martedì 1 luglio 2025

INCUBI DISSOLTI ALLA QUESTURA




La luce filtrava già dalle finestre, illuminando la sala d’attesa della Questura di Firenze. Erano da poco passate le otto, ma l’aria sapeva già di rinuncia: sudore, scartoffie e caffè bruciato dal distributore automatico. Su una delle sedie di plastica grigia, una ragazza scrollava nervosamente il piede, le mani serrate sul cellulare. Il viso era bello, giovane, acceso da una rabbia ostinata.

«È un incubo… davvero, un incubo. Ho preso un giorno di permesso solo per questo. Il volo è tra tre giorni e quella là, quella stronza con l'aria da "perenne lunedì mattina", più simpatica di un mal di denti mi liquida con un “Il sistema è in blocco da ieri sera, non possiamo procedere con le consegne”. Ma ti rendi conto? Siamo ostaggi di una burocrazia che nemmeno funziona!»

Accanto a lei, seduto con la calma tipica di chi non ha più nulla da dimostrare, un signore elegante, sulla settantina, si sistemò gli occhiali e sorrise.

«Ti capisco, ragazza mia. Io sono qui invece per denunciare lo smarrimento della carta d’identità. La terza volta, se contiamo anche quella finita in lavatrice. Ma almeno… grazie a questa coda ho socializzato con una ragazza giovane. Evento da festeggiare, alla mia età. Già i miei nipoti mi snobbano in maniera permanente, salvo Pasqua e Natale.»

Lei lo guardò, combattuta tra il sarcasmo e un sorriso vero.

«Lei la prende sul ridere, alla sua età e con le sue certezze se lo può permettere. Beato lei.»

«No, no. Non la prendo sul ridere. La prendo da lontano. Che è diverso. Eppoi, mi permetto di darti del tu,  sai qual è l'età migliore? Come diceva Gasmann ne "Il Sorpasso" - l'età migliore è quello che uno c'ha, fin non si schiatta, si capisce.»

La ragazza tornò a fissare il cellulare, ma poi alzò di nuovo lo sguardo, come se qualcosa nelle parole del vecchio avesse trovato un appiglio.

«Io... non riesco a pensarla così,  a prenderla da lontano. È come se ogni cosa fosse sul punto di crollare, sempre. Il lavoro è precario, le relazioni pure, e adesso anche i passaporti… Tutto digitalizzato, tutto instabile, tutto fuori dal nostro controllo: è un mondo ricco e generoso solo nel distribuire illusioni  e io mi ritrovo sempre più spesso a ripetere: mi mancano le certezze, mi mancano le certezze!»

L’anziano annuì piano, poi si voltò a guardarla con uno sguardo più intenso, come se avesse aspettato quel momento per dire qualcosa che gli stava dentro da tempo.

«Sai, quando ero più giovane, vivevo con la paura che accadesse qualcosa che mi stravolgesse la vita in maniera definitiva. La perdita del lavoro, qualcuno o qualcosa che mandasse all'aria la carriera, una malattia, l’addio di una persona cara: erano incubi ricorrenti, sempre lì, sul fondo della mente. E quando qualcosa di tutto ciò è realmente successo… sì, mi ha fatto male, ma non era più un incubo: era diventato realtà e una cosa vera la si può affrontare. Si abita. Si attraversa. Quando l’incubo diventa realtà, cessa di essere un incubo e finalmente hai di nuovo la tua vita in mano, scoprendo energie che neppure sospettavi di avere.»

La ragazza lo fissò. Qualcosa si incrinò dentro di lei — non la rabbia, ma la sua inutilità.

«Dice sul serio?»

«Assolutamente. L’incubo paralizza perché è sospeso mentre la realtà, anche quando è dura, è concreta. Ti obbliga a muoverti, ti costringe a scegliere, a cambiare, e in quel momento — paradossalmente — torni libero. Non sei più prigioniera della paura che succeda qualcosa. È successo. E tu ci sei ancora.»

«È… potente, quello che ha detto.»

L’anziano fece un gesto con la mano come a dire: “Macché potente, , è solo sopravvivenza.” Poi sorrise.

«Sai cosa invece mi manca davvero, ora che tu dici che ti mancano le certezze,  le mie certezze?»

Lei lo guardò, curiosa.

«Le illusioni. Mi mancano le tue illusioni.»

