martedì 16 dicembre 2025

SEI MUTA STASERA FINESTRUOLA

 

Ho già avuto in altre occasioni modo di chiarire come per Giffoni, Remfutti, Leonardo, Romano, Gambero e coetanei, la presenza di 3000 militari accasermati nel territorio della loro cittadina di 11.000 anime fosse una tragedia epocale per la loro vita sociale in gioventù.

E, soprattutto, per i loro ormoni fuori controllo in quella fase della vita in cui bisogni e appetiti ancora  sconosciuti sgorgano con l’impeto di torrenti in alta montagna.

Come utilizzare e sfogare, dunque, tutta quell’energia confinata allo stato latente?

L’attività sportiva, certo, era un rimedio efficace, ma di sicuro non riusciva a canalizzare utilmente il potenziale energetico che si accumulava ogni giorno di più, come la differenza di potenziale che crea una diga quando blocca la portata di un fiume.      

In mancanza di soluzioni convincenti, quell’energia allo stato latente prese la via della vendetta: in qualche modo bisognava “punire” quelli che erano ai loro occhi i responsabili di quella cattività esistenziale, i militari stessi.

Così, una sera di noia qualunque, ecco il colpo di genio che sbloccò la situazione: la camera di Giffoni si trovava all’ultimo piano di un palazzo prospicente la via principale che conduceva i militari di leva alla caserma e la camera aveva un’unica finestra fronte strada coperta da una tapparella “veneziana” che consentiva, opportunamente posizionata, agli occupanti della stanza di vederci attraverso la strada, mentre dalla strada la finestra appariva chiusa.

I militari stavano come al solito rientrando rumorosi sciamando a frotte; tra Giffoni e Gambero ci fu uno sguardo d’intesa: posizionarono in modo utile la veneziana ed iniziarono a “battere la stecca” con violenza mentre in strada un drappello di militi aveva appena oltrepassato la linea della finestra.

A questo punto si rende necessaria una precisazione pedante ed ultronea per gli albicriniti, ma essenziale per tutti coloro che non hanno prestato servizio militare: “battere la stecca” era un suono che veniva prodotto facendo  sbattere con perizia il dito indice contro l’unione del medio con il pollice attraverso un movimento rapido del braccio; questo gesto veniva indirizzato dai congedanti nei confronti delle reclute ( i “rospi”)  in segno di scherno.

La reazione in strada fu immediata: i militi si fermarono di scatto per cercare di capire da dove arrivava quel suono “familiare” e poi iniziarono con imprecazioni varie.  “Chi è che batte la stecca?? Fatti vedere!!  Vieni giù!!” La manfrina proseguì per qualche minuto prima che gli sventurati in grigioverde fossero costretti ad affrettare il passo per rientrare in caserma ed evitare il “mancato rientro”.

Giffoni e Gambero ridevano e si rallegravano come se avessero scoperto la caverna dei quaranta ladroni; forti di quella scoperta iniziarono quasi tutte le sere a ripetere il rituale, indirizzando tra le tapparelle anche qualche “Muti rospi” ai malcapitati, tanto per alzare la tensione e far raggiungere il climax alle reazioni in strada.

Il piano era perfetto: i militari non avevano tempo per capire esattamente da dove arrivavano suoni e  sfottò, considerato che avevano i minuti contati per rientrare in caserma; la situazione non faceva altro che aumentare la loro furia che veniva sfogata con insulti spesso coloriti dall’intercalare dei vari dialetti italici: “Addamurittu!  (Devi morire tu!) Capecchio’! (Capo del chiodo: testa di cazzo) Faccica’ (Faccia di cazzo).“ oppure in perfetto italiano come “Vieni giù, devi morire in Friuli! Ce le ha le corna tuo padre? E tua madre?”

Nel frattempo, Giffoni e Gambero continuavano imperterriti a battere la stecca senza curarsi minimamente delle minacce che arrivavano dalla strada come un fiume in piena; una sera qualcuno cercò addirittura  di scalare il palazzo arrampicandosi, inutilmente, su di una grondaia. Tra l’altro, sul lato sbagliato della strada.   

Una sera, mentre Giffoni stava comodamente a letto intento nel ripassare gli appunti di diritto per l’interrogazione prevista il giorno dopo, dalla strada udì un rabbioso: “Sei muta stasera eh? Finestruola di merda!”

L’errore fatale di Giffoni e Gambero fu di non custodire per sé il tesoro che avevano trovato per vincere la noia e vendicare gli ormoni insoddisfatti, decidendo di condividere con Remfutti, Leonardo e Romano le loro avventure serali.

Il risultato fu che, un sabato sera, dietro la finestruola magica della camera di Giffoni,  oltre a Gambero e ai citati, volle essere presente anche un loro compare di cui “è pietoso tacere anche il nome” come avrebbe detto Adso da Melk ne Il nome della rosa.

L’Innominabile, non pago del copione che andava in scena in strada provocato dietro le veneziane, d’improvviso ordinò imperiosamente: “Tenetemi i piedi!”, così facendo alzò bruscamente la tapparella sporgendosi verso la strada, battendo a due mani la stecca.

La reazione sotto fu immediata: i militi triplicarono gli insulti come leoni in gabbia che finalmente vedono vicina la preda in carne ed ossa dietro le sbarre, ma ancora irraggiungibile.

La conseguenza più drammatica, però, si manifestò il giorno seguente; i militi avevano identificato il palazzo a cui apparteneva la finestruola e così furono in grado di capire che il portone di accesso si trovava qualche decina di metri più indietro, circostanza su cui Giffoni e Gambero avevano fatto affidamento per non essere scoperti.

Nel pomeriggio Giffoni dalla terrazza interna si accorse che due energumeni vagavano nella corte del palazzo alla ricerca di “qualcosa” e quando lo videro, con fare minaccioso, gli domandarono: “Chi è che abita all’ultimo piano?”

