servire.

Solo i più anziani erano ammessi infatti a partecipare alla Messa solenne delle 10,30 e a stabilire i ruoli per la Messa dello Spadone, il vero e proprio Mundial, a cui aspirava ogni chierichetto.

Perchè? Presto detto.

La Messa dello Spadone del 6 gennaio era l'unica che si celebrava sull'altare maggiore, riempiva il Duomo all'inverosimile con la presenza delle autorità civili e militari tra i fedeli e spesso del Vescovo come officiante e i chierichetti erano incaricati di portare l'Elmo piumato, lo Spadone del Patriarca Marquardo di Randeck e l'Evangelario che conteneva le liturgie medioevali, oltre che la croce e i candelieri che aprivano il corteo ed il turibilo dell'incenso e la "navicella" che conteneva i grani dell'essenza da utilizzarsi per le benedizioni della folla sottostante.

Tutti gli occhi dei presenti erano addosso e l'evento era tra i più sentiti da parte della comunità, esserne partecipi come protagonisti era fonte di orgoglio sicuro per dei ragazzini tra i 6 ed i 10 anni, anche perchè, ripeto, a quel ruolo si arrivava dopo una lunga gavetta, servendo le funzioni meno "nobili" di tante celebrazioni ordinarie.

Oltre che riuscire a farsi ben volere dai capi "anziani": una vera propria palestra di vita, insomma.

Ma occupiamoci ora della Messa solenne delle 10,30, perchè far parte della "squadra" di chierichetti che accompagnava quella celebrazione voleva dire giocare "in prima squadra": i posti erano limitati a 5 e 2 riservati sempre al Capo e al ViceCapo oppure, in loro assenza, da chi era stato scelto da questi due in via preliminare.

La verità è che non si trattava solo di "prestigio", c'erano delle motivazioni più laiche e prosaiche per rispettare quella stretta gerarchia sottoponendosi al rituale più lungo e soprattutto con lunghe, interminabili, parti cantate in latino.

La prima che riguardava i due posti ad appannaggio esclusivo del capo e del vicecapo, ovvero l'incarico di portare il turibolo dell'incenso e la navicella contenenti i granelli, compito che permetteva ai due chierichetti di ritirarsi per gran parte della funzione all'interno della sagrestia ed uscire nel duomo solamente nelle parti in cui era richiesto l'uso dello strumento.

Gli altri tre chierichetti, invece, incaricati di portare il crocefisso ed i candelieri, una volta riposti nei luoghi deputati gli oggetti all'inizio della funzione, per il resto dovevano rimanere seduti accanto ai prelati per tutto lo svolgimento della Messa, aiutando il celebrante solo al lavaggio delle mani durante una precisa fase del rituale eucaristico.

Era, però, il secondo motivo quello più importante: il celebrante della Messa solenne era Monsignor Puppa, colui che si occupava anche della gestione del Cinema Parrocchiale - il "Ducale" - in piazza Picco e premiava i chierichetti firmando alla fine della funzione un cartoncino che consentiva al portatore di entrare gratis alle proiezioni, ma solo a coloro che partecipavano alla funzione delle 10.30.

Si può intuire la portata clamorosa di tale privilegio: gli anziani più scaltri, quando non c'era un film di loro interesse, cedevano l'autorizzazione non nominativa ai più giovani, dietro pagamento del 50% dell'ordinario prezzo del biglietto oppure a mezzo di dazione di altre utilità (caramelle, gomme da masticare o qualche giornaletto).

Orbene, se il lettore sarà sin qui giunto superando la disamina ecclesiastica, gli regaliamo una perla che Giffoni e Remfutti seppero confezionare dopo aver maturato l'anzianità  e compiuto tutto il cursus honorum necessario ad arrivare alle più alte cariche del gruppo chierichetti del Duomo di Santa Maria Assunta: da semplici figuranti nella chiesa del loro borgo sino all'incarico del turibolo e alla navicella della Messa dello Spadone e di quella solenne delle 10.30. 

E dopo aver visto tutti i film proiettati al Cinema Ducale: da "Gli Aristogatti" a "I cannoni di navarone", passando per tutto il ciclo di Bud Spencer e Terence Hill e molto altro ancora.

Il loro tempo stava per scadere, l'onorato servizio in camice e cotta oramai incominciava a stare stretto in ragione dell'età e dei nuovi interessi meno ecclesiastici e così i momenti da passare soli all'interno della sagrestia mentre all'esterno si svolgeva la Santa Messa, sempre più lunghi e noiosi, misero in moto la curiosità ed il gusto di violare le regole di quel luogo santo: tipo inondare d'incenso il locale triplicando le dosi, oppure curiosare in ogni angolo fino alla scoperta dei cassetti in cui venivano conservate le particole ancora da consacrare.

Ma quella domenica mattina non fu sufficiente: Remfutti, che prima di arrivare in Duomo aveva comperato una scatola di petardi in cartoleria, volle fare un test chimico per cui, osservando l'interno del turibolo dell'incenso dove ci stavano carbonelle incandescenti chiese a Giffoni: "Ma secondo te, se ci metto un petardo, la miccia prende fuoco?". Giffoni lo guardò tra l'incredulo ed il divertito: "Ma è ovvio che succeda". Remfutti non era per niente convinto e così, nonostante il tentativo di Giffoni - blando per la verità  - di farlo desistere, lanciò all'interno del turibolo un paio di petardi.

In un attimo le micce iniziarono la combustione e così, Remfutti, preso dal panico reagì d'istinto facendo l'unica cosa da non fare: soffiare sulle micce, nel tentativo, inutile e dannoso, di spegnerne la combustione ma con il risultato di accorciare i tempi di reazione e di contatto tra le scintille e la polvere pirica.

Fu un botto clamoroso che rimbombò ancora più forte grazie alla eco provocato dal soffitto della sagrestia e tutto il contenuto del turibolo si sparse al fuori di questo e, naturalmente, il botto venne percepito forte e chiaro anche all'interno del Duomo, mentre Monsignor Puppa blandiva i fedeli durante l'Omelia. 

Don Mesaglio si precipitò subito in sagrestia e trovò, oltre alla stanza inondata dal fumo ed il profumo dell'incenso che mascherava quello del petardo, Giffoni e Remfutti intenti a far sparire i resti delle carbonelle uscite dal braciere del Turibolo e chiese subito. "Ma cos'è successo? Cosa state facendo?".

