mercoledì 25 giugno 2025

SELINUNTE.EXE - ERROR 404: HUMAN OUT OF SYSTEM


Il sole di giugno calava obliquo sulle rovine di Selinunte, tingendo d’ambra le colonne spezzate e i capitelli disseminati tra l’erba secca. L’antico Tempio di Hera si stagliava solenne sul profilo del mare, come un avvertimento pietrificato mentre il vento portava odore di sale e lentisco, e con esso un silenzio strano, che sembrava chiedere rispetto.

L’uomo era seduto su una pietra piatta, sotto il porticato di quello che un tempo era un altare. Sessant’anni, forse poco più. Canizie ordinata, volto scavato dal sole e da qualche rimorso antico. Osservava il proprio cellulare con lo stesso sguardo con cui un contadino guarda una zappa rotta. Sullo schermo lampeggiava un messaggio: “Errore: impossibile aprire il contenuto.”

«E va' a cagare, pure tu e ‘sto cazzo di QR Code!» sbottò, non alzando neppure il tono.

La voce attirò l’attenzione di un ragazzo poco distante. Occhiali tondi, maglietta con una scritta criptica in codice binario, zainetto minimal. Si avvicinò sorridendo.

«Problemi di connessione o di interpretazione?»

L’uomo sollevò lo sguardo. «Entrambi. Ma è la seconda che mi preoccupa di più.»

Il ragazzo si chinò, gentile. «Posso aiutare? Sono un informatico, se vuole posso farle accedere al contenuto in due secondi.»

«No, no… è il contenuto che mi infastidisce, non la fatica per accedervi.»

Il giovane rise, pensando fosse una battuta. Poi, nel notare lo sguardo serio dell’uomo, tacque.

«Questi cosi… QR code, AI, app che ti spiegano la storia, che ti suggeriscono le emozioni da provare… ma dov’è finito l’uomo in tutto questo? Il mistero? L’errore? La fatica del capire?»

Il ragazzo si sedette accanto a lui, incuriosito.

«Mah, io la vedo diversamente. La tecnologia ci aiuta. Ottimizza. Ordina. Aumenta la nostra possibilità di conoscere, esplorare, persino di amare. L’AI non ci sostituisce, ci espande.»

L’uomo scrollò il capo. «Ecco, è lì che inizia la mia preoccupazione. Questa fiducia cieca. Ogni volta che esprimo dubbi su cosa ci stiamo giocando delegando le nostre decisioni a delle macchine, tutti mi ridono in faccia. “Sei un conservatore”, dicono. Vintage, aggiungono. Come se fosse un insulto.»

Il ragazzo sembrava colto di sorpresa, ma non ancora convinto. «Ma l’uomo resterà sempre al centro. Saremo noi a dare regole, etica, direzione. L’AI esegue. È uno strumento.»

L’uomo si voltò a guardare il tempio spezzato. «Anche queste pietre un tempo erano strumenti. Architettura, potere, religione. Ma guarda ora. Il tempo, la natura, la violenza dell’uomo… tutto ha lasciato il segno. E oggi restano solo rovine. L’AI non sarà diversa. L’illusione del controllo è l’ultima trappola. Davvero pensi che sarà l’uomo a governarla?»

Fece una pausa, poi aggiunse:

«L’uomo… quella specie illuminata che ha inventato la Shoah, che fa guerre ogni trent’anni, che stermina i più deboli per profitto… pensi davvero che questa specie sia in grado di scrivere algoritmi “etici”?»

Il ragazzo non rispose subito. La brezza si infilava tra le colonne, come un sussurro millenario.

«Io penso che ci proviamo. Che almeno questa volta non siamo del tutto ciechi. Abbiamo imparato qualcosa, forse.»

L’uomo sorrise amaramente. «Mosè, Buddha, Gesù, Maometto, Confucio… tutti ci hanno provato. Ma l’uomo ha sempre trovato il modo di disattendere le loro promesse. E ora pensi che saranno due righe di codice a salvarci? Auguri.»

Restarono in silenzio. Dall’alto del tempio, il sole morente sembrava osservare la scena come un vecchio che ne ha viste troppe.

«L’unica consolazione che ho,» mormorò l’uomo, «è che ho poco tempo davanti. Forse non vedrò l’ultima sostituzione. Quella totale.»

Il ragazzo si voltò verso di lui. «Ma se l’intelligenza artificiale un giorno prenderà tutto il controllo… davvero potrà fare peggio di noi?»

L’uomo si alzò in piedi, e guardò per un lungo istante le rovine. «È proprio questa la domanda. E forse, nel profondo, la risposta ti è già arrivata.»

Ora ragazzo osservava l’uomo con più attenzione, qualcosa, nella sua voce, negli occhi fermi, gli impediva di liquidarlo come l’ennesimo nostalgico. Era stanco, sì, ma non arrendevole e soprattutto, parlava con la calma di chi ha già visto le onde alzarsi e abbassarsi più volte nella vita.

«Ha l’aria di uno che ha lottato con questi temi prima che diventassero moda», disse il giovane, in tono meno ironico.

L’uomo sorrise appena. «Moda... già. Prima erano solo preoccupazioni da vecchi professori o da filosofi pessimisti. Oggi sono diventati pitch da conferenza, titoli di libri, panel da festival. Ma la sostanza resta la stessa: l’uomo gioca con qualcosa che crede di controllare e lo fa con una leggerezza che, se non fosse tragica, sarebbe ridicola.»