Giffoni, compresi il pericolo e la gravità della situazione, fece immediatamente lo gnorri e, ostentando sicurezza, si fece trovare pronto: “Abita uno di questa famiglia che al momento non è in casa; devo riferire qualcosa?”

La risposta dell’energumeno fu lapidaria: “Si, digli che se rompe ancora il cazzo la sera gli apriamo il culo come un copertone”.

Non ci fu bisogno di ulteriori chiarimenti.

Il “tesoro” era svanito, la finestruola tacque per sempre.

mercoledì 10 dicembre 2025

UN VELIERO IN ACQUE PROIBITE

 (Udine, marzo 1986)

Avevo deciso solo all’ultimo. Italia–Austria allo Stadio Friuli, amichevole pre-Mondiale: occasione irripetibile, mi dicevo, soprattutto per uno studente universitario che di solito le partite le vedeva in televisione, tra libri di diritto e panini con la mortadella. 

La terza volta che la nazionale maggiore giocava ad Udine, dopo i precedenti con la Svizzera del novebre 1979 e con la Germania sbagliata, quella dell'Est, il giorno di Pasqua del 1981. Tutte amichevoli.

I mondiali messicani erano ormai prossimi e non potevo certo mancare alla possibilità di vedere con i miei occhi se il Vecjo era riuscito in qualche modo a sistemare i suoi azzurri per la difesa del titolo mondiale conquistato in Spagna 4 anni prima, anche se Paolo Rossi, come cantava Antonello Venditti, era diventato "un ragazzo come noi", ed era lontanissimo parente del Pablito "manolete" di Barcellona e Madrid.

Così, in quella mattina fuori dall'ordinario, lasciai aperto sul tavolo della camera il manuale di diritto pubblico e mi lanciai all’avventura con il mezzo più improbabile del Triveneto, e forse dell'Italia intera: la Fiat 850 special color sabbia di mio zio.

Identica a quella che usava Sergio Benvenuti, quando non era Manuel Fantoni, in "Borotalco". 

Ero un neopatentato e in quel tempo il possesso di un automobile tutta per sè era appannaggio o di chi si era già procurato un lavoro oppure faceva parte dell'alta aristocrazia "borghese" come avrebbe dedotto il geometra Calboni.

Ed io non rientravo in nessuna di queste categorie.

Però c'era lo zio. Lui era il proprietario della mitica 850 color sabbia che non usava più da un bel pezzo e che aveva riconvertito a serra invernale. Letteralmente. Dentro ci teneva le piante da vaso: gerani, qualche ficus stanco, chissà forse persino un’orchidea fallita.

Così arrivata la primavera, me l'aveva imprestata fino al prossimo inverno.

Quando la guidavo, sentivo il profumo di terriccio e anticongelante fuso col sudore delle decadi. L’autonomia era di venti chilometri: poi l’acqua del radiatore cominciava a bollire, e giuro che una volta mi sfiorò l'idea di buttarci dentro gli spaghetti; l’avevo soprannominata Il Veliero: ogni curva produceva un lamento degli ammortizzatori che pareva il cigolio degli alberi di un galeone sotto vento. Navigare sì, ma costantemente per mare in tempesta.

Arrivai in centro a Udine in prossimità dell’orario di chiusura della Fogolâr Viaggi, dove vendevano i biglietti. Naturalmente non c’era un solo parcheggio libero. Nemmeno l’ombra. Il centro pareva un formicaio imbottigliato: Golf diesel, Uno bianche, qualche 127 superstite e l’immancabile Panda 30 che tutti disprezzavano ma tutti, sotto sotto, desideravano.

Poi, come un’apparizione mariana, scorsi un posto libero proprio davanti all’ingresso del palazzo di fronte all’agenzia. Libero. Vuoto. Pulito. Liscio. Un invito del destino.

«Tanto entro, compro il biglietto ed esco. Cinque minuti. Nessun vigile può essere così rapido», mi dissi con l’incoscienza di chi non ha ancora compiuto vent’anni.

Parcheggiai. Il Veliero gemette come sempre, azionai il freno a mano e corsi dentro.

Naturalmente, dentro c’era coda. Non una coda normale: una coda biblica, una serpentina umana di gente col giaccone della nazionale e l'immancabile Gazzetta rosea sotto al braccio. Gli ultimi biglietti scottavano in mano ad impiegati ormai iracondi come Lucifero nel canto finale dell'Inferno.

Quando uscii, mezz’ora dopo, col mio prezioso tagliando in tasca e la sensazione di aver scalato il K2, vidi la scena.

L’850 era piantonata da due agenti di Polizia di Stato.

Li osservai da lontano, facendo lo gnorri. Loro si voltarono verso di me inerpicando lo sguardo sull’auto e poi sulla mia faccia, come se faticassero a credere di aver finalmente trovato il proprietario.

Il primo parlò con un tono tra lo stupito e l’offeso:

«Ti abbiamo aspettato invece di chiamare subito il carro attrezzi per la rimozione… eravamo troppo curiosi di vedere chi fosse il figo che aveva parcheggiato questa Ferrari nel posto del Prefetto.»

Ferrari. Aveva detto Ferrari.

Gettai un’occhiata al Veliero: paraurti arrugginito, sportello sinistro che si apriva solo con un colpo di fianco, vernice color sabbia scolorita dal sole. Una Ferrari in effetti, se il Cavallino fosse stato un geranio.

Provai una scusa:

«Non sapevo fosse il posto del Prefetto… chiedo scusa... pensavo di stare due minuti… stavano per chiudere…»

L’altro agente scoppiò in una risata incredula:

«Si rende conto? Adesso arriva il Prefetto e trova il posto occupato… da… da… questa Autobomba!»

Indicò l’auto come si potrebbe indicare una borsa incustodita nella sala d'attesa di un aereoporto.

Io annuii, mortificato ma non troppo. Forse la nonchalance fu la mia salvezza. Forse il destino aveva deciso di applicare le attenuanti generiche e la condizionale. O forse la semi-infermità mentale, riservando le penitenze adeguate per gli anni a venire. 

E mentre nella mia mente incominciavano invece a formarsi gli scenari più cupi e catastrofici, la Pietà mosse, come avrebbe detto il Sommo Poeta, l'Alto Fattore senza dover neppure costringermi a scalare la montagna del Purgatorio. 

Non vollero neanche vedere i documenti. Niente targa, niente libretto, niente sermoni.

«Vada via, subito. Prima che torni il Prefetto. E per carità, non la parcheggi davanti alla Questura se non vuole trovarsi la Digos sotto casa questo pomeriggio.»

Salpai a bordo del Veliero con la fretta di una ciurma di marinai di un galeone spagnolo sfuggito ai pirati di Barbanera; la nave, ops, la Fiat 850 special partì tossendo come un marinaio con quarant’anni di porto alle spalle, e mi riportò oscillando più che mai verso casa, con il biglietto in tasca, il cuore che batteva alla velocità di un compressore e l'occhio sul radiatore per capire quando sarebbe arrivata l'ora di buttarci la pasta e fermare la corsa.

Per la cronaca l'indomani l'Italia vinse 2-1, ma quando in autunno fu tempo di riconsegnare il Veliero al suo porto sicuro e alle sue piante, l'Italia di Bearzot, crollata in Messico, non esisteva più.

Sia il Veliero che il Vecjo erano diventati leggenda, oltre che essere giunti alla meritata e definitiva pensione.




LA MACCHINA NERA

Correva l'anno del Signore... più o meno tutte le storie epiche iniziano così, e quindi neppure questa dovrebbe sottrarsi all'incipit canonico, ma qui oltre alla metà di settembre del corrente anno Domini 1987, c'era qualcosa che, va invece di rimanere ben chiusa in garage, correva "ad minchiam".

Settembre 1987 dunque, si erano appena conclusi i campionati mondiali di atletica a Roma con la stratosferica (e dopata) vittoria di Ben Johnson nei 100 su carl Lewis e l'Udinese si apprestava, dopo 8 anni di A ed i fasti dell'era Zico, a giocare in serie B pensando di essere la Juve della cadetteria con il campione del mondo Ciccio Graziani con la fascia di capitano e il ritorno di Massimo Giacomini in panchina.

Ma durarono poco tutti e due, Graziani appese le scarpe al chiodo in novembre, il friulano Giacomini fu sostituito in ottobre dal serbo giramondo Velibor "Bora" Milutinovic, a sua volta giubilato in dicembre per Nedo Sonetti che riusci a mettere in salvo i bianconeri che stavano viaggiando spediti verso.. la serie C!

E alla Presidenza del Consiglio non sedeva più il totem socialista Bettino Craxi ma un quarantenne commercialista di Asti, il democristiano Giovanni Goria, che per via della barba nera, i capelli corvini ed una vaga somiglianza somatica all'attore indiano Kabir Bedi, Gianfranco D'Angelo non aveva perso l'occasione per farlo diventare "Sandokan Goria" durante i suoi pezzi di satira della trasmissione televisiva del momento: Drive In.   

Ma durò poco: a febbraio fu già dimissionato, con i capelli e la barba diventati grigi e la finanziaria bocciata dal Parlamento.

Ma lasciamo perdere queste note di colore e torniamo "a noi", ad una di quelle tiepide sere di fine estate in cui il Friuli sembrava addormentato già alle dieci, e i paesini dell’interno erano solo un susseguirsi di case buie, capitelli illuminati e silenzi agricoli.

Civetta — nome di battaglia, perché nessuno lo chiamava con il suo altisonante nome di battesimo  Guidomaria — era in licenza di convalescenza dal servizio militare. Alla gamba destra portava un gambaletto di gesso che gli irrigidiva tutto il passo; un incidente in addestramento gli aveva giocato un brutto scherzo; questo però, non gli impediva lontano dal reparto, contro ogni logica e forse contro qualche norma del Codice della Strada, di guidare una vecchia Fiat 1100 nera tenuta come una reliquia dalla famiglia: un’auto dei primi anni Sessanta, con sedili che sapevano di polvere, fumo e ricordi.

Quella sera, l’equipaggio era al completo: Giffoni e Leonardo, universitari freschi, Valleriani e Praticò, ancora al liceo e, naturalmente Civetta, l’autiere zoppo.

Vagavano senza meta tra i paesini, sospinti dalla noia più assoluta e dal desiderio di far qualcosa, qualsiasi cosa, pur di non tornare a casa.

A un certo punto — probabilmente dopo una birra di troppo e un lampo creativo di Giffoni — nacque l’idea: “Facciamo come nel film di Spielberg. The Car. La macchina nera. Quella posseduta.” E fu così, la Fiat 1100, con i suoi modesti cinquant’anni sulle spalle, divenne la Macchina Nera.

Attraversarono tre borghi a clacson spiegato, come se dovessero far scappare tutti gli spiriti rimasti svegli. L’eco rimbalzava sulle facciate delle chiese, sulle piazzette vuote, sui bar ormai chiusi. Un cane latrò isterico, una vecchia tapparella sobbalzò.

Ridevano come dei matti. Per forza: lo erano.

Fuori dal paese, nei campi, videro un prato di erba medica.

“Perfetto,” disse Valleriani. “Ben Johnson ha bisogno delle sue corsie per allenarsi in vista delle prossime Olimpiadi.” aggiunse solenne Giffoni. “E noi siamo qui per il bene dello sport,” sentenziò Praticò.

E via, Civetta girò il volante e la Fiat entrò nel campo come un aratro ubriaco, solcava l’erba medica lasciando due profonde linee sghembe, tra l’odore fresco di pianta schiacciata e lo scandalo silenzioso della campagna.

“Seoul ’88 ci deve ringraziare!” gridò Praticò, mentre Valleriani non riusciva più a smettere di ridere.

Il motore, nel mentre, tossiva in protesta.

Con le lacrime agl'occhi, ma ancora non paghi delle evoluzioni della Macchina Nera, alla vista di un palo di una vite, solitario sul bordo del campo, Civettà vide già oltre: “Quello lo buttiamo giù -  disse - una spintarella e cade.”

La spintarella fu due volte un tonfo.
Il palo rimase dritto, imperturbabile.
La Fiat rantolava come un fumatore incallito dopo una corsa.

“Basta,” decise Leonardo. “O ammazziamo la macchina, o la macchina ammazza noi.”

E così, sfiancati e con l’odore di olio bruciato addosso, tornarono verso il paese.

Come in tutte le serate degne di tale qualifica, il momento topico arrivò all’improvviso.

Stavano ridendo ancora come tarantolati facendo la cronaca dei freschi avvenimenti quando incontrarono la pattuglia dei Carabinieri che procedeva in senso opposto.

“Totalmente ignari…” dichiarò Giffoni con un sorriso trionfale. “Se sapessero…”

Non fece in tempo a finire la frase.
La pattuglia frenò.
Fece inversione.
Lampi blu.
Due colpetti di sirena.

La "Macchina Nera" fu invitata ad accostare.

Il carabiniere si avvicinò alla finestra.

“Patente e libretto.”

Civetta inghiottì.

“La patente sì… il libretto…(dopo aver messo inutilmente sottosopra il vano portaoggetti a fianco del posto di guida)... temo di non averlo.”

“Come temo di non averlo?”

“Cioè, ce l’ho… ma l’ho dimenticato a casa. Abito qui a fianco. Posso andare a prenderlo.”

L’altro carabiniere illuminò con la torcia tutti i volti nell’auto. Cinque statue di sale. Nessuno respirava.

“Lei. Scenda.”

Civetta scese — o tentò. Con il gambaletto di gesso sembrava un fenicottero zoppo sceso male da una giostra. Il carabiniere lo guardò stupefatto.

“Ma lei lo sa che per guidare servono requisiti fisici oltre che psichici?
Per ora diamo per buoni quelli psichici… ma quelli fisici mi sembrano decisamente compromessi."

“Sono in licenza di convalescenza, signor carabiniere. Sono un militare.”

“Qual è il suo incarico in caserma?”

“…Autiere.”

Il carabiniere sbatté le palpebre. Due volte. Alzò gli occhi al cielo estivo stellato sperando di scorgervi il volto della Virgo Fidelis, la protettrice dell'Arma a cui chiedere un consiglio.

Leonardo e Civetta andarono davvero a prendere il libretto.
Tornarono trafelati e lo consegnarono.

“Va bene,” sospirò il carabiniere. “Portate a casa questa macchina d’epoca e non fatevi più vedere in giro. E lei, convalescente, non guida più.”

La Virgo Fidelis, aveva deciso per la Grazia. 

“Guido io,” annunciò Giffoni sicuro di sé.

Salì.
Girò la chiave.
Strappo.
Tosse della frizione.
Stallo.

Riprovò.
Altro stallo.

“Ma lei ce l’ha la patente?” domandò il Carabiniere.

“Certo!”

“Me la faccia vedere.”

Giffoni estrasse il portafoglio nel quale si accorse che oltre a qualche risibile biglietto da 1.000 lire e la carta d'identità, invece della patente c'era un biglietto per la prossima partita dell'Udinese acquistato in prevendita. 

“…ehm… l’ho dimenticata a casa.”

Il carabiniere lo guardò come se fosse apparso un marziano in bermuda.

I due militari si scambiarono uno sguardo annichilito. Anche al Figlio della Virgo Fidelis incominciavano a girare gli Zebedei.

Uno prese il blocchetto per iniziare un verbale.

Ma proprio in quel momento, davanti a loro, sfrecciò un’auto a una velocità folle, una scheggia impazzita sulla provinciale.

I due carabinieri si lanciarono uno sguardo che non aveva bisgono di parole mentre Leonardo, intuita la situazione ed il possibile favorevole cambio di scenario, con la sua patente già in mano la esibì ai militari come solo l'arbitro Lo Bello avrebbe saputo fare con il cartellino rosso in faccia all'Armaron Cesare Cattaneo, dopo un fallo da ultimo uomo su Bruno Conti lanciato in area.

“Io posso guidare davvero.”

I Carabinieri salirono di corsa in auto.
Lampeggianti, marcia inserita e ghiaia che saltava, senza aggiungere altro se non uno sguardo più sconsolato più che altro verso Leonardo, Civetta e Giffoni, si lanciarono all'inseguimento del pirata della strada.

Lasciando dietro di sé un gruppo di incalliti ma innocui fancazzisti, un autiere col gesso, una "Macchina Nera" sfinita e due corsie di erba medica perfette per Ben Johnson.



martedì 9 dicembre 2025

CONIGLI, MA ASCIUTTI

Nell’estate del 1980, quella strana stagione sospesa tra la fine delle medie e l’inizio delle superiori, la piazzetta del nostro quartiere era il nostro mondo. Il sole calava tardi, e appena finita la cena uscivamo tutti: chi con la sua bici senza freni, qualche fortunato invidiatissimo addirittura con il CIAO o la VESPA nuovi di zecca, chi rideva sempre troppo forte, chi portava sempre il pallone per paura altrimenti di rimanere escluso o chi fingeva di essere il più serio ma in realtà era il primo a proporre stupidaggini.

Uno sciame di ragazzini che respirava a pieni polmoni la libertà e le "infinite" possibilità di divertimento in compagnia che le vacanze estive, senza il pensiero di compiti da fare o interrogazioni del giorno dopo, ci offrivano.

Il tempo in cui la Vita in fondo pare essere una cosa semplice, che ad ogni domanda sembra darti la possibilità di trovare sempre la risposta giusta, solo cercando un po'. 

Niente poteva turbare quel clima di "Festa Mobile", come avrebbe scritto Hemingway: nè la delusione per la mancata vittoria della nazionale di Bearzot agli Europei di Roma, nè la fresca retrocessione dell'Udinese in serie B - in fondo circolavano voci sempre più insistenti di un  ripescaggio, nè le notizie del telegiornale che raccontavano di stragi di mafia, di rapimenti e attentati a giudici, poliziotti e carabinieri, di aerei civili abbattuti sui cieli italici, di inflazione a due cifre, di minacce nucleari e truppe sovietiche che invadevano l'Afghanistan.

Quelle erano cose che riguardavano il mondo degli adulti, mica era roba nostra: per noi i problemi veri erano quelli che il comandante Koenig doveva affrontare e risolvere sulla base lunare Alpha ogni sera alla Tv, oppure quelli che rendevano speciali le serate di Ricky Cunningham e soci a Milwaukee.   

Le sere scorrevano lente, piene di quel tipo di libertà che si prova solo a tredici anni: lunghe partite a nascondino tra le panchine e i cespugli, oppure infinite partite a calcio interrotte solo da qualche vetro rotto o da qualche adulto che, stufo di veder disturbata la sua quiete da ragazzini inquieti, dopo una serie di avvertimenti verbali disattesi scendeva in strada con fare ben poco amichevole provocando il fuggi-fuggi generale.

In più, quando le lunghe discussioni sul mercato dei calciatori e le prime sigarette che i più audaci avevano fatto comparire per fumare di nascosto, non riuscivano a trattenere la voglia di vivere e sperimentare, si ricorreva "all'arma finale": le scorribande a suonare i campanelli delle villette. Scivolavamo lungo i muri silenziosi come Diabolik e poi scappavamo via come ladri, strillando e sghignazzando per ogni imprecazione che veniva lanciata dalle finestre.

Solo una casa evitavamo sempre. Quella in fondo alla via, con le persiane scrostate e la ringhiera arrugginita. Ci abitava una vecchia arcigna, famosa per due cose: la voce che sembrava una sega sul metallo e l’abitudine di minacciare la polizia anche se solo due foglie cadevano troppo forte nel suo giardino.

“Quella la lasciamo stare” ci dicevamo ogni sera quando arrivavamo lì davanti. “Quella sa chi siamo e chiama i vigili.”

Quella sera però si unì a noi il Sapiente, un ragazzo di due o tre anni più grande, uno di quelli che si credeva già uomo e ci trattava come fossimo tutti indistintamente dei minus habens.

“Che fate, bambini?” ci chiese. “Anche oggi i soliti giochetti dell'asilo?”

Quando arrivammo davanti alla casa della vecchia, ci fermammo come sempre. Il Sapiente si girò verso di noi, con quel suo ghigno da spaccone.

“E questa cos’è, la casa stregata?”
“No,” qualcuno cercò invano di spiegare, “c’è la Vecchia assassina. Se suoni qui finisce male.”
Il Sapiente rise di gusto. “Siete i soliti conigli! Avete paura di una vecchia rincoglionita!”

E prima che potessimo fermarlo, aveva già premuto il dito sul campanello. Non un tocco rapido, no: una lunga, interminabile suonata, come a sfida. Guardava noi per vedere l’effetto che faceva, compiaciuto, gonfio come un tacchino.

Non si accorse che la finestra al primo piano si era aperta.

Non vide l’ombra che si sporgeva.

Non sentì nemmeno il “ADESSO TI SISTEMO IO, DISGRAZIATO!” che precedette il disastro.

Noi sì. Noi vedemmo tutto.

Il pitale apparve come un’apparizione infernale, e un secondo dopo un’intera cascata giallognola gli piombò in testa. Uno schianto molle, un odore inequivocabile. Il Sapiente rimase immobile un istante, con i capelli che gocciolavano e la maglietta imbrattata, poi cominciò a urlare come un vitello.

Noi scoppiammo a ridere così forte che ci venne il mal di pancia.

Il Sapiente scappò via verso casa, senza poter imprecare perché a rischio di dover ingoiare la sua stessa disgrazia. La Vecchia rientrò sbattendo la finestra, vittoriosa.

Da quella sera, nessuno — ma proprio nessuno — ebbe mai più il coraggio di dire che avevamo paura per niente.

E tra noi ragazzi, per mesi, bastava un “Occhio al pitale!” per scoppiare a ridere come quella sera d’estate, la prima in cui capimmo che crescere non vuol dire necessariamente diventare furbi. Ma sicuramente significa non suonare mai alla porta sbagliata.



venerdì 5 dicembre 2025

LA NEVICATA

La nevicata era cominciata piano, come una timida confidenza, poi aveva deciso di prendersi la scena: fiocchi grossi come rondelle cadevano sul campetto di calcio dietro la sede dell'acquedotto, trasformandolo in un paesaggio nordico, con le porte scrostate che sembravano due reliquie di un culto ormai scomparso.

Giffoni, Remfutti e Romano — tre liceali non ancora maggiorenni ma già veterani quanto a motivazioni e astuzie per evitare lunghi pomeriggi sui libri di latino — erano arrivati lì subito dopo il pranzo per godersi le inusuali possibilità di cazzeggio che l'altrettanto insolita nevicata aveva creato.

Senza molta fantasia avevano iniziato a tirarsi palle di neve in faccia, come tre soldati sovietici in pausa dai combattimenti a Stalingrado contro la Sesta Armata del generale Von Paulus mentre il campetto, solitamente polveroso, sembrava un altare candido, ideale per ospitare quel rito primordiale.

I tre amigos, novelli Canova, modellavano palle di neve con una cura estetica quasi scultorea, ridevano, si rincorrevano, si cojonavano, si stavano illudendo che nulla potesse interrompere quell'ennesimo pomeriggio di gioioso fancazzismo e rubato allo studio di civiltà morte e sepolte duemila anni prima.

Poi, come sempre accade quando gli dei si annoiano e decidono di infierire sugli innocenti, accadde.

Sulla porta del campetto comparvero due sagome a loro ben note.

Ed entrarono.

Bruto, Torace di Pietra, massiccio come una ruspa e con l’alito di chi aveva fumato in rapida successione un pacchetto di nazionali senza filtro, e Smilzo, dalla Voce Sfumata, slanciato come un palo della luce e con quel timbro gutturale che rendeva mosce tutte le consonanti, come se parlasse da un’altra dimensione.

I ragazzi si immobilizzarono. Il freddo della neve era nulla rispetto al gelo che arrivava con quei due.

Fermi! — tuonò Bruto, sollevando una palla di neve grande come un melone invernale. 

Lo Smilzo, con la calma del sacerdote che sta per offrire un agnello, aggiunse:
— Attenzione!… adesso si gioca.

Ma il gioco, si sapeva, non era mai un gioco.

Bruto indicò il muretto che cingeva il campetto, annerito dal tempo e da mille bestemmie.

Tutti e tre al muro! Fucilazione!

I liceali si guardarono come tre civili innocenti oggetto di rappresaglia dopo un rastrellamento della Whermacht e come automi incapaci di immaginare la possinilità di evitare l'avverso destino che li attendeva si disposero al muro, mentre i due bulli preparavano le palle di neve come proiettili balistici.

La prima salva li investì con violenza. Colpi al collo, al viso, sulle braccia. Giffoni pensò che Ettore, in fondo, era morto con più dignità sotto i colpi di Achille.

Chi invece dimostrò di avere il coraggio di Achille fu Romano, il primo a perdere la pazienza e a ribellarsi, con la neve che gli colava sulla faccia come la maschera tragica di un Erinni.

— Adesso basta — disse.

Un “basta” che non avrebbe dovuto pronunciare nessuno nel regno di Bruto e Smilzo.

Bruto fece un passo avanti, gonfiando il Torace di Pietra come un bue infuriato.

— Come hai detto?

Romano, con un coraggio che non sapeva di avere — o forse solo stordito dalla freddezza artica — ripeté:
— Adesso tocca a noi.

Il silenzio fu così spesso che persino i fiocchi sembrarono smettere di cadere. Remfutti guardò Romano come Ulisse guardava Euriloco dopo che questi aveva aperto l'otre dei venti donato da Eolo.

Bruto stava per esplodere quando lo Smilzo alzò un braccio e, come sempre, pronunciò la sua sentenza apparentemente magnanima:

È giusto!

Bruto si voltò verso di lui, scandalizzato come un gladiatore che scopre che gli hanno cambiato le regole del circo.

Ma lo Smilzo fu irremovibile.

— È giusto — ripeté con la sua Voce Sfumata  — Tocca a loro.

I bulli andarono al muro, con la lentezza di due bisonti che non hanno alternative.

I tre ragazzi, però, rimasero paralizzati, increduli di poter sfogare finalmente la rabbia accumulata nel tempo verso i loro carnefici.

— Allora?! — urlò Bruto.

Lo Smilzo aggiunse:

Attenzione! Chi ci becca è morto!

Quella frase li disarmò. Non sapevano se fosse una minaccia o una profezia.

Seguirono attimi lunghi come l'eternità con i tre che s'interrogavano sul dafarsi senza trovare una risposta convincente.

Remfutti ruppe gli indugi, si chinò, prese una palla di neve e la scagliò goffamente. Manco li sfiorò. Li evitò volutamente. La palla cadde ai piedi del muro come un pegno di resa.

Lo Smilzo allora concluse:

Il vostro turno è finito! Adesso cambio.

Giffoni, Remfutti e Romano si scambiarono uno sguardo. Uno di quei sguardi che valgono più di mille patti scritti con il sangue.

Fingendo di accettare il verdetto, arretrarono come tre generali sconfitti. Poi, senza un segnale, senza un respiro di preavviso, si voltarono e partirono di corsa.

A tutta velocità.

A gambe levate attraverso la neve, come tre lepri impazzite, con le sciarpe che svolazzavano come bandiere bianche.

Alle loro spalle, Bruto e lo Smilzo esplosero in un coro di imprecazioni.

GIFFONI, REMFUTTI E ROMANO! QUANDO VI TROVIAMO SARANNO CAZZOTTONI!!!

La loro voce risuonò per tutto il campetto, tra i fiocchi che continuavano a cadere con maggiore intensità.

E i tre correvano ridendo, con il cuore che batteva più forte della paura, come succede solo nelle età in cui la vita è ancora tutta da capire, e ogni fuga diventa un ricordo che un giorno, chissà perché, farà quasi tenerezza.

E così, in quell’innevato pomeriggio, non nacque solo una fuga, ma un piccolo mito destinato a essere raccontato mille volte: la volta in cui Giffoni, Remfutti e Romano sopravvissero alla fucilazione di neve… grazie alla sola, sacra, immortale arte della codarda e meravigliosa fuga. 



PERTURBAZIONI IN ARRIVO!

Al Bar “Ai Birilli Bevuti”, era un'altra sera fredda e stanca dei primi anni ’80, l’aria era così densa di fumo e di bestemmie masticate che pareva di entrare in una grotta etrusca. Il biliardo a goriziana, illuminato dal suo lampadario verde scuro, troneggiava come un altare, e attorno ad esso Bruto, Torace di Pietra, e Smilzo, dalla Voce Sfumata, stavano consumando una partita che aveva assunto i toni epici di una contesa tra divinità minori.

I tre liceali — Giffoni, Remfutti e Leonardo — assistevano immobili, raccolti in un silenzio liturgico. Nessuno dei tre osava fiatare: lo sguardo dello Smilzo bastava a zittire l'intero bar, figurarsi tre sedicenni che speravano solo di non diventare bersaglio di nuove angherie.

La partita sembrava ormai segnata. Smilzo era a un tiro dalla vittoria e il suo sorriso era quello di chi pregusta il trionfo. Si fermò un istante, guardò gli spettatori, poi Bruto, poi di nuovo le biglie sul panno verde. Poi gli venne l'idea geniale, perchè non voleva solo vincere, ma addirittura stravincere, il confronto con il compare e quindi, con una teatralità che avrebbe fatto invidia a Vittorio Gassman, annunciò:

Esco con Giffoni!

Il bar si immobilizzò.
Giffoni sbiancò di colpo.
Accanto a lui, Remfutti e Leonardo si scambiarono invece uno sguardo complice, sollevato, quasi allegro. Non era toccato a loro. La vittima sacrificale era un’altra.
E quel sottile cinismo adolescenziale, fatto di istinto di sopravvivenza, prese forma in un mezzo sorriso appena dissimulato.

Smilzo gli porse la stecca come si consegna un’arma sacra a un prescelto condannato a morte.

Giffoni, che di biliardo a goriziana ne sapeva quanto un giostraio dei canti gregoriani, si avvicinò tremante al tavolo. Cercò di darsi un tono, respirò, fece cenno di misurare l’angolo come aveva visto fare ai "professionisti", poi, tradito dall’emozione e dall’assoluta ignoranza del gioco, tirò.

Il risultato fu un disastro che pareva studiato a tavolino da qualche demone burlone. Fu un disastro epocale. La biglia battente si mosse a caso, pagò tutto quello che poteva pagare, fece danni irreversibili alla reputazione del tiratore e, per sicurezza, si infilò pure in buca come un suicidio sportivo. Bruto, incredulo, esplose in una risata così forte che fece vibrare i bicchieri del bancone.

Smilzo rimase invece senza parole per tre lunghi secondi, poi urlò portandosi le mani ai capelli:

Ah Puffana!! Tutti! Li ha bevuti tutti!

La frase rimbalzò tra i muri del bar come un proiettile di gomma, sancendo ufficialmente la colpa di Giffoni e la punizione che ne sarebbe seguita.

Remfutti, fiutando l’escalation pericolosa, non attese conferma e si dileguò fuori dal bar con la rapidità di un ladro di polli inseguito dai carabinieri.

Leonardo lo guardò sparire, geloso della fuga, ma era troppo tardi.

Senza attendere un istante, infatti, lo Smilzo ordinò:

Giffoni! Leonardo! Venite qui! Nei bagni! Subito!

I due obbedirono istantaneamente, sospinti dall’istinto di sopravvivenza più che dall’autorità morale del loro carnefice. Una volta dentro, la porta si chiuse con un secco clangore. Sopra il battente, la famigerata feritoia — trampolino di mille torture acquatiche — li osservava come l’occhio di un idolo crudele.

Dall’esterno riecheggiò l’urlo trionfante di Smilzo:

Perturbazioni in arrivo!

Giffoni e Leonardo, che per una volta avevano fiutato l’inganno prima che si concretizzasse, si accovacciarono subito contro la porta, stretti uno all’altro, riducendo al minimo l’area esposta al fuoco nemico.

La prima secchiata esplose nel bagno con la forza di un monsone. Poi vennero la seconda e la terza, ma nessuna li raggiunse: l’acqua si spandeva sul pavimento come un’onda impotente. Smilzo, insospettito dal silenzio, aprì la porta d’un colpo, pronto a godersi il risultato della propria opera.

Li trovò perfettamente asciutti.

Rimase interdetto, quasi offeso dalla loro astuzia improvvisa. E in quel brevissimo attimo di smarrimento, i due liceali partirono come fulmini: scivolarono di lato, sfilarono via dal bagno e fuggirono verso l’uscita, correndo tra i tavoli tra le risate isteriche di Bruto che li inseguiva urlando metà minacce e metà insulti.

Passarono alcuni giorni. Giffoni, che viveva nell’ansia di incontrare Smilzo, si muoveva per il paese con l’aria di chi teme costantemente un agguato. Ma il destino, come sempre inflessibile, presentò il conto una mattina davanti alle scuole elementari.

Vieni qui! — tuonò la Voce Sfumata alle sue spalle.

Giffoni si fermò.
Si voltò.
E vide lo Smilzo che lo fissava con l’espressione di un giudice medievale.
Rimase pietrificato.

Siediti sul monumento! — disse lo Smilzo indicando il monumento d'arte contemporanea che troneggiava nel piazzale antistante l'edificio scolastico.

Giffoni obbedì. Si arrampicò sul basamento e rimase seduto, esposto allo sguardo di mamme, bambini, maestre e pensionati che passavano, ognuno dei quali si chiedeva perché quel ragazzo fosse seduto sul monumento come un santo laico in attesa della beatificazione.

Mezz’ora. Senza muoverti. — decretò Smilzo, soddisfatto, prima di allontanarsi con passo trionfale.

Giffoni rimase immobile, con le mani sulle ginocchia, mentre intorno a lui la vita del paese scorreva come se fosse tutto normale. Nel frattempo, i suoi pensieri cominciarono a fluire con la dignità di un'Assemblea di Classe — cioè pochissima.

Perfetto, pensò. Sono diventato un’installazione artistica. “Ragazzo Seduto con Paura” — opera anonima, tecnica mista: metallo, jeans e umiliazione.

Ironia della sorte volle che quello fosse un monumento eretto in memoria delle vittime della Resistenza al nazifascismo. 




giovedì 4 dicembre 2025

I GLADIATORI NELL'ARENA: PLEASE DON'T GO!

La sala biliardo del Bar "Ai Birilli Bevuti", nei primi anni ’80, era un regno di fumo, caffeina, vino sfuso, sogni appena sbocciati e desideri sopiti o sepolti, odore di ormoni maschili in gioventù e di sudore adulto figlio di lavori usuranti. Il juke-box lampeggiava come un semaforo epilettico, lo Space Invaders gracchiava guerre spaziali perennemente perse, e il tavolo da ping pong sembrava un altare pronto ai sacrifici pomeridiani.

Giffoni, Remfutti e Leonardo—tre liceali sedicenni con più interrogazioni arretrate che speranze di vita lunga—entravano sempre al crepuscolo, dopo aver finto di aver fatto svogliatamente i compiti pomeridiani, col terrore nei muscoli e la vaga speranza che quel giorno i bulli avessero trovato qualcun altro da tormentare.

Ma la puntualità degli dei non sbaglia mai.

A un certo punto, la porta sbatté e comparvero loro: Bruto, Torace di Pietra, massiccio come una colonna dorica, e Smilzo, dalla Voce Sfumata, alto, magro e con un timbro gutturale che faceva diventare moscie tutte le consonanti. Muratori di professione, filosofi della prepotenza per vocazione.

— Fermi! — tuonò Bruto, Torace di Pietra, sollevando una stecca come fosse la clava di un eroe antico. — Giù le biglie! Oggi si balla!

I tre si scambiarono occhiate di panico, pronti a essere sacrificati al dio del funky, ma rimasero immobili, tentando la via della resistenza passiva, tanto cara al Mahatma Gandhi.

Smilzo, dalla Voce Sfumata, già picchiettava sul juke-box, che rispose sputando a volume assassino “Give Me The Night” di George Benson.

— Allora!?! — sbroccò subito lo Smilzo, con un comando che rimbalzò sui ragazzi come un ordine perentorio, come l'ordine di un Obersturmfuher delle SS in un campo di prigionia — GIFFONI, HO DETTO BALLA!!! —

Giffoni, amante dei classici, cercò di ispirarsi al suo eroe preferito, Odisseo, utilizzando una presunta fine astuzia per vincere, come il Re di Itaca, la brutalità del Ciclope.

— Se devo ballare, posso almeno… scegliere io la musica?

Silenzio.

Bruto e Smilzo si guardarono come due divinità offese da una preghiera insolente. Bruto stava già per ringhiare infastidito, quando Smilzo parve muoversi a pietà - E' giusto! - annuì, perentorio e magnanimo, fermando con il braccio l'avanzata di Bruto verso Giffoni.

— Concesso.

Allora Giffoni, con lo stesso sorriso di Ulisse che porge il vino al Ciclope per ubriacarlo,  si avvicinò al Juke-box, infilò le 200 lire nella buchetta e pigiando sui tasti R e 9 fece la sua scelta: “Please Don’t Go” dei KC & The Sunshine Band. Un lento. Lentissimo. Una mossa che sembrava invincibile: il Ciclope era stato ubriacato e pronto per essere accecato!

I due bulli si guardarono senza scomporsi. Sorrisero.

— Bene — decretò Smilzo, dalla Voce Sfumata. — Giffoni e Remfutti: BALLATE!!. Adesso!

Remfutti guardò Giffoni con uno sguardo carico di muto rimprovero, simile a quello di Ettore quando scoprì che Paride aveva rapito e nascosto Elena nella nave che da Sparta li riportava a Troia dopo la visita a Menelao.

 Allora!?! — tuonò di nuovo lo Smilzo, assumendo la postura e il ringhio di Caronte nei confronti di due dannati recalcitranti nel salire sulla barca che attraverso l'Acheronte li deve condurre nella Città Dolente, nell'Etterno Dolore — GIFFONI e REMFUTTI, HO DETTO BALLATE!!! —

I due, irrigiditi come lampioni, otorto collo si cinsero le spalle e iniziarono a dondolare come due giraffe stordite. Il bar esplose in una risata collettiva. Il barista, con la voce ingolata che sembrava parlare da un pozzo, gorgheggiando rideva fino alle lacrime.

Quando la tortura terminò, Smilzo non era ancora sazio e Bruto non stava nella pelle dalla voglia di dare una lezione ancora più memorabile per punire quel tentativo di insubordinazione.

— Adesso… nell’arena! — proclamò Bruto dal Torace di Pietra, aprendo la porta che portava al corridoio dei bagni.

Dietro, l’altra porta conduceva al campo da bocce, dove il padrone teneva Dingo, un cane lupo che abbaiava a un chilometro di distanza, feroce come un guardiano dell'Ade e al cui confronto Cerbero sarebbe parso un affettuoso cocker spaniel inglese.

— GIFFONI, REMFUTTI E LEONARDO! I GLADIATORI NELL'ARENA! — tuonò Smilzo, dalla Voce Sfumata, con solennità pari all'araldo che annunciava all'Imperatore Diocleziano l'entrata dei malcapitati cristiani all'interno dell'Anfiteatro Flavio, pullulante di Tigri bianche giunte appositamente da Oriente. 

I tre obbedirono, tremanti.
La porta si chiuse alle spalle.
Un ringhio.
Una corsa.
Una furia pelosa sprintò verso di loro.

Prima che Dingo li raggiungesse, Bruto riaprì la porta e li tirò dentro tra le risate fragorose degli avventori. Dingo rimase a ringhiare, offeso di non aver avuto la cena.

Quando tutto fu compiuto, Smilzo sbuffò:

— Adesso basta. Mi avete rotto i coglioni! ARIAAAAAAAA!!!

Cacciati come foglie al vento, i tre liceali uscirono senza voltarsi, mentre Bruto, Torace di Pietra, e Smilzo, dalla Voce Sfumata, si misero a giocare a biliardo, discutendo di traiettorie e colpi con la serietà di due filosofi greci invitati alla casa di Platone per un Simposio.

E così, in quell'umida e nebbiosa serata invernale nel bar "Ai Birilli Bevuti", nacque un’altra leggenda di prepotenze, timori e umiliazioni: una delle tante destinate a essere raccontate tra risate, imprecazioni assieme all'imperitura memoria di un juke-box finito al macero e a quella di Dingo, ricongiuntosi ormai da molti anni a Cerbero, per mordere dannati nei pressi della città di Dite.

E a quella dell'Arena di Bruto e Smilzo, trasformata oggi in una ridente e chiassosa balera.



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