Giffoni restò muto, incapace di abbozzare una qualsiasi risposta mentre Remfutti, con un'espressione simile a quella del Gatto degli stivali della saga di Shreck, con aria innocente e preoccupata replicò: "E' scoppiata una carbonella nel turibolo, dev'essere stata difettosa".

Don Mesaglio rimase in silenzio, poi con aria di rimprovero sentenziò:"Vi ho detto mille volte che voi due ne mettete troppe, esagerate anche con l'incenso e passate troppo tempo in Sagrestia. Mettete a posto il turibolo e poi venite subito fuori a seguire la Messa."

Giffoni e Remfutti eseguirono l'ordine con diligenza e si resero conto che la loro carriera ecclesiastica era finita: terminata la celebrazione appesero cotta e camice al chiodo.

Anche perchè, con sincronismo quasi sovrannaturale, era giunta la notizia che di lì a poco il Cinema Ducale avrebbe chiuso i battenti.




  

venerdì 19 dicembre 2025

LA GUERRA DEI FOLKS

 

Nel centro della cittadina c’era una grande casa abbandonata con annesso parco recintato da un alto muro di cinta da cui si poteva accedere dalle abitazioni di Giffoni e Gambero attraverso una porta comunicante tra le diverse proprietà.

Per Giffoni, Gambero e la loro stabile “compagnia di giro” formata in estate da Remfutti, Leonardo, Romano, Fruzzo, Nobil Homo, Pizzicagnolo e altri di cui è “pietoso evitare anche il nome”, quel luogo era magico: magico come poteva esserlo per ragazzini della scuola media sempre insieme e alla ricerca di “fare esperienze” e divertirsi.

Nelle stanze abbandonate e pericolanti di quel casolare si svolsero, tra mille altre cose, cruente battaglie con cerbottane di materiale plastico e munizioni costituite da bacche rosse selvatiche e sessioni di “nascondino” in cui chi veniva designato alla ricerca dalla “conta” era destinato a vagare senza speranza di scorgere i compagni che potevano celarsi ovunque, data l’esistenza di infiniti nascondigli che offriva l’enorme costruzione.

La casa inoltre offriva gli spazi ideali per nascondere ciò che i genitori non avrebbero mai tollerato e la cui scoperta avrebbe decretato tremende punizioni, sulla falsariga dei supplizi che gli Dei pagani applicavano ai mortali quando si macchiavano di βρις: per spiegazioni domandare a Sisifo, Prometeo o agli sventurati compagni di Odisseo.

I nostri giovanissimi “eroi”, infatti, vi celavano i pacchetti di sigarette acquistati di nascosto e i materiali cartacei rigorosamente V.M. 18 che venivano “recuperati” durante le annuali raccolte della carta organizzate dalla Parrocchia; i pacchetti di sigarette di ciascuno trovavano comodo alloggio negli interstizi di alcuni mattoni forati e il materiale hot all’interno di una vecchia stufa abbandonata.

Insomma, un vero e proprio circolo ellenico, dove si condivideva il tabacco e la scoperta del proibito in lunghe sessioni collettive, tra il fumo delle sigarette, l’ambiente gotico, l’odore della polvere e tante tante risate; quel club per soli uomini chiuse i battenti quando un giorno, all’interno della stufa, si trovarono solo le ceneri del “prezioso”  materiale e molti iniziarono a lamentarsi che il numero delle sigarette all’interno del proprio pacchetto fosse misteriosamente diminuito.

E che dire del parco? Sempre i nostri “eroi” lo avevano trasformato nello stadio Monumental di Buenos Aires per rifare il Mundial 78 ed esserne loro i protagonisti, con tanto di coppa del mondo  realizzata da Gambero utilizzando un bicchiere, il Dash e una boccia di plastica; oppure ancora nello stadio Lenin di Mosca per disputarvi le olimpiadi tra di loro con tanto di set per il salto in alto.

Per non dire delle infinite partite a monopoli, a carte e persino a ping-pong, utilizzando un vecchio e pesante  tavolo in legno.

Un luogo magico, davvero, dove consumare l’inizio dell’adolescenza tra pari senza la presenza degli adulti.

Un bel giorno, però, spuntò una rete metallica e la porta comunicante fu sbarrata e nel giro di una settimana sorse un cantiere con tanto di impalcature, betoniere ed escavatori vari e, soprattutto, severamente “vietato ai non addetti ai lavori”.

Per Giffoni, Gambero e soci fu una mazzata, uno shock: sfrattati dal loro “paradiso” da un giorno all’altro, senza preavviso di sorta.

I nostri “eroi” naturalmente non vollero subire passivamente quella tragedia epocale che coincideva per molti di loro, guarda caso, con il passaggio alla scuola superiore e così decisero di porre in atto tutta una serie di azioni ardite che vendicassero la fine inopinata di quella spensierata fase della vita.

Azioni che consistevano nell’entrare di nascosto durante le pause di lavoro nel cantiere e rilasciare liquidi organici sul sedile dell’escavatore o  all’interno delle betoniere, preventivamente riempite di sassi provocando il feroce “disappunto” da parte delle maestranze al ritorno sul posto di lavoro.

Nonostante il disappunto si facesse sempre più aggressivo e minaccioso, Giffoni e soci non demordevano da quella che ritenevano di combattere per una causa giusta e meritevole, come i crociati guidati da Goffredo di Buglione e Riccardo Cuor di Leone nella lotta contra i Mori in Terra Santa.

Così, invece di rassegnarsi, venivano escogitate azioni sempre più ardite con l’effetto di alzare il livello della tensione con gli operai del cantiere, tra cui spiccava per pericolosità un anziano (ai loro occhi) operaio che avevano denominato “Rosso di Vino” per il volto perennemente arrossato, con i capillari che sembravano pronti ad esplodere da un momento all’altro.

Il climax di quella “Guerra Santa”  venne raggiunto quando in un’edicola locale vennero messi in vendita dei petardi che, sorretti da una piccola asta di legno, una volta che la miccia bruciando veniva a contatto con la polvere pirica, si trasformavano in una specie di razzetti che poi facevano il botto ad una ventina di metri di distanza.