Si chinò e raccolse un piccolo frammento di marmo. Lo rigirò tra le dita come fosse una reliquia.

«Conosci la hybris

Il ragazzo fece spallucce. «Greco antico, giusto? Una specie di peccato di orgoglio?»

«Non solo. È molto di più. È lo scavalcare il limite. L’uomo che si crede pari agli dei, che si dimentica della sua misura. Metron, la chiamavano. Ogni volta che l’uomo oltrepassa quel confine, il destino – l’Anánkē – lo richiama. E non con le buone.»

Indicò le colonne spezzate tutt’intorno. «Guarda. Questo era un tempio a Hera, sposa di Zeus, regina degli dei. Luogo di culto, di ordine. Eppure ora è polvere. Perché? Perché la civiltà che l’ha eretto ha creduto di poter durare per sempre, di poter dominare tutto: natura, uomini, dei, ma nulla invece resta in piedi quando si dimentica il proprio limite.»

Fece una pausa. Il vento gli muoveva lievemente i capelli.

«Oggi la nostra hybris ha il volto levigato dell’algoritmo. Parliamo di progresso, efficienza, ottimizzazione… ma sotto c’è lo stesso delirio di onnipotenza di allora. Solo che questa volta è meno visibile, più subdolo: ci promette di toglierci la fatica di essere umani.»

Il giovane fissava l’orizzonte. Aveva smesso di sorridere. Un fremito gli passò negli occhi, come se qualcosa stesse scalfendo la sua certezza.

«Però non è solo delirio. È anche speranza. Desiderio di superare i nostri limiti, di curare, di capire…»

«Lo so», rispose l’uomo. «E in questo c’è una bellezza autentica. Non disprezzo il desiderio umano di conoscenza, né la tecnologia in sé. Ma mi chiedo: a che prezzo? Ogni volta che deleghiamo qualcosa all’AI, ci togliamo una parte di responsabilità. E quando smetti di scegliere, quando una macchina decide per te, anche solo in piccolo… qualcosa dentro si spegne.»

Un silenzio colmò lo spazio tra i due. Dalle colonne, i raggi del sole filtravano come dita divine, l’aria vibrava di una quiete ancestrale.

Il ragazzo parlò piano. «Ha paura?»

L’uomo esitò. Poi annuì.

«Sì. Ma non di quello che l’AI farà: ho paura di quello che non faremo più noi; dimenticheremo la bellezza dell’incertezza, dell’errore, del tentativo, la capacità di fermarci, di sbagliare, di piangere per una decisione presa col cuore, e non con un algoritmo. E quando questo succederà… non saremo più umani: saremo divenuti una civiltà apparentemente perfetta, ma spenta. Una Selinunte digitale: bellissima, ma morta.»

Il ragazzo lo guardò a lungo. Poi tirò fuori il telefono, e per un momento, lo contemplò come se non lo riconoscesse più.

«Posso farle una domanda?» chiese infine.

«Certo.»

«Se potesse scegliere… riavvolgere tutto… fermare questo processo prima che esploda… lo farebbe?»

L’uomo restò immobile. Guardava il tramonto che stava spegnendo lentamente i templi.

«No», disse. «Non servirebbe. Il processo è avviato. Irrefrenabile. Ma almeno… almeno potremmo procedere con coscienza. Con umiltà. Ricordando che l’uomo che sogna di diventare Dio, prima o poi si sveglia… e scopre invece di essere solo polvere. E poi, tutto questo in fondo riguarda più te che me. Come rispondono sempre i tuoi sodali quando cerco di  spiegargli che bisognerebbe andarci più cauti nel rendere indispensabili le app e l'AI nella vita di ogni giorno, non si può rallentare il progresso per me e per quelli come me, dato che tra 20 anni o giù di lì saremo tutti morti. Di nuovo, auguri, ragazzo.»


martedì 24 giugno 2025

"DOBBIAMO PARLARE", OVVERO L'ARTE DI NON VOLER ASCOLTARE

Era ancora presto, ma la metropolitana di Napoli aveva già l’odore tipico dei giorni feriali: un misto di caffè forte, profumo di sfogliatelle appena sfornate e quella tensione compressa di una città che corre sempre, ma a modo suo.

Claudio, milanese di nascita, era salito a Toledo, come faceva ogni mattina da quasi vent’anni. Trench grigio, ventiquattrore in pelle un po’ consumata, lo sguardo perso nel vuoto, tipico di chi ha imparato a misurare il tempo e le parole con rigore. Sedette senza nemmeno guardare chi aveva davanti. Poi alzò gli occhi e lo vide. Lo riconobbe subito.

«Io e te dobbiamo parlare», disse, di getto, con un sorriso appena accennato.

L’uomo davanti a lui, nato a Sorrento, si voltò di scatto, sorpreso. Aveva quell’aria più distesa, quasi solare, e un modo di fare gentile che tradiva una certa naturalezza nel rapportarsi agli altri.

«Ehi! Quanto tempo! Sei proprio tu! Ma ti prego… dobbiamo parlare, proprio no! Mannaggia li muort!»

Scoppiarono a ridere insieme, una risata leggera, disarmata. Come il sollievo di ritrovare un complice di un tempo in cui tutto sembrava avere più senso, o almeno più energia.

«Scusa», disse Claudio. «Ma era troppo facile. Te la ricordi, vero? Quante volte l’abbiamo sentita in filiale?»

«Eh già», annuì l’altro, Gianluca, con un sorriso di traverso. Aveva già tolto la cravatta, come faceva sempre appena lasciava l’ufficio. «Il vice che ti prendeva da parte con la faccia grave: “Dobbiamo parlare”. E tu lì a pensare: ho sbagliato un bonifico? Ho approvato un mutuo sbagliato?»

Claudio annuì. «O quella volta che credevano fossi stato io a bucare il plafond del cliente della Ferrari. Mi chiamò il direttore con quella faccia lì. Tre giorni di ansia per poi scoprire che era stato suo figlio a fare casino con il suo tablet.»

«Sì! E tu che avevi già preparato la lettera di dimissioni!»

Risero di nuovo, ma stavolta con una nota di malinconia sotto. Perché il tempo aveva limato le vette, ma anche le illusioni.

«Comunque», riprese Claudio, «ci pensavo proprio stamattina: quante volte ce la siamo sentita dire quella frase, “Dobbiamo parlare”? Ma in realtà nessuno voleva parlare davvero.»

Gianluca lo guardò di lato. «Volevano solo mettere le cose in chiaro. Unilaterali. Tu ascolti, io ti comunico. Punto.»

«Parlare, oggi, è diventato questo. Aspettare il proprio turno. Quando va bene.»

«Quando va bene, sì. Di solito ti interrompono prima che tu abbia finito la frase.»

Claudio guardava il vetro davanti a sé, ma non vedeva il suo riflesso. Pensava a Sara, la figlia ormai adolescente, e a quanto spesso si accorgesse di non ascoltarla davvero. «Come a tennis», mormorò. «Solo che invece della racchetta usiamo le parole. E ci affanniamo a ribattere, mica a capire.»

Gianluca annuì, improvvisamente serio. «Ma sai perché? Perché ascoltare è faticoso. E la fatica oggi non va di moda.»

«Già. Se una cosa richiede tempo, se ti costringe a fermarti, allora è “vecchia”. È “out”.» aggiunse Claudio.

"Non è solo fatica. È che ascoltare davvero… non è solo sentire», continuò Gianluca, con voce più bassa. «È cercare di capire cosa significano le parole dell’altro non per noi, ma per lui. E questo, Claudio, è devastante.»
L’altro si voltò, curioso.
«Cioè?»
«Cioè che quando qualcuno ti parla, tu credi di aver capito perché hai colto le parole. Ma quelle parole passano attraverso i tuoi filtri, le tue esperienze, i tuoi valori. E allora finisci per interpretarle alla luce di te stesso. Invece no. Dovresti leggerle con le sue lenti, col suo vissuto. Capire non cosa diresti tu in quella situazione, ma perché lui lo dice così, con quel tono, in quel momento. È… un’impresa. Una scalata interiore.»
Claudio annuì lentamente. «Serve empatia. E tempo. E voglia di uscire da se stessi. E chi ce l'ha?»
«Appunto. Oggi chi ce l’ha, quella voglia? Siamo tutti occupati a esistere nella nostra bolla, a difendere il nostro punto di vista come se fosse una roccaforte. E più l’altro è distante, più lo riduciamo a una caricatura. Troppa fatica mettersi nei suoi panni, meglio giudicare e tirare dritto.»
Il treno continuava la sua corsa, ma all’interno sembrava essersi creato un silenzio diverso. Di quelli che non pesano.

Gianluca sistemò il giubbotto sul grembo. Aveva lasciato la banca da un paio d’anni. Ora lavorava in consulenza finanziaria, meno sicuro, ma più libero. «Io non ne potevo più di quella dinamica da cartellino e riunioni inutili. Si parlava per non dire, e nessuno ascoltava nessuno. Tutti sempre in vetrina.»

«E quando parli davvero? Quando cerchi un dialogo autentico, magari ti dicono che sei pesante.»

Claudio lo guardò, stavolta con un sorriso più caldo. «Sai che ti invidio? Hai avuto il coraggio di mollare. Io sono ancora lì. Ogni giorno più stanco. Più muto.»

Il treno frenò bruscamente. Una voce metallica annunciò: «Toledo». Fermata di interscambio.

«Scendi qui?», chiese Gianluca.

«No», rispose Claudio. «Ma sai che ti dico? Dopo questo incontro, forse cambio direzione. Almeno mentale.»

Si strinsero la mano, come vecchi compagni di trincea. Si scambiarono i numeri, ma soprattutto una promessa: un pranzo. Un vero pranzo. Con calma. Con ascolto.

Poi Gianluca si alzò. Prima di uscire dal vagone si voltò, con un mezzo sorriso:

«Oh, ma la prossima volta niente “dobbiamo parlare”, eh? Ti denuncio per crimini contro l’umanità.»

L’altro sorrise. «Buona giornata, filosofo.»

«Anche a te, maestro del tennis.»

venerdì 20 giugno 2025

LA PROFEZIA DI AMBROSINI: ADVENTURES OF A LIFETIME

New York City, aprile 2025


Il sole di primavera si rifletteva sui vetri dei grattacieli come un report trimestrale mandato in anticipo: brillante, inaspettato, vagamente sospetto.

Marco De Santis – contabile senior, ex giovane promessa della Bocconi, ormai “asset storico” di una multinazionale in cui nessuno ricordava più cosa facesse davvero – stava svuotando la sua scrivania per l’ultima volta.

L’ufficio era una teca del tempo.

Su una mensola in alto, una pianta grassa che aveva smesso di lottare nel 2019. Accanto, un mug sbeccato con il logo di una startup fintech morta al secondo round di finanziamento e appeso alla parete un calendario da tavolo del 2020 – mai sostituito, tanto i giorni erano diventati tutti uguali.

E, in fondo a un cassetto che si apriva solo con un colpo ben assestato, una cartelletta blu.

Sopra, scritto a penna: “Ambrosini, 1988 – Bocconi”

De Santis Sorrise.

Non un sorriso dolce. Di quelli amari, alla “lo sapevo, ma ho fatto finta di niente”.

Si sedette. Non con l’eleganza del manager in pensione, ma con la rassegnazione articolare di uno che ha passato quarantadue anni curvo sulle scadenze fiscali.

Fuori, il traffico di Lexington Avenue scorreva come un foglio Excel con troppi filtri: lento, pieno di errori e con qualcuno che continua a chiederti “ma perché non si aggiorna il grafico?”.

Nel 1988, al terzo anno di università, aveva seguito il corso di Economia e Management dell’Impresa Industriale.

Il Professor Ambrosini parlava come se stesse dettando il futuro. Un giorno, con la calma clinica di chi sapeva già tutto, aveva detto:

“I colletti bianchi subiranno la sorte che hanno avuto i lavoratori nelle fabbriche con l'arrivo delle macchine e del taylorismo: saranno gli operai meccanizzati ed alienati del prossimo futuro, scoprendo nuove e più sottili forme di alienazione.”

De Santis, che sognava riunioni a New York e stock option da piegare in quattro, lo aveva ascoltato con lo stesso scetticismo e la grattata di zebedei con cui si ascolta il croupier al Casinò che dice "il Banco vince sempre" e liquidato mentalmente con un “Menagramo! che esagerazione” e un panino al tonno nella mensa della Bocconi.

Lui ce l'aveva fatta, era riuscito davvero a sbarcare nella City dopo la Bocconi e ad avere la tempra per mettervi le radici e "fare famiglia" coronando il personalissimo sogno americano nella città dei sogni ma "a consuntivo" era andata esattamente come profetizzato da  Ambrosini, solo con meno poesia.

E a guardare, con occhi meno superficiali, più o meno come aveva anticipato abilmente Paolo Villaggio nel 1975 con il suo Fantozzi, celando dietro le "assurde" avventure dell'improbabile ragioniere, tutte le dinamiche presenti nel mondo del terziario, anche di quello "avanzato".  

E a guardare ancora più in profondità, Kafka, con la sua "Metamorfosi" lo aveva messo nero su bianco già nel 1915, ma lui di letteratura si era sempre disinteressato sin dai tempi del Liceo, quando l'aveva giudicata "qualcosa di cui si poteva occupare chi era già ricco e aveva tempo da perdere" ed era il classico studente da "mi basta 6".

De Santis aveva iniziato a registrare fatture con penna blu e fogli protocollo, poi erano arrivati  i floppy da 5¼, poi la "magia nera" di Lotus 1-2-3 che crashava se guardavi male la tastiera. Seguirono Excel 95 (era ora), SAP - l'infernale gestionale tedesco che in azienda avevano subito battezzato Sistema di Abilità Punitiva -  i server aziendali (“basta salvare tutto in G:\”),  poi il cloud che doveva essere la salvezza ma somigliava più ad un magazzino disordinato con un abbonamento mensile  (“non si sa dove va, ma ci va tutto”).

L’outsourcing lo aveva privato dei colleghi italiani mentre l’automazione gli aveva stravolto le mansioni, mortificando l'intelletto, mentre la pandemia aveva sancito il trionfo senza ritorno del "lavoro da remoto" e la vittoria dello smart working.

Quella cosa che l'addetto alla sicurezza ucraino della Tower della City dove De Sancits passava tutte le sue giornate, aveva battezzato "SMRT" working, spiegandogli che "SMRT" in tutte le lingue slave voleva dire "morte". 

L’intelligenza artificiale, alla fine, aveva reso il suo lavoro più "strategico"; tradotto: faceva tutto lei, tu controllavi che non avesse interpretato "costo del lavoro" come "licenzia tutti e compra un robot emotivo".

Negli ultimi cinque anni, il suo lavoro consisteva in tre operazioni:

1. Leggere report generati dall’IA e fingere che avessero un senso.

2. Correggere le “ottimizzazioni” dove l’algoritmo aveva deciso che 0 dipendenti = massimo margine operativo.

3. Sorridere in avvio di videochiamate mentre un software di riconoscimento facciale gli dava 6/10 in “employee engagement” e a seguire l'unico vero vivente collegato diventava il gatto di qualche collega in smart working.

Si era trasformato, senza accorgersene, in quello che Ambrosini aveva descritto con chirurgica crudeltà: un operaio da tastiera, schedato, tracciato, ottimizzato, e completamente inutile durante i blackout di sistema. Però ben pagato, anche nel 2008, quando la grande crisi dei mutui sub-prime sembrava potesse riportare Manhattan, Wall Street e tutta la finanza mondiale all'età della pietra.

Guardò la cartelletta.

Avrebbe voluto scrivere al professore e non per dirgli “aveva ragione” – quello lo sapeva già – ma per chiedergli se, oltre all’evoluzione del lavoro, avesse previsto anche la roulette del Bellagio di Las Vegas, dove in un weekend del 2003, Marco aveva lasciato in una notte quanto guadagnava in un trimestre. 

Sorrise di nuovo.

O forse era il bruciore di stomaco: la cena di ieri sera con i colleghi l'avevano fatta in un ristorante fusion in cui "innovativo" significava servire il risotto su di una pietra calda.

Chiuse lo zaino.

Infilò dentro due penne senza tappo, una graffetta arrugginita, e i resti simbolici di un’epoca in cui “digitale” era solo una marca di orologi Casio.

Scese nell’atrio.

Il receptionist – ventiquattro anni, laurea triennale in “Benessere Integrato e Creatività Transdisciplinare”, sneakers fluorescenti e sguardo zen – lo salutò:

«Happy retirement, Mr. De Santis!»

«Thank you, Son. Remember: quando un’app ti dice “vuoi accettare i nuovi termini?”, la risposta è sempre “no” – ma tanto accetta lo stesso.»

"What??" fu la risposta del receptionist preso in contropiede dall'uso dell'italiano, di cui non capiva una parola, prima di scuotere la testa e con un sorrisino ebete riprendere il suo solitario al terminale e pensare "Italians, crazy people".

Fuori, New York  accolse Mr. De Santis come aveva sempre fatto: rumorosa, indifferente, e piena di promesse non richieste.

E lui era tornato ad essere solo Marco, finalmente, non doveva più loggarsi, ma solo augurarsi che i "grandi" del pianeta, che parevano essere andati tutti fuori di senno da qualche anno, non avessero provocato una guerra atomica.

Libero.

Almeno finché qualche sistema legacy non avesse riesumato il suo nome per un audit del 2011.

Evento più temibile di un'esplosione nucleare.

E iniziò a comprendere suo figlio, che non ne aveva voluto sapere di studiare e lavorava come animatore sulle navi da crociera che facevano rotta tra le isole caraibiche, dove De Santis padre e i suoi colleghi meccanizzati cercavano di riconciliarsi con la vita durante le ferie comandate o la pensione, spendendo più dollari che potevano in ogni sorta attività di plastica che gli veniva venduta come "Adventures of a Lifetime".







giovedì 19 giugno 2025

MEXICO Y NUBES, ALL INCLUSIVE

La sabbia della Riviera Maya aveva un colore indeciso tra il latte e il sogno. Sembrava versata a mano da un dio in vena di gentilezze. L'acqua, più trasparente del curriculum di un influencer, accarezzava la spiaggia come una hostess svogliata, mentre il sole faceva del suo meglio per convincere anche le nubi più resistenti a starsene zitte.

All'interno del Yucatàn Blu Prestige Resort & Spa "dove il relax incontra l'anima", secondo il depliant pubblicitario patinato che aveva sfogliato in agenzia viaggi, il dottor Erik Nardini, 49 anni, consulente fiscale lombardo, orgoglioso possessore di due SUV e una moglie che gli parla solo tramite WhatsApp, stava sorseggiando un mojito in plastica compostabile. L'aveva chiesto "senza zucchero", per sentirsi sano.

Attorno a lui, un catalogo vivente di clichè: palme pettinate, iguane addestrate a sembrare esotiche ma non troppo, musica chill-out di flauto di pan, e gruppi di americani dalle camicie hawaiane esagerate e i portafogli ancora più esagerati.

Nella piscina a sfioro, una coppia russa si scattava selfie su uno dei gonfiabili a forma di fenicottero. Lui, torace depilato e tatuato con frasi di Bukowski mal tradotte e lei, completamente immobile, tranne che per le labbra a cuore gentilmente arricchite e modellate come altre parti del corpo. A pochi metri, una "life-coach del respiro", tedesca, di nome Luma, stava guidando un laboratorio chiamato "Riconnettiti con il tuo chakra turistico" sotto un gazebo profumato di palo santo.

«Apriamo il diaframma e ringraziamo l'universo per questa sabbia!»

«Figa! Ma io sono allergico alla sabbia» sussurrò, neanche tanto sommessamente, un milanese spaesato, prima di essere ignorato.

Erik si voltò infastidito. Era venuto là "per staccare", non per assistere a una recita "spirituale"; fu proprio in quel momento che vide di nuovo Raùl, l'addetto responsabile della sicurezza nel resort: alto, pelle color bronzo lucido, occhiali neri e un giubbotto antiproiettile che stonava comicamente con il contesto tropicale. Il badge diceva "Raùl", ma l'atteggiamento era da Clint Eastwood dei Tropici.

«¿Todo bien, señor?» (Tutto bene, signore?) chiese con voce profonda e cortese.

Erik annuì con malcelata sufficienza. «Tutto fantastico. Questo posto è un paradiso, penso che gli americani se lo siano inventato, ma voi messicani lo mantenete bene. Bravi.»

Raùl inclinò la testa, appena. «Gracias, señor. Pero, ¿sabe qué había aquí antes del resort?»
(Grazie, signore. Ma sa cosa c’era qui prima del resort?)

«La giungla, immagino. Zanzare, serpenti, roba da selvaggi.»

Raùl sorrise sottile. «Había pueblos. Había silencio. Luego llegaron los gringos y sus fondos de inversión: trajeron el progreso; ahora sonreímos y damos la bienvenida a cualquiera con una tarjeta Platinum.»
(C’erano villaggi. C’era silenzio. Poi sono arrivati i gringos e i loro fondi di investimento: hanno portato il progresso; ora sorridiamo e diamo il benvenuto a chiunque abbia una carta Platinum.)

Poi tirò fuori un vecchio Walkman. «Esto lo dejó un turista italiano en 1994. Lo reparamos, lo usamos, luego lo tiramos. Ahora es “vintage”: un coleccionista de Miami pagó 300 dólares.»
(Questo lo ha lasciato un turista italiano nel 1994. Lo abbiamo riparato, usato, poi buttato. Ora è “vintage”: un collezionista di Miami ha pagato 300 dollari.)

Erik sbatté le palpebre. «Sta scherzando.»

«Jamás en la vida. Nosotros los mexicanos somos excelentes recolectores de sueños caducados. Los limpiamos, los vendemos otra vez. Con una sonrisa. ¿Cuánto ha pagado usted por esta semana?»
(Mai nella vita. Noi messicani siamo ottimi raccoglitori di sogni scaduti. Li lucidiamo, li vendiamo di nuovo. Con un sorriso. Lei quanto ha pagato per questa settimana?)

«Tremila euro.»

Raùl alzò le sopracciglia. «¿Y por qué? Por una playa que era gratis, por un atardecer que pertenecía a todos, y por una botella de tequila que aquí cuesta menos que la leche. Pero relájese, señor. La ironía está incluida en el paquete.»
(E per cosa? Per una spiaggia che era gratis, per un tramonto che apparteneva a tutti, e per una bottiglia di tequila che qui costa meno del latte. Ma si rilassi, signore. L’ironia è inclusa nel pacchetto.)

Se ne andò lasciandolo solo con il mojito annacquato e un vago senso di ridicolo. Ma non era ancora finita.

Quella sera, durante la cena a buffet tematica: tradizioni maya rivisitate in chiave fusion. Erik decise di chiedere chiarimenti alla chef responsabile del guacamole al tartufo.

La trovò. Era Dolores, cuoca locale, occhiali grossi e un sarcasmo tagliente come un coltello da sushi.

«Dolores, ma queste sono davvero ricette tradizionali maya?»

Lei sorrise.
«Sí, si los mayas hubieran tenido nata agria y microondas. Pero ya sabe, la tradición vende. Como las máscaras aztecas que hacemos en China y los ponchos que cosemos en Turquía. El folclore es el opio del turista.»
(Sì, se i maya avessero avuto accesso alla panna acida e ai microonde. Ma sa com’è, la tradizione vende. Come le maschere azteche che facciamo in Cina e i poncho cuciti in Turchia. Il folclore è l’oppio del turista.)

Il mattino dopo, Erik fece il check-out. Al banco, Raúl era ancora là.

«¿Todo bien, señor? ¿Encontró su paz interior?»
(Tutto bene, signore? Ha trovato la sua pace interiore?)

Erik sorrise. «No. Ma ho trovato questo.» Tirò fuori dal borsone un vecchio lettore DVD portatile. «Lo lascio qui. Chissà, magari un giorno lo rivenderete al triplo a qualche idiota europeo.»

Raùl lo prese, lo guardò, e fece un sorriso enigmatico.
«Sí, señor. Lo haremos. Y probablemente será usted.»
(Sì, signore. Lo faremo. E probabilmente sarà lei.)


martedì 17 giugno 2025

GIF, MEME, PEC, TOGA E LIVORI ANCESTRALI

Venezia, Tribunale Penale Aula 4, metà mattina.

Il vociare sommesso dei legali si spegne mentre l’udienza viene aggiornata. Il giudice Dott. Gargiulo, uomo di sobria gentilezza e cravatte sempre storte, prende una cartellina, si alza. Ma non fa in tempo a raggiungere la porta che l’avv. Diego Pavan lo intercetta con passo calcolato.

« Mi scusi, Presidente, posso rubarle un minuto? »

Il giudice lo squadra con una certa stanchezza: ha già capito che non sarà un minuto, ma annuisce, indicando la finestra affacciata sul Rio dei Mendicanti.

« Dica pure, avvocato »

Il navigato penalista prende fiato; non come si fa prima di parlare, ma come si fa prima di una lunga immersione.

« Lei ha presente il caso Spolverin, quello delle liti condominiali diventate stalking? »

Il giudice annuisce: « Più che presente. Ho sognato la portinaia che mi citofonava di notte. »

« Ecco. Non è questo il punto. Il punto è: come possiamo, noi, oggi, trattare situazioni umanissime, fatte di istinti, paure, rivalse da cortile e gelosie primordiali usando codici concepiti per un mondo che non esiste più? »

Il giudice solleva un sopracciglio. L'avvocato Pavan prosegue, animandosi.

« Noi avvocati ci barcameniamo tra pulsioni arcaiche, reazioni limbiche, risposte di attacco-fuga degne dell’età della pietra e dobbiamo incasellarle in articoli scritti quando l’unità dell’Italia era appena fatta oppure c’era ancora il Duce? O peggio, dobbiamo applicare prassi nate con la macchina da scrivere! »

« Capisco la frustrazione »

« No, mi lasci finire. Nel frattempo, là fuori, la gente vive in una bolla digitale: comunicano con meme, si lasciano via chat, registrano gli sfoghi in video e poi li cancellano prima che la polizia li acquisisca. E noi? A litigare su chi deve notificare per primo, se in cartaceo o via PEC. »

Il giudice sospira ma non è un sospiro di fastidio: è il sospiro di chi ha vissuto la stessa sensazione, solo che non l’ha ancora detta ad alta voce.

Pavan affonda: « Noi interpretiamo emozioni del Paleolitico con regole ottocentesche, in un contesto tecnologico che evolve più in fretta delle cellule del nostro corpo. Ogni sei mesi cambia tutto, app e piattaforme comprese. Ma la legge? Resta là. Immobile. In toga.»

Un motoscafo della polizia passa nel canale e fa vibrare i vetri.

Il giudice si sporge appena verso l’acqua, poi torna serio. « E quindi, cosa propone, avvocato Pavan? Di riscrivere l’intero ordinamento? »

Il legale sorride, è un sorriso stanco, ma sincero.

« No. Ma almeno riconoscere che non possiamo far finta di nulla. Che la complessità dell’umano oggi va decifrata con strumenti nuovi. Perché se non lo facciamo noi, lo faranno gli algoritmi. E allora la giustizia non sarà più cieca: sarà automatica. »

Il giudice resta in silenzio per qualche secondo. Poi annuisce, lentamente.

« La sua è stata l’arringa più sensata che ho sentito oggi. Peccato che non fosse in aula... Venga avvocato le offro un caffè, se si accontenta delle cialde della macchinetta che ha sostituito il vecchio bar di una volta. Si figuri la pena per un vecchio napoletano come me, costretto a bere quella ciofeca, guardando un cassone di metallo invece che una bella cameriera. »

Facendosi a vicenda l’occhiolino con un mezzo sorriso, i due uomini di legge si stringono la mano e si avviano verso la macchinetta del caffè.


1985-2025: 40 ANNI DA NOTTI DI ESAMI, SIGARETTE GALEOTTE E TANTI "FAREMO".

 

16 giugno 1985

La prima notte prima degli esami era arrivata anche per me.

Avevo provato a dormire, ma nella testa c’era un caos difficile da spiegare: pensieri che si rincorrevano, ricordi che si accavallavano senza chiedere permesso. Una quantità di immagini così precisa e vivida che sembrava tutto accaduto il giorno prima.

Mi rigiravo nel letto da ore, come se cambiando posizione potessi anche cambiare la realtà. Nella testa c’era un indescrivibile vorticare di pensieri, un flusso continuo di immagini, ricordi, voci. Pensavo a quel che avevo fatto, a quel che non avevo fatto, a ciò che forse avrei dovuto fare. A come sarebbe stato l’indomani, e ai cinque anni passati. Pensavo a tutto. Forse troppo.

Alla fine mi alzai. Andai in cucina, mi versai un bicchiere d’acqua. Guardai fuori: tutto era silenzioso, come se anche fuori si sapesse che era la vigilia di qualcosa di grosso.

Mi accesi una sigaretta — lo so, pessima idea e se mio padre se ne fosse accorto mi avrebbe cambiato i connotati — e uscii sul balcone. L’aria era immobile, né calda né fredda. Una via di mezzo fastidiosa, come quelle situazioni in cui non sai se ridere o preoccuparti.

Vedevo Roma e sentivo la voce di Antonello, come una colonna sonora involontaria. Vedevo Tina su quel treno, fresca diplomata in ragioneria, che tra una risata e l’altra mi raccontava dei suoi esami. E io pensavo a questo anno scolastico strano, un po’ improvvisato con troppi professori improvvisati e anche un po’ universitario – e mi chiedevo se avessi fatto bene a mettere da parte i libri tutte quelle volte, con la solita frase rassicurante: “Faremo”.

Ce n’erano stati tanti, di quei momenti.

Ripensai alla gita a Monaco, e mi salì un groppo di nostalgia alla gola. Rividi Silvia, alla stazione di Venezia, in quella mattina di maggio: mi salutava dal treno per Milano. Da allora non l’avevo più vista. E poi mi vidi seduto con Livio sulla panchina davanti a casa sua, tutti e due a evitare accuratamente di nominare la parola “maturità”, mentre ci perdevamo a progettare con entusiasmo una vacanza in bici, post-esami. Una roba enorme, ovviamente.

E mai realizzata, altrettanto ovviamente.

Nel frattempo si avvicinava il momento della “scelta importante”: università o militare? E il futuro, che fino a poco prima sembrava una parola teorica, prendeva forma davanti a me, con tutta la sua aria dura, faticosa, piena di punti interrogativi.

Pensai che forse sì, se avessi potuto, sarei tornato indietro di cinque anni. Per rifare tutto. O almeno per sentirmi ancora così: dentro una stagione in cui, bene o male, sapevo sempre dove stare.

Gli esami che stavano per cominciare, in fondo, erano l’ultimo atto di un periodo in cui tutto sembrava avere un senso chiaro: la scuola, gli amici, le certezze costruite giorno dopo giorno. Il dopo, invece, era nebbia.

4 luglio 1985

Ultima notte.

L’indomani tutto sarebbe finito. L’esame orale era fissato: 5 luglio, ore 12. La fine ufficiale.

Ero agitato, ovviamente. Anche un po’ teso. Ma almeno non mi avevano cambiato la materia. Solo questo bastava a rasserenarmi. La sensazione dominante, però, era che fosse davvero finita. Sul serio. E quella consapevolezza, più che liberarmi, mi lasciava addosso una nostalgia strana.

Ripensai all’anno appena passato, e a tutto quello che stava per chiudersi. Alla classe, all’atmosfera, alle genuine cazzate, alle risate sincere, alla strana solidarietà che ci aveva tenuti insieme — ognuno a modo suo, ognuno col proprio stile, ma tutti a condividere lo stesso grande problema: l’esame.

E quella roba lì non l’avrei più vissuta.

Tornarono a galla episodi in ordine sparso. Le tante "marine": alla Bussola, da Narda, a Udine. Mattinate interminabili piene di risate, lazzi, battute. E poi quella frase che ci dicevamo sempre alla fine, ridendo: “Non potrà finire bene!”

Che suonava buffa allora, ma adesso aveva qualcosa di sinistramente vero.

Il giorno dopo, lo sapevo, tutti si aspettavano da me grandi cose. Io, più semplicemente, speravo di non mandare tutto all’aria proprio all’ultimo giro. Di non tradirmi sul traguardo.

Ripensai ancora ai miei errori, alle cose lasciate in sospeso, a ciò che non avevo avuto il coraggio di dire. Ai rapporti complicati, alle amicizie che erano finite senza un vero motivo, a quelle che invece, chissà come, erano rimaste in piedi.

Mi vennero di nuovo in mente mille immagini: le risate con il Trivino, Zippo, Carlo e Manzo nei corridoi, le battute stupide in classe, le discussioni con i prof, le corse in bicicletta per andare a scuola, le mattine in cui ci si addormentava sui banchi e quelle in cui si rideva fino a non riuscire a respirare. I pomeriggi a studiare insieme, o a fingere di farlo. Le versioni di tedesco copiate di corsa. Le giornate passate a parlare della vita, dell’amore, del futuro, come se ne sapessimo qualcosa.

Era tutto lì. Niente di epico, niente di tragico. Solo la fine di un percorso. E l’inizio di qualcosa che ancora non sapevo come chiamare.

lunedì 16 giugno 2025

APOCALYPSE FAGAGNA


A metà giugno 2023 morì un‘illusione, che il tempo potesse lasciare inalterato un comune sentire, la voglia di ricordare insieme.

Non fu un colpo secco, niente tragedie teatrali. Morì piano, come si spegne una sigaretta lasciata andare da sola, dimenticata sul bordo di una panchina.

Anche nel 1983 ci credevamo, certo. Da settimane non si parlava d’ altro: “Se vinciamo il zonale, poi il provinciale sarà nostro, è questione di mentalità, di fame” Parole grosse, buttate là - tra una birra, tra una gazzosa e un cornetto Algida. La verità? Nessuno sapeva davvero cosa stesse facendo. Correvi dietro a un pallone, ti gasavi per un titolo inventato e ti convincevi che contasse qualcosa.

Quella sera, su un campo che pareva un biliardo vicino a Fagagna, quel castello di illusioni, almeno per quanto mi riguarda, crollò. E non fu nemmeno un dramma. Fu una liberazione amara. Lo spareggio lo abbiamo perso. Punto. Loro più cattivi, più organizzati, più svegli. Noi ancora là - a pensare che bastasse volerlo davvero. Spoiler: non basta mai.

Due scene restano nella memoria, perché anche quando vuoi dimenticare, certe immagini ti si piantano nella testa.

La prima: il nostro portiere. Quello che si atteggiava a duro, che urlava per comandare la difesa. A fine partita era in mezzo al campo, da solo, al buio. Fumava, come un cinquantenne disilluso, e piangeva in silenzio. Uno spettacolo patetico e tenero allo stesso tempo. Non per la partita persa, ma perché, con il senno di poi, ho capito che certe cose non tornano. Che certe occasioni, una volta sfumate, ti restano addosso come un rimpianto stantio.

La seconda: noi quattro, fuori dagli spogliatoi di Cividale. Mezzi vestiti, mezzi disfatti, che ancora ci raccontavamo la partita come se potesse cambiare qualcosa. Il solito rituale di chi perde e vuole credere che con un rimpallo diverso, un fischio diverso, tutto sarebbe andato per il verso giusto. Sciocchezze.

Poi, dalle mura della caserma, arrivò il Silenzio. Quella tromba beffarda, che sembrava lì - apposta per dirci: è la Fine. Andate a casa. La giostra è finita.

La stagione della Cividalese Allievi 1982/83 finì così. Senza gloria, senza coppe, senza applausi.

Solo un gruppo di ragazzini che si erano forse presi troppo sul serio per qualche mese, convinti di essere protagonisti, quando in realtà non c’erano nemmeno i riflettori accesi.

Cosa resta?

Forse qualche amicizia vera, ma anche quelle col tempo si sfilacciano.

Resta la lezione, se vogliamo chiamarla così ¬: che si può dare tutto e non ottenere niente. Che si può perdere con dignità, ma si perde e basta.

E che certe illusioni fanno parte del gioco, ma prima o poi arriva il fischio finale. E il tabellone non mente.

Il sogno è morto l’8 giugno 1983, ma solo nel giugno 2023 ho compreso perchè non potevamo vincere quello spareggio.

Il resto - sorrisi, pacche sulle spalle, ricordi al bar - è solo rumore di fondo.

Forse era davvero meglio ricordarci così, come eravamo.

In fondo, ognuno per conto suo.

Post in evidenza

NOTTI MAGICHE ANTE LITTERAM

25 giugno 1983 – Arrivo al campo mezz’ora prima del fischio d’inizio, di corsa dopo essere riuscito a fuggire da una riunione familiare ...