Un attimo di silenzio. La ragazza rise, non forte, ma vera. Quel tipo di risata che non cambia la giornata, ma cambia come la guardi.

Dall’altoparlante gracchiante arrivò una nuova chiamata. Nessuno dei due si alzò.

Poi, con un’espressione più calma, quasi leggera, la ragazza parlò:
«Sa che le dico? Il passaporto e il Kenia possono aspettare. Prenderò il treno e andrò con la carta d'identità fino in Normandia, ora che ci penso ho sempre voluto attraversare le Alpi in carrozza, vedere i paesi cambiare fuori dal finestrino, arrivare a Mont Saint-Michel e mangiare poi ostriche a Cancal... »

L’uomo la guardò con un certo stupore divertito. «E allora cerca di non perdere la carta d'identità come me! buon viaggio! E mi raccomando, ricordati: vai tranquilla e vai serena, qualsiasi cosa accada non ne fare un dramma,  tutt’al più ti arrangerai!”




domenica 29 giugno 2025

DA CASERMA A MUSEO, LA LEZIONE (INUTILE) DI PIVKA

Pivka, Slovenia. Un tempo si chiamava St. Peter in Karst, poi San Pietro del Carso, quando questa terra apparteneva al Regno d’Italia. Siamo a venti chilometri da Postumia, in una valle tranquilla con una storia militare lunga e densa.


Nel 1933, il Regno d’Italia fa costruire una caserma per ospitare un battaglione della Guardia di Frontiera, intitolandola al Principe di Piemonte. Gli edifici, per volumi e stile architettonico, sono identici a quelli della caserma omonima di Cividale del Friuli, oggi intitolata a Mario Francescatto.

Con l’armistizio dell’8 settembre 1943, la struttura viene abbandonata dal Regio Esercito e subito occupata dalle truppe tedesche. Finita la guerra, diventa una base dell’Armata Popolare Jugoslava.


Nel 1991, dopo l’indipendenza della Slovenia, l’esercito federale lascia definitivamente il sito. Per qualche anno ancora, l’esercito sloveno lo utilizza per esercitazioni, poi inizia il declino e  degrado.

Ma la popolazione locale non resta a guardare. Preoccupata dal degrado di un’area così vasta, si mobilita e attiva i propri rappresentanti locali e nazionali.

Nei primi anni 2000, grazie a fondi statali e poi europei, l’ex caserma viene ristrutturata per lotti. Nasce così, con l'inaugurazione del primo lotto nel 2006, il Museo di storia militare di Pivka, il più grande della Slovenia.


Oggi ospita veicoli della Seconda guerra mondiale, mostre topografiche e fotografiche, sezioni tematiche sulla Jugoslavia federale, un sottomarino, aerei, un elicottero, un treno corazzato tedesco del 1943 e decine di mezzi blindati. Il tutto arricchito da un ristorante, un negozio e rievocazioni storiche periodiche in costume e viene data anche la possibilità di visite guidate nei sotterranei dei bunker limitrofi che facevano parte del sistema difensivo italiano "Vallo Alpino". È diventato un centro culturale e turistico di rilievo non solo regionale.

E Cividale?

La sua “gemella”caserma, anch’essa ex Principe  di Piemonte, è stata dismessa nel 2016.

Cosa ne sarà? E, soprattutto, quando sarà?

Perché non prendere esempio, anche solo in parte visto gli spazi, da Pivka? 

Un museo sulla guerra fredda e sul “dismesso” servizio di leva potrebbe interessare diverse miglia di concittadini sparsi per l’Italia e che tra quelle mura hanno passato un periodo significativo della loro gioventù. 

Amplierebbe l’offerta turistica e magari anche la permanenza dei turisti mordi e fuggi. 

Sarebbe oltremodo un riconoscimento e anche una forma di ringraziamento che si sono meritati, quando il contesto geo-politico internazionale richiedeva la massiccia presenza dell’Esercito sul confine orientale. 

Che ingenuo. Ritiro la domanda. 

Con la nostra burocrazia e i nostri infiniti “cerimoniali”, ci vorrebbero almeno cent’anni.

Meglio lasciar fare alla natura, intanto che mettiamo a punto l’idea geniale per rivitalizzare il sito.

Prima o poi, anche lei farà il suo corso. Magari trasformandola in un sito archeologico, come tanti altri: silenziosi, dimenticati, poetici. E vuoti.


venerdì 27 giugno 2025

RISTORI, DUCALE, IMPERO: IL MULTISALA DEI CHIERICHETTI

Era una di quelle serate di inizio estate in cui il cielo sembra non volersi mai spegnere e, finalmente, l'aria fresca che arriva dalle valli del Natisone attraverso la forra del fiume, portava come di consueto un po' di refrigerio a Cividale. Andrea, tredici anni appena compiuti, trotterellava al fianco del padre lungo il Ponte del Diavolo godendosi quella pausa dopo la calura della giornata, diretto verso la gelateria preferita. Il padre, quasi sessantenne, camminava piano, con quella calma tipica di chi ha imparato a gustarsi le cose.

"Papà, ma quando eri ragazzo tu, cosa facevi la domenica pomeriggio?", chiese Andrea, mentre si leccava il primo strato del suo cono al gusto di gubana.

L'uomo sorrise, quasi commosso da quella domanda, e si prese qualche secondo per rispondere. "Beh, io assieme agli amici del borgo eravamo sempre in giro. Le partite di calcio al campetto del pattinaggio, soprattutto; quello che c’era dove da poco hanno coperto la pista oppure si giocava sul prato del Convitto Nazionale Paolo Diacono, o il cortile della scuola elementare Manzoni o dove trovavamo uno spiazzo libero; la cosa che mi piaceva di più, però, era andare al cinema."

"Al cinema? A Cividale c’era un multisala?!", fece Andrea stupito.

"Tre, in realtà, ma non erano multisala", rispose il papà, ridendo. "Dai, ti porto a fare un giro. Te li faccio vedere."

Si avviarono lungo il corso. "Negli anni '70, le sale cinematografiche erano ancora un importante luogo di ritrovo. Ma i veri anni d’oro furono i '50 e i '60, con tre cinema sempre pieni. Il primo era il Cinema-Teatro Ristori, proprio qui in via Ristori. Aveva circa 600 posti, ed era comunale, gestito dalla famiglia Cumini."

Si fermarono davanti all’edificio, dal 1986 ritornato, tra diversi restauri,  solo alla sua funzione originaria di teatro, benché privo dei palchi in legno di 100 anni fa; all'inizio era quello il cinema delle 'prime visioni', e dopo un po’ arrivavano solo i film che erano già passati a Udine."

"E gli altri due?"

"Il secondo era il Cinema Ducale annesso al Ricreatorio "Sacro Cuore", in piazza Picco. Di proprietà della Parrocchia, anche quello sempre pieno. Lì ci si andava con la famiglia, i film erano quelli adatti a tutti, un luogo davvero speciale."

"L'Impero, in Corso Mazzini, invece era un po’ diverso. Aveva solo 200 posti, ed era dedicato quasi esclusivamente ai film per adulti, tranne a Natale e Pasqua. 

"Il Ristori esponeva il manifesto della pellicola in programmazione su piazza Diaz, mentre il Ducale sul lato sinistro dell'Arsenale Veneto verso Borgo San Pietro e l'Impero, esclusivamente per le proiezioni natalizie e pasquali o quelle rare "per tutti", in Largo Boiani, di fronte alla farmacia Minisini - le proiezioni "ordinarie" erano invece "pudicamente" esposte solo sulla vetrata d'ingresso in Corso Mazzini.
Riuscire a procurarsi un manifesto gigante di quelli che reclamizzavano le pellicole era un'impresa impossibile: riusci ad avere quella di "Innamorato Pazzo" con Celentano e la Muti e quella di "1997 Fuga da New York" per appenderli orgogliosamente in camera solo quando il cinema "Ristori" chiuse i battenti e tormentai fino allo sfinimento, a forza d'insistere, il proprietario." 

Andrea lo ascoltava in silenzio, colpito. "E quando hanno chiuso?"

"Il Ducale fu il primo, nel 1979. Non ce la faceva più a coprire i costi. La Curia vendette l'area assieme al Ricreatorio alla ditta Vidussi, che demolì tutto nel 1990. Al suo posto, adesso ci sono negozi, una banca e il parcheggio a pagamento; il Ristori chiuse nel 1986 per essere ristrutturato come teatro, e ogni tentativo di riaprire le proiezioni è sempre fallito. L’Impero resistette fino all’inizio degli anni ’90, ma con la chiusura delle caserme, anche lui dovette arrendersi
Oggi resta la facciata, mentre all'interno c'è la profumeria Beauty Star."

Camminavano lentamente, e il padre si fermò davanti a un punto preciso di piazza Picco. "Sai, è qui che ho visto i miei primi film. Gli Aristogatti, Fantasia, Torna a casa Lessie, ma anche 2001 Odissea nello Spazio, La fuga di Logan, Il giorno più lungo, e tutti quelli di James Bond con Sean Connery e, ovviamente, tutte le scazzottate di Bud Spencer e Terence Hill."

Andrea lo guardava con occhi grandi. "Ma ti ricordi tutto?"

"Come potrei dimenticare? Avevamo i biglietti gratis se servivamo messa. Monsignor Corrado Puppa li dava a chi faceva il chierichetto alla funzione delle 10:30. Era una messa lunghissima, con molte parti in latino, ma per me e per diversi amici era un modo per guadagnarsi un pomeriggio al cinema."

Arrivati di nuovo in piazza, il papà concluse: "L’ultima volta che entrai al Ducale fu nel gennaio del 1979. Proiettarono 'Grease' con John Travolta e Olivia Newton John, e per l’occasione don Corrado fece uno stroppo alle regole: la sala era strapiena, forse c’erano tutti i ragazzi della città, pure quelli che non andavano a messa la domenica e probabilmente fu l'incasso che serviva per pagare un po' di conti in sospeso."

Si fermarono e si sedettero sulle panchine all'obra dell'area ove una volta c'era un distributore della Gulf; Andrea lo fissava, pensieroso. "È strano pensare che qui ci fosse tutto questo, che tanta gente si ritrovasse davvero per sognare insieme."

"Sì", disse il padre, fissando l'edificio dove un tempo sorgeva il cine ma Ducale. "Nessun home theater, nessun Dolby o schermo gigante potrà mai dare quelle stesse emozioni. Soprattutto quando la sala era piena e tutti respiravano lo stesso sogno."

mercoledì 25 giugno 2025

SELINUNTE.EXE - ERROR 404: HUMAN OUT OF SYSTEM


Il sole di giugno calava obliquo sulle rovine di Selinunte, tingendo d’ambra le colonne spezzate e i capitelli disseminati tra l’erba secca. L’antico Tempio di Hera si stagliava solenne sul profilo del mare, come un avvertimento pietrificato mentre il vento portava odore di sale e lentisco, e con esso un silenzio strano, che sembrava chiedere rispetto.

L’uomo era seduto su una pietra piatta, sotto il porticato di quello che un tempo era un altare. Sessant’anni, forse poco più. Canizie ordinata, volto scavato dal sole e da qualche rimorso antico. Osservava il proprio cellulare con lo stesso sguardo con cui un contadino guarda una zappa rotta. Sullo schermo lampeggiava un messaggio: “Errore: impossibile aprire il contenuto.”

«E va' a cagare, pure tu e ‘sto cazzo di QR Code!» sbottò, non alzando neppure il tono.

La voce attirò l’attenzione di un ragazzo poco distante. Occhiali tondi, maglietta con una scritta criptica in codice binario, zainetto minimal. Si avvicinò sorridendo.

«Problemi di connessione o di interpretazione?»

L’uomo sollevò lo sguardo. «Entrambi. Ma è la seconda che mi preoccupa di più.»

Il ragazzo si chinò, gentile. «Posso aiutare? Sono un informatico, se vuole posso farle accedere al contenuto in due secondi.»

«No, no… è il contenuto che mi infastidisce, non la fatica per accedervi.»

Il giovane rise, pensando fosse una battuta. Poi, nel notare lo sguardo serio dell’uomo, tacque.

«Questi cosi… QR code, AI, app che ti spiegano la storia, che ti suggeriscono le emozioni da provare… ma dov’è finito l’uomo in tutto questo? Il mistero? L’errore? La fatica del capire?»

Il ragazzo si sedette accanto a lui, incuriosito.

«Mah, io la vedo diversamente. La tecnologia ci aiuta. Ottimizza. Ordina. Aumenta la nostra possibilità di conoscere, esplorare, persino di amare. L’AI non ci sostituisce, ci espande.»

L’uomo scrollò il capo. «Ecco, