Nell’estate del 1980, quella strana stagione sospesa tra la fine delle medie e l’inizio delle superiori, la piazzetta del nostro quartiere era il nostro mondo. Il sole calava tardi, e appena finita la cena uscivamo tutti: chi con la sua bici senza freni, qualche fortunato invidiatissimo addirittura con il CIAO o la VESPA nuovi di zecca, chi rideva sempre troppo forte, chi portava sempre il pallone per paura altrimenti di rimanere escluso o chi fingeva di essere il più serio ma in realtà era il primo a proporre stupidaggini.
Uno sciame di ragazzini che respirava a pieni polmoni la libertà e le "infinite" possibilità di divertimento in compagnia che le vacanze estive, senza il pensiero di compiti da fare o interrogazioni del giorno dopo, ci offrivano.
Il tempo in cui la Vita in fondo pare essere una cosa semplice, che ad ogni domanda sembra darti la possibilità di trovare sempre la risposta giusta, solo cercando un po'.
Niente poteva turbare quel clima di "Festa Mobile", come avrebbe scritto Hemingway: nè la delusione per la mancata vittoria della nazionale di Bearzot agli Europei di Roma, nè la fresca retrocessione dell'Udinese in serie B - in fondo circolavano voci sempre più insistenti di un ripescaggio, nè le notizie del telegiornale che raccontavano di stragi di mafia, di rapimenti e attentati a giudici, poliziotti e carabinieri, di aerei civili abbattuti sui cieli italici, di inflazione a due cifre, di minacce nucleari e truppe sovietiche che invadevano l'Afghanistan.
Quelle erano cose che riguardavano il mondo degli adulti, mica era roba nostra: per noi i problemi veri erano quelli che il comandante Koenig doveva affrontare e risolvere sulla base lunare Alpha ogni sera alla Tv, oppure quelli che rendevano speciali le serate di Ricky Cunningham e soci a Milwaukee.
Le sere scorrevano lente, piene di quel tipo di libertà che si prova solo a tredici anni: lunghe partite a nascondino tra le panchine e i cespugli, oppure infinite partite a calcio interrotte solo da qualche vetro rotto o da qualche adulto che, stufo di veder disturbata la sua quiete da ragazzini inquieti, dopo una serie di avvertimenti verbali disattesi scendeva in strada con fare ben poco amichevole provocando il fuggi-fuggi generale.
In più, quando le lunghe discussioni sul mercato dei calciatori e le prime sigarette che i più audaci avevano fatto comparire per fumare di nascosto, non riuscivano a trattenere la voglia di vivere e sperimentare, si ricorreva "all'arma finale": le scorribande a suonare i campanelli delle villette. Scivolavamo lungo i muri silenziosi come Diabolik e poi scappavamo via come ladri, strillando e sghignazzando per ogni imprecazione che veniva lanciata dalle finestre.
Solo una casa evitavamo sempre. Quella in fondo alla via, con le persiane scrostate e la ringhiera arrugginita. Ci abitava una vecchia arcigna, famosa per due cose: la voce che sembrava una sega sul metallo e l’abitudine di minacciare la polizia anche se solo due foglie cadevano troppo forte nel suo giardino.
“Quella la lasciamo stare” ci dicevamo ogni sera quando arrivavamo lì davanti. “Quella sa chi siamo e chiama i vigili.”
Quella sera però si unì a noi il Sapiente, un ragazzo di due o tre anni più grande, uno di quelli che si credeva già uomo e ci trattava come fossimo tutti indistintamente dei minus habens.
“Che fate, bambini?” ci chiese. “Anche oggi i soliti giochetti dell'asilo?”
Quando arrivammo davanti alla casa della vecchia, ci fermammo come sempre. Il Sapiente si girò verso di noi, con quel suo ghigno da spaccone.
E prima che potessimo fermarlo, aveva già premuto il dito sul campanello. Non un tocco rapido, no: una lunga, interminabile suonata, come a sfida. Guardava noi per vedere l’effetto che faceva, compiaciuto, gonfio come un tacchino.
Non si accorse che la finestra al primo piano si era aperta.
Non vide l’ombra che si sporgeva.
Non sentì nemmeno il “ADESSO TI SISTEMO IO, DISGRAZIATO!” che precedette il disastro.
Noi sì. Noi vedemmo tutto.
Il pitale apparve come un’apparizione infernale, e un secondo dopo un’intera cascata giallognola gli piombò in testa. Uno schianto molle, un odore inequivocabile. Il Sapiente rimase immobile un istante, con i capelli che gocciolavano e la maglietta imbrattata, poi cominciò a urlare come un vitello.
Noi scoppiammo a ridere così forte che ci venne il mal di pancia.
Il Sapiente scappò via verso casa, senza poter imprecare perché a rischio di dover ingoiare la sua stessa disgrazia. La Vecchia rientrò sbattendo la finestra, vittoriosa.
Da quella sera, nessuno — ma proprio nessuno — ebbe mai più il coraggio di dire che avevamo paura per niente.
E tra noi ragazzi, per mesi, bastava un “Occhio al pitale!” per scoppiare a ridere come quella sera d’estate, la prima in cui capimmo che crescere non vuol dire necessariamente diventare furbi. Ma sicuramente significa non suonare mai alla porta sbagliata.