Giffoni e soci accolsero la novità come lo stato maggiore della Luftwaffe alla scoperta delle V1 e delle V2 durante la fine della Seconda guerra mondiale: si fece subito incetta di quei petardi facendo fronte comune con le misere paghette settimanali di ciascuno e si procedette ad un acquisto collettivo di una cinquantina di Folks (così erano denominati dal produttore che li aveva messi in vendita).

A stretto giro dal rifornimento, il cantiere si trasformò nel Donbass sotto attacco missilistico russo: gli operai esasperati più dell’esercito ucraino reagirono lanciando la malta con le cazzuole all’indirizzo delle “rampe di lancio”, con l’intento di raggiungere i “commandos” una volta per tutte.

Il fuggi fuggi fu generale e tutta la “banda” si ritrovò dopo la fuga scoordinata nei pressi della caserma che ospitava un Battaglione di fanteria meccanizzata.

Condivisa tra lazzi e risa la bravata ma constatato che erano ancora diversi i razzetti inutilizzati nell’attacco interrotto al cantiere, il solito di cui è “pietoso non fare neppure il nome” propose di chiudere in bellezza il pomeriggio sparando oltre il muro della caserma le rimanenze.

Non tutti furono convinti della bontà dell’operazione ma si sa,  da che mondo è mondo, le ragioni di chi “la vuole fare fuori dal vaso” hanno sempre un fascino superiore alla voce della ragione e così si procedette al lancio, confidando nell’impunità garantita dall’aver occultato per bene il luogo del lancio.

Non passarono neanche 5 minuti dall’avvio dell’attacco proditorio: una macchina della Polizia di Stato comparve nei pressi degli “artificieri” e gli agenti, subito compreso che non si trattava di qualche banda armata ma solo di quattro ragazzini deficienti,  uscirono dal mezzo indirizzando ai ragazzi il più classico dei: “Ma che cazzo fate?”

Silenzio tombale.

“Questi li consegnate a noi”, proseguì l’anziano poliziotto, “e andate subito a casa senza favi più vedere e tu invece, che sei il più grande, mi dici come ti chiami e dove abiti”.

Giffoni non era il “più grande” ma solo il più alto e fu costretto a dare le generalità agli Agenti, che poi prelevata l’artiglieria e caricata in macchina, lasciarono i ragazzi al loro destino.

Giffoni non osava rientrare in casa quella sera, furono ore di angoscia tremenda, nella mente si accavallavano scenari apocalittici: suo padre avrebbe attuato sanzioni peggiori di quelle che molti anni dopo la UE avrebbe imposto alla Russia, non prima,  però, di averlo gonfiato di botte come un canotto.

Prese coraggio e allo scoccare dell’ultima ora possibile per rientrare in casa senza che scattassero le punizioni ed i rimproveri genitoriali, varcò la porta della cucina nel momento in cui la madre serviva la cena a tutti i familiari raccolti intorno al tavolo.

La reazione sorprese Giffoni.

Il padre gli rivolse solo un generico: “Non ti pare un po’ tardi per rientrare in casa? Dove sei stato fino adesso”.

Null’altro.

Giffoni rispose genericamente. Il padre, probabilmente stanco per gli impicci della sua giornata lavorativa, non andò oltre.

Evidentemente i poliziotti avevano compreso che si trattava solo di una sciocca bravata di ragazzini di paese mai visti prima, probabilmente pericolosi solo per sé stessi e che la comparsa della divisa e la minaccia di intervenire presso le famiglie poteva bastare per rimetterli in riga.

Temo che, qualche decina di anni più tardi, ben diverso sarebbe stata la reazione del mondo degli adulti ed il conseguente destino di Giffoni e soci. 



martedì 16 dicembre 2025

SEI MUTA STASERA FINESTRUOLA

 

Ho già avuto in altre occasioni modo di chiarire come per Giffoni, Remfutti, Leonardo, Romano, Gambero e coetanei, la presenza di 3000 militari accasermati nel territorio della loro cittadina di 11.000 anime fosse una tragedia epocale per la loro vita sociale in gioventù.

E, soprattutto, per i loro ormoni fuori controllo in quella fase della vita in cui bisogni e appetiti ancora  sconosciuti sgorgano con l’impeto di torrenti in alta montagna.

Come utilizzare e sfogare, dunque, tutta quell’energia confinata allo stato latente?

L’attività sportiva, certo, era un rimedio efficace, ma di sicuro non riusciva a canalizzare utilmente il potenziale energetico che si accumulava ogni giorno di più, come la differenza di potenziale che crea una diga quando blocca la portata di un fiume.      

In mancanza di soluzioni convincenti, quell’energia allo stato latente prese la via della vendetta: in qualche modo bisognava “punire” quelli che erano ai loro occhi i responsabili di quella cattività esistenziale, i militari stessi.

Così, una sera di noia qualunque, ecco il colpo di genio che sbloccò la situazione: la camera di Giffoni si trovava all’ultimo piano di un palazzo prospicente la via principale che conduceva i militari di leva alla caserma e la camera aveva un’unica finestra fronte strada coperta da una tapparella “veneziana” che consentiva, opportunamente posizionata, agli occupanti della stanza di vederci attraverso la strada, mentre dalla strada la finestra appariva chiusa.

I militari stavano come al solito rientrando rumorosi sciamando a frotte; tra Giffoni e Gambero ci fu uno sguardo d’intesa: posizionarono in modo utile la veneziana ed iniziarono a “battere la stecca” con violenza mentre in strada un drappello di militi aveva appena oltrepassato la linea della finestra.

A questo punto si rende necessaria una precisazione pedante ed ultronea per gli albicriniti, ma essenziale per tutti coloro che non hanno prestato servizio militare: “battere la stecca” era un suono che veniva prodotto facendo  sbattere con perizia il dito indice contro l’unione del medio con il pollice attraverso un movimento rapido del braccio; questo gesto veniva indirizzato dai congedanti nei confronti delle reclute ( i “rospi”)  in segno di scherno.

La reazione in strada fu immediata: i militi si fermarono di scatto per cercare di capire da dove arrivava quel suono “familiare” e poi iniziarono con imprecazioni varie.  “Chi è che batte la stecca?? Fatti vedere!!  Vieni giù!!” La manfrina proseguì per qualche minuto prima che gli sventurati in grigioverde fossero costretti ad affrettare il passo per rientrare in caserma ed evitare il “mancato rientro”.

Giffoni e Gambero ridevano e si rallegravano come se avessero scoperto la caverna dei quaranta ladroni; forti di quella scoperta iniziarono quasi tutte le sere a ripetere il rituale, indirizzando tra le tapparelle anche qualche “Muti rospi” ai malcapitati, tanto per alzare la tensione e far raggiungere il climax alle reazioni in strada.

Il piano era perfetto: i militari non avevano tempo per capire esattamente da dove arrivavano suoni e  sfottò, considerato che avevano i minuti contati per rientrare in caserma; la situazione non faceva altro che aumentare la loro furia che veniva sfogata con insulti spesso coloriti dall’intercalare dei vari dialetti italici: “Addamurittu!  (Devi morire tu!) Capecchio’! (Capo del chiodo: testa di cazzo) Faccica’ (Faccia di cazzo).“ oppure in perfetto italiano come “Vieni giù, devi morire in Friuli! Ce le ha le corna tuo padre? E tua madre?”

Nel frattempo, Giffoni e Gambero continuavano imperterriti a battere la stecca senza curarsi minimamente delle minacce che arrivavano dalla strada come un fiume in piena; una sera qualcuno cercò addirittura  di scalare il palazzo arrampicandosi, inutilmente, su di una grondaia. Tra l’altro, sul lato sbagliato della strada.   

Una sera, mentre Giffoni stava comodamente a letto intento nel ripassare gli appunti di diritto per l’interrogazione prevista il giorno dopo, dalla strada udì un rabbioso: “Sei muta stasera eh? Finestruola di merda!”

L’errore fatale di Giffoni e Gambero fu di non custodire per sé il tesoro che avevano trovato per vincere la noia e vendicare gli ormoni insoddisfatti, decidendo di condividere con Remfutti, Leonardo e Romano le loro avventure serali.

Il risultato fu che, un sabato sera, dietro la finestruola magica della camera di Giffoni,  oltre a Gambero e ai citati, volle essere presente anche un loro compare di cui “è pietoso tacere anche il nome” come avrebbe detto Adso da Melk ne Il nome della rosa.

L’Innominabile, non pago del copione che andava in scena in strada provocato dietro le veneziane, d’improvviso ordinò imperiosamente: “Tenetemi i piedi!”, così facendo alzò bruscamente la tapparella sporgendosi verso la strada, battendo a due mani la stecca.

La reazione sotto fu immediata: i militi triplicarono gli insulti come leoni in gabbia che finalmente vedono vicina la preda in carne ed ossa dietro le sbarre, ma ancora irraggiungibile.

La conseguenza più drammatica, però, si manifestò il giorno seguente; i militi avevano identificato il palazzo a cui apparteneva la finestruola e così furono in grado di capire che il portone di accesso si trovava qualche decina di metri più indietro, circostanza su cui Giffoni e Gambero avevano fatto affidamento per non essere scoperti.

Nel pomeriggio Giffoni dalla terrazza interna si accorse che due energumeni vagavano nella corte del palazzo alla ricerca di “qualcosa” e quando lo videro, con fare minaccioso, gli domandarono con un marcato accento campano: “Ghi è che abitta all’ultimo piano?”

Giffoni, compresi il pericolo e la gravità della situazione, fece immediatamente lo gnorri e, ostentando sicurezza, si fece trovare pronto rispondendo con teatrale gentilezza : “Abita uno di questa famiglia che al momento, mi spiace, non è in casa. Devo riferire qualcosa?”

La risposta dell’energumeno fu lapidaria: “Si, digli che se ancora rompe il gazzo alla sera gli apriamo il gulo gome un gopertone”.

Non ci fu bisogno di ulteriori chiarimenti.

Il “tesoro” era svanito, la finestruola tacque per sempre.



mercoledì 10 dicembre 2025

UN VELIERO IN ACQUE PROIBITE

 (Udine, marzo 1986)

Avevo deciso solo all’ultimo. Italia–Austria allo Stadio Friuli, amichevole pre-Mondiale: occasione irripetibile, mi dicevo, soprattutto per uno studente universitario che di solito le partite le vedeva in televisione, tra libri di diritto e panini con la mortadella. 

La terza volta che la nazionale maggiore giocava ad Udine, dopo i precedenti con la Svizzera del novebre 1979 e con la Germania sbagliata, quella dell'Est, il giorno di Pasqua del 1981. Tutte amichevoli.

I mondiali messicani erano ormai prossimi e non potevo certo mancare alla possibilità di vedere con i miei occhi se il Vecjo era riuscito in qualche modo a sistemare i suoi azzurri per la difesa del titolo mondiale conquistato in Spagna 4 anni prima, anche se Paolo Rossi, come cantava Antonello Venditti, era diventato "un ragazzo come noi", ed era lontanissimo parente del Pablito "manolete" di Barcellona e Madrid.

Così, in quella mattina fuori dall'ordinario, lasciai aperto sul tavolo della camera il manuale di diritto pubblico e mi lanciai all’avventura con il mezzo più improbabile del Triveneto, e forse dell'Italia intera: la Fiat 850 special color sabbia di mio zio.

Identica a quella che usava Sergio Benvenuti, quando non era Manuel Fantoni, in "Borotalco". 

Ero un neopatentato e in quel tempo il possesso di un automobile tutta per sè era appannaggio o di chi si era già procurato un lavoro oppure faceva parte dell'alta aristocrazia "borghese" come avrebbe dedotto il geometra Calboni.

Ed io non rientravo in nessuna di queste categorie.

Però c'era lo zio. Lui era il proprietario della mitica 850 color sabbia che non usava più da un bel pezzo e che aveva riconvertito a serra invernale. Letteralmente. Dentro ci teneva le piante da vaso: gerani, qualche ficus stanco, chissà forse persino un’orchidea fallita.

Così arrivata la primavera, me l'aveva imprestata fino al prossimo inverno.

Quando la guidavo, sentivo il profumo di terriccio e anticongelante fuso col sudore delle decadi. L’autonomia era di venti chilometri: poi l’acqua del radiatore cominciava a bollire, e giuro che una volta mi sfiorò l'idea di buttarci dentro gli spaghetti; l’avevo soprannominata Il Veliero: ogni curva produceva un lamento degli ammortizzatori che pareva il cigolio degli alberi di un galeone sotto vento. Navigare sì, ma costantemente per mare in tempesta.

Arrivai in centro a Udine in prossimità dell’orario di chiusura della Fogolâr Viaggi, dove vendevano i biglietti. Naturalmente non c’era un solo parcheggio libero. Nemmeno l’ombra. Il centro pareva un formicaio imbottigliato: Golf diesel, Uno bianche, qualche 127 superstite e l’immancabile Panda 30 che tutti disprezzavano ma tutti, sotto sotto, desideravano.

Poi, come un’apparizione mariana, scorsi un posto libero proprio davanti all’ingresso del palazzo di fronte all’agenzia. Libero. Vuoto. Pulito. Liscio. Un invito del destino.

«Tanto entro, compro il biglietto ed esco. Cinque minuti. Nessun vigile può essere così rapido», mi dissi con l’incoscienza di chi non ha ancora compiuto vent’anni.

Parcheggiai. Il Veliero gemette come sempre, azionai il freno a mano e corsi dentro.

Naturalmente, dentro c’era coda. Non una coda normale: una coda biblica, una serpentina umana di gente col giaccone della nazionale e l'immancabile Gazzetta rosea sotto al braccio. Gli ultimi biglietti scottavano in mano ad impiegati ormai iracondi come Lucifero nel canto finale dell'Inferno.

Quando uscii, mezz’ora dopo, col mio prezioso tagliando in tasca e la sensazione di aver scalato il K2, vidi la scena.

L’850 era piantonata da due agenti di Polizia di Stato.

Li osservai da lontano, facendo lo gnorri. Loro si voltarono verso di me inerpicando lo sguardo sull’auto e poi sulla mia faccia, come se faticassero a credere di aver finalmente trovato il proprietario.

Il primo parlò con un tono tra lo stupito e l’offeso:

«Ti abbiamo aspettato invece di chiamare subito il carro attrezzi per la rimozione… eravamo troppo curiosi di vedere chi fosse il figo che aveva parcheggiato questa Ferrari nel posto del Prefetto.»

Ferrari. Aveva detto Ferrari.

Gettai un’occhiata al Veliero: paraurti arrugginito, sportello sinistro che si apriva solo con un colpo di fianco, vernice color sabbia scolorita dal sole. Una Ferrari in effetti, se il Cavallino fosse stato un geranio.

Provai una scusa:

«Non sapevo fosse il posto del Prefetto… chiedo scusa... pensavo di stare due minuti… stavano per chiudere…»

L’altro agente scoppiò in una risata incredula:

«Si rende conto? Adesso arriva il Prefetto e trova il posto occupato… da… da… questa Autobomba!»

Indicò l’auto come si potrebbe indicare una borsa incustodita nella sala d'attesa di un aereoporto.

Io annuii, mortificato ma non troppo. Forse la nonchalance fu la mia salvezza. Forse il destino aveva deciso di applicare le attenuanti generiche e la condizionale. O forse la semi-infermità mentale, riservando le penitenze adeguate per gli anni a venire. 

E mentre nella mia mente incominciavano invece a formarsi gli scenari più cupi e catastrofici, la Pietà mosse, come avrebbe detto il Sommo Poeta, l'Alto Fattore senza dover neppure costringermi a scalare la montagna del Purgatorio. 

Non vollero neanche vedere i documenti. Niente targa, niente libretto, niente sermoni.

«Vada via, subito. Prima che torni il Prefetto. E per carità, non la parcheggi davanti alla Questura se non vuole trovarsi la Digos sotto casa questo pomeriggio.»

Salpai a bordo del Veliero con la fretta di una ciurma di marinai di un galeone spagnolo sfuggito ai pirati di Barbanera; la nave, ops, la Fiat 850 special partì tossendo come un marinaio con quarant’anni di porto alle spalle, e mi riportò oscillando più che mai verso casa, con il biglietto in tasca, il cuore che batteva alla velocità di un compressore e l'occhio sul radiatore per capire quando sarebbe arrivata l'ora di buttarci la pasta e fermare la corsa.

Per la cronaca l'indomani l'Italia vinse 2-1, ma quando in autunno fu tempo di riconsegnare il Veliero al suo porto sicuro e alle sue piante, l'Italia di Bearzot, crollata in Messico, non esisteva più.

Sia il Veliero che il Vecjo erano diventati leggenda, oltre che essere giunti alla meritata e definitiva pensione.




LA MACCHINA NERA

Correva l'anno del Signore... più o meno tutte le storie epiche iniziano così, e quindi neppure questa dovrebbe sottrarsi all'incipit canonico, ma qui oltre alla metà di settembre del corrente anno Domini 1987, c'era qualcosa che, va invece di rimanere ben chiusa in garage, correva "ad minchiam".

Settembre 1987 dunque, si erano appena conclusi i campionati mondiali di atletica a Roma con la stratosferica (e dopata) vittoria di Ben Johnson nei 100 su carl Lewis e l'Udinese si apprestava, dopo 8 anni di A ed i fasti dell'era Zico, a giocare in serie B pensando di essere la Juve della cadetteria con il campione del mondo Ciccio Graziani con la fascia di capitano e il ritorno di Massimo Giacomini in panchina.

Ma durarono poco tutti e due, Graziani appese le scarpe al chiodo in novembre, il friulano Giacomini fu sostituito in ottobre dal serbo giramondo Velibor "Bora" Milutinovic, a sua volta giubilato in dicembre per Nedo Sonetti che riusci a mettere in salvo i bianconeri che stavano viaggiando spediti verso.. la serie C!

E alla Presidenza del Consiglio non sedeva più il totem socialista Bettino Craxi ma un quarantenne commercialista di Asti, il democristiano Giovanni Goria, che per via della barba nera, i capelli corvini ed una vaga somiglianza somatica all'attore indiano Kabir Bedi, Gianfranco D'Angelo non aveva perso l'occasione per farlo diventare "Sandokan Goria" durante i suoi pezzi di satira della trasmissione televisiva del momento: Drive In.   

Ma durò poco: a febbraio fu già dimissionato, con i capelli e la barba diventati grigi e la finanziaria bocciata dal Parlamento.

Ma lasciamo perdere queste note di colore e torniamo "a noi", ad una di quelle tiepide sere di fine estate in cui il Friuli sembrava addormentato già alle dieci, e i paesini dell’interno erano solo un susseguirsi di case buie, capitelli illuminati e silenzi agricoli.

Civetta — nome di battaglia, perché nessuno lo chiamava con il suo altisonante nome di battesimo  Guidomaria — era in licenza di convalescenza dal servizio militare. Alla gamba destra portava un gambaletto di gesso che gli irrigidiva tutto il passo; un incidente in addestramento gli aveva giocato un brutto scherzo; questo però, non gli impediva lontano dal reparto, contro ogni logica e forse contro qualche norma del Codice della Strada, di guidare una vecchia Fiat 1100 nera tenuta come una reliquia dalla famiglia: un’auto dei primi anni Sessanta, con sedili che sapevano di polvere, fumo e ricordi.

Quella sera, l’equipaggio era al completo: Giffoni e Leonardo, universitari freschi, Valleriani e Praticò, ancora al liceo e, naturalmente Civetta, l’autiere zoppo.

Vagavano senza meta tra i paesini, sospinti dalla noia più assoluta e dal desiderio di far qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non tornare a casa.

A un certo punto — probabilmente dopo una birra di troppo e un lampo creativo di Giffoni — nacque l’idea: “Facciamo come nel film di Spielberg. The Car. La macchina nera. Quella posseduta.” E fu così, la Fiat 1100, con i suoi modesti cinquant’anni sulle spalle, divenne la Macchina Nera.

Attraversarono tre borghi a clacson spiegato, come se dovessero far scappare tutti gli spiriti rimasti svegli. L’eco rimbalzava sulle facciate delle chiese, sulle piazzette vuote, sui bar ormai chiusi. Un cane latrò isterico, una vecchia tapparella sobbalzò.

Ridevano come dei matti. Per forza: lo erano.

Fuori dal paese, nei campi, videro un prato di erba medica.

“Perfetto,” disse Valleriani. “Ben Johnson ha bisogno delle sue corsie per allenarsi in vista delle prossime Olimpiadi.” aggiunse solenne Giffoni. “E noi siamo qui per il bene dello sport,” sentenziò Praticò.

E via, Civetta girò il volante e la Fiat entrò nel campo come un aratro ubriaco, solcava l’erba medica lasciando due profonde linee sghembe, tra l’odore fresco di pianta schiacciata e lo scandalo silenzioso della campagna.

“Seoul ’88 ci deve ringraziare!” gridò Praticò, mentre Valleriani non riusciva più a smettere di ridere.

Il motore, nel mentre, tossiva in protesta.

Con le lacrime agl'occhi, ma ancora non paghi delle evoluzioni della Macchina Nera, alla vista di un palo di una vite, solitario sul bordo del campo, Civettà vide già oltre: “Quello lo buttiamo giù -  disse - una spintarella e cade.”

La spintarella fu due volte un tonfo.
Il palo rimase dritto, imperturbabile.
La Fiat rantolava come un fumatore incallito dopo una corsa.

“Basta,” decise Leonardo. “O ammazziamo la macchina, o la macchina ammazza noi.”

E così, sfiancati e con l’odore di olio bruciato addosso, tornarono verso il paese.

Come in tutte le serate degne di tale qualifica, il momento topico arrivò all’improvviso.

Stavano ridendo ancora come tarantolati facendo la cronaca dei freschi avvenimenti quando incontrarono la pattuglia dei Carabinieri che procedeva in senso opposto.

“Totalmente ignari…” dichiarò Giffoni con un sorriso trionfale. “Se sapessero…”

Non fece in tempo a finire la frase.
La pattuglia frenò.
Fece inversione.
Lampi blu.
Due colpetti di sirena.

La "Macchina Nera" fu invitata ad accostare.

Il carabiniere si avvicinò alla finestra.

“Patente e libretto.”

Civetta inghiottì.

“La patente sì… il libretto…(dopo aver messo inutilmente sottosopra il vano portaoggetti a fianco del posto di guida)... temo di non averlo.”

“Come temo di non averlo?”

“Cioè, ce l’ho… ma l’ho dimenticato a casa. Abito qui a fianco. Posso andare a prenderlo.”

L’altro carabiniere illuminò con la torcia tutti i volti nell’auto. Cinque statue di sale. Nessuno respirava.

“Lei. Scenda.”

Civetta scese — o tentò. Con il gambaletto di gesso sembrava un fenicottero zoppo sceso male da una giostra. Il carabiniere lo guardò stupefatto.

“Ma lei lo sa che per guidare servono requisiti fisici oltre che psichici?
Per ora diamo per buoni quelli psichici… ma quelli fisici mi sembrano decisamente compromessi."

“Sono in licenza di convalescenza, signor carabiniere. Sono un militare.”

“Qual è il suo incarico in caserma?”

“…Autiere.”

Il carabiniere sbatté le palpebre. Due volte. Alzò gli occhi al cielo estivo stellato sperando di scorgervi il volto della Virgo Fidelis, la protettrice dell'Arma a cui chiedere un consiglio.

Leonardo e Civetta andarono davvero a prendere il libretto.
Tornarono trafelati e lo consegnarono.

“Va bene,” sospirò il carabiniere. “Portate a casa questa macchina d’epoca e non fatevi più vedere in giro. E lei, convalescente, non guida più.”

La Virgo Fidelis, aveva deciso per la Grazia. 

“Guido io,” annunciò Giffoni sicuro di sé.

Salì.
Girò la chiave.
Strappo.
Tosse della frizione.
Stallo.

Riprovò.
Altro stallo.

“Ma lei ce l’ha la patente?” domandò il Carabiniere.

“Certo!”

“Me la faccia vedere.”

Giffoni estrasse il portafoglio nel quale si accorse che oltre a qualche risibile biglietto da 1.000 lire e la carta d'identità, invece della patente c'era un biglietto per la prossima partita dell'Udinese acquistato in prevendita. 

“…ehm… l’ho dimenticata a casa.”

Il carabiniere lo guardò come se fosse apparso un marziano in bermuda.

I due militari si scambiarono uno sguardo annichilito. Anche al Figlio della Virgo Fidelis incominciavano a girare gli Zebedei.

Uno prese il blocchetto per iniziare un verbale.

Ma proprio in quel momento, davanti a loro, sfrecciò un’auto a una velocità folle, una scheggia impazzita sulla provinciale.

I due carabinieri si lanciarono uno sguardo che non aveva bisgono di parole mentre Leonardo, intuita la situazione ed il possibile favorevole cambio di scenario, con la sua patente già in mano la esibì ai militari come solo l'arbitro Lo Bello avrebbe saputo fare con il cartellino rosso in faccia all'Armaron Cesare Cattaneo, dopo un fallo da ultimo uomo su Bruno Conti lanciato in area.

“Io posso guidare davvero.”

I Carabinieri salirono di corsa in auto.
Lampeggianti, marcia inserita e ghiaia che saltava, senza aggiungere altro se non uno sguardo più sconsolato più che altro verso Leonardo, Civetta e Giffoni, si lanciarono all'inseguimento del pirata della strada.

Lasciando dietro di sé un gruppo di incalliti ma innocui fancazzisti, un autiere col gesso, una "Macchina Nera" sfinita e due corsie di erba medica perfette per Ben Johnson.



martedì 9 dicembre 2025

CONIGLI, MA ASCIUTTI

Nell’estate del 1980, quella strana stagione sospesa tra la fine delle medie e l’inizio delle superiori, la piazzetta del nostro quartiere era il nostro mondo. Il sole calava tardi, e appena finita la cena uscivamo tutti: chi con la sua bici senza freni, qualche fortunato invidiatissimo addirittura con il CIAO o la VESPA nuovi di zecca, chi rideva sempre troppo forte, chi portava sempre il pallone per paura altrimenti di rimanere escluso o chi fingeva di essere il più serio ma in realtà era il primo a proporre stupidaggini.

Uno sciame di ragazzini che respirava a pieni polmoni la libertà e le "infinite" possibilità di divertimento in compagnia che le vacanze estive, senza il pensiero di compiti da fare o interrogazioni del giorno dopo, ci offrivano.

Il tempo in cui la Vita in fondo pare essere una cosa semplice, che ad ogni domanda sembra darti la possibilità di trovare sempre la risposta giusta, solo cercando un po'. 

Niente poteva turbare quel clima di "Festa Mobile", come avrebbe scritto Hemingway: nè la delusione per la mancata vittoria della nazionale di Bearzot agli Europei di Roma, nè la fresca retrocessione dell'Udinese in serie B - in fondo circolavano voci sempre più insistenti di un  ripescaggio, nè le notizie del telegiornale che raccontavano di stragi di mafia, di rapimenti e attentati a giudici, poliziotti e carabinieri, di aerei civili abbattuti sui cieli italici, di inflazione a due cifre, di minacce nucleari e truppe sovietiche che invadevano l'Afghanistan.

Quelle erano cose che riguardavano il mondo degli adulti, mica era roba nostra: per noi i problemi veri erano quelli che il comandante Koenig doveva affrontare e risolvere sulla base lunare Alpha ogni sera alla Tv, oppure quelli che rendevano speciali le serate di Ricky Cunningham e soci a Milwaukee.   

Le sere scorrevano lente, piene di quel tipo di libertà che si prova solo a tredici anni: lunghe partite a nascondino tra le panchine e i cespugli, oppure infinite partite a calcio interrotte solo da qualche vetro rotto o da qualche adulto che, stufo di veder disturbata la sua quiete da ragazzini inquieti, dopo una serie di avvertimenti verbali disattesi scendeva in strada con fare ben poco amichevole provocando il fuggi-fuggi generale.

In più, quando le lunghe discussioni sul mercato dei calciatori e le prime sigarette che i più audaci avevano fatto comparire per fumare di nascosto, non riuscivano a trattenere la voglia di vivere e sperimentare, si ricorreva "all'arma finale": le scorribande a suonare i campanelli delle villette. Scivolavamo lungo i muri silenziosi come Diabolik e poi scappavamo via come ladri, strillando e sghignazzando per ogni imprecazione che veniva lanciata dalle finestre.

Solo una casa evitavamo sempre. Quella in fondo alla via, con le persiane scrostate e la ringhiera arrugginita. Ci abitava una vecchia arcigna, famosa per due cose: la voce che sembrava una sega sul metallo e l’abitudine di minacciare la polizia anche se solo due foglie cadevano troppo forte nel suo giardino.

“Quella la lasciamo stare” ci dicevamo ogni sera quando arrivavamo lì davanti. “Quella sa chi siamo e chiama i vigili.”

Quella sera però si unì a noi il Sapiente, un ragazzo di due o tre anni più grande, uno di quelli che si credeva già uomo e ci trattava come fossimo tutti indistintamente dei minus habens.

“Che fate, bambini?” ci chiese. “Anche oggi i soliti giochetti dell'asilo?”

Quando arrivammo davanti alla casa della vecchia, ci fermammo come sempre. Il Sapiente si girò verso di noi, con quel suo ghigno da spaccone.

“E questa cos’è, la casa stregata?”
“No,” qualcuno cercò invano di spiegare, “c’è la Vecchia assassina. Se suoni qui finisce male.”
Il Sapiente rise di gusto. “Siete i soliti conigli! Avete paura di una vecchia rincoglionita!”

E prima che potessimo fermarlo, aveva già premuto il dito sul campanello. Non un tocco rapido, no: una lunga, interminabile suonata, come a sfida. Guardava noi per vedere l’effetto che faceva, compiaciuto, gonfio come un tacchino.

Non si accorse che la finestra al primo piano si era aperta.

Non vide l’ombra che si sporgeva.

Non sentì nemmeno il “ADESSO TI SISTEMO IO, DISGRAZIATO!” che precedette il disastro.

Noi sì. Noi vedemmo tutto.

Il pitale apparve come un’apparizione infernale, e un secondo dopo un’intera cascata giallognola gli piombò in testa. Uno schianto molle, un odore inequivocabile. Il Sapiente rimase immobile un istante, con i capelli che gocciolavano e la maglietta imbrattata, poi cominciò a urlare come un vitello.

Noi scoppiammo a ridere così forte che ci venne il mal di pancia.

Il Sapiente scappò via verso casa, senza poter imprecare perché a rischio di dover ingoiare la sua stessa disgrazia. La Vecchia rientrò sbattendo la finestra, vittoriosa.

Da quella sera, nessuno — ma proprio nessuno — ebbe mai più il coraggio di dire che avevamo paura per niente.

E tra noi ragazzi, per mesi, bastava un “Occhio al pitale!” per scoppiare a ridere come quella sera d’estate, la prima in cui capimmo che crescere non vuol dire necessariamente diventare furbi. Ma sicuramente significa non suonare mai alla porta sbagliata.



venerdì 5 dicembre 2025

LA NEVICATA

La nevicata era cominciata piano, come una timida confidenza, poi aveva deciso di prendersi la scena: fiocchi grossi come rondelle cadevano sul campetto di calcio dietro la sede dell'acquedotto, trasformandolo in un paesaggio nordico, con le porte scrostate che sembravano due reliquie di un culto ormai scomparso.

Giffoni, Remfutti e Romano — tre liceali non ancora maggiorenni ma già veterani quanto a motivazioni e astuzie per evitare lunghi pomeriggi sui libri di latino — erano arrivati lì subito dopo il pranzo per godersi le inusuali possibilità di cazzeggio che l'altrettanto insolita nevicata aveva creato.

Senza molta fantasia avevano iniziato a tirarsi palle di neve in faccia, come tre soldati sovietici in pausa dai combattimenti a Stalingrado contro la Sesta Armata del generale Von Paulus mentre il campetto, solitamente polveroso, sembrava un altare candido, ideale per ospitare quel rito primordiale.

I tre amigos, novelli Canova, modellavano palle di neve con una cura estetica quasi scultorea, ridevano, si rincorrevano, si cojonavano, si stavano illudendo che nulla potesse interrompere quell'ennesimo pomeriggio di gioioso fancazzismo e rubato allo studio di civiltà morte e sepolte duemila anni prima.

Poi, come sempre accade quando gli dei si annoiano e decidono di infierire sugli innocenti, accadde.

Sulla porta del campetto comparvero due sagome a loro ben note.

Ed entrarono.

Bruto, Torace di Pietra, massiccio come una ruspa e con l’alito di chi aveva fumato in rapida successione un pacchetto di nazionali senza filtro, e Smilzo, dalla Voce Sfumata, slanciato come un palo della luce e con quel timbro gutturale che rendeva mosce tutte le consonanti, come se parlasse da un’altra dimensione.

I ragazzi si immobilizzarono. Il freddo della neve era nulla rispetto al gelo che arrivava con quei due.

Fermi! — tuonò Bruto, sollevando una palla di neve grande come un melone invernale. 

Lo Smilzo, con la calma del sacerdote che sta per offrire un agnello, aggiunse:
— Attenzione!… adesso si gioca.

Ma il gioco, si sapeva, non era mai un gioco.

Bruto indicò il muretto che cingeva il campetto, annerito dal tempo e da mille bestemmie.

Tutti e tre al muro! Fucilazione!

I liceali si guardarono come tre civili innocenti oggetto di rappresaglia dopo un rastrellamento della Whermacht e come automi incapaci di immaginare la possinilità di evitare l'avverso destino che li attendeva si disposero al muro, mentre i due bulli preparavano le palle di neve come proiettili balistici.

La prima salva li investì con violenza. Colpi al collo, al viso, sulle braccia. Giffoni pensò che Ettore, in fondo, era morto con più dignità sotto i colpi di Achille.

Chi invece dimostrò di avere il coraggio di Achille fu Romano, il primo a perdere la pazienza e a ribellarsi, con la neve che gli colava sulla faccia come la maschera tragica di un Erinni.

— Adesso basta — disse.

Un “basta” che non avrebbe dovuto pronunciare nessuno nel regno di Bruto e Smilzo.

Bruto fece un passo avanti, gonfiando il Torace di Pietra come un bue infuriato.

— Come hai detto?

Romano, con un coraggio che non sapeva di avere — o forse solo stordito dalla freddezza artica — ripeté:
— Adesso tocca a noi.

Il silenzio fu così spesso che persino i fiocchi sembrarono smettere di cadere. Remfutti guardò Romano come Ulisse guardava Euriloco dopo che questi aveva aperto l'otre dei venti donato da Eolo.

Bruto stava per esplodere quando lo Smilzo alzò un braccio e, come sempre, pronunciò la sua sentenza apparentemente magnanima:

È giusto!

Bruto si voltò verso di lui, scandalizzato come un gladiatore che scopre che gli hanno cambiato le regole del circo.

Ma lo Smilzo fu irremovibile.

— È giusto — ripeté con la sua Voce Sfumata  — Tocca a loro.

I bulli andarono al muro, con la lentezza di due bisonti che non hanno alternative.

I tre ragazzi, però, rimasero paralizzati, increduli di poter sfogare finalmente la rabbia accumulata nel tempo verso i loro carnefici.

— Allora?! — urlò Bruto.

Lo Smilzo aggiunse:

Attenzione! Chi ci becca è morto!

Quella frase li disarmò. Non sapevano se fosse una minaccia o una profezia.

Seguirono attimi lunghi come l'eternità con i tre che s'interrogavano sul dafarsi senza trovare una risposta convincente.

Remfutti ruppe gli indugi, si chinò, prese una palla di neve e la scagliò goffamente. Manco li sfiorò. Li evitò volutamente. La palla cadde ai piedi del muro come un pegno di resa.

Lo Smilzo allora concluse:

Il vostro turno è finito! Adesso cambio.

Giffoni, Remfutti e Romano si scambiarono uno sguardo. Uno di quei sguardi che valgono più di mille patti scritti con il sangue.

Fingendo di accettare il verdetto, arretrarono come tre generali sconfitti. Poi, senza un segnale, senza un respiro di preavviso, si voltarono e partirono di corsa.

A tutta velocità.

A gambe levate attraverso la neve, come tre lepri impazzite, con le sciarpe che svolazzavano come bandiere bianche.

Alle loro spalle, Bruto e lo Smilzo esplosero in un coro di imprecazioni.

GIFFONI, REMFUTTI E ROMANO! QUANDO VI TROVIAMO SARANNO CAZZOTTONI!!!

La loro voce risuonò per tutto il campetto, tra i fiocchi che continuavano a cadere con maggiore intensità.

E i tre correvano ridendo, con il cuore che batteva più forte della paura, come succede solo nelle età in cui la vita è ancora tutta da capire, e ogni fuga diventa un ricordo che un giorno, chissà perché, farà quasi tenerezza.

E così, in quell’innevato pomeriggio, non nacque solo una fuga, ma un piccolo mito destinato a essere raccontato mille volte: la volta in cui Giffoni, Remfutti e Romano sopravvissero alla fucilazione di neve… grazie alla sola, sacra, immortale arte della codarda e meravigliosa fuga. 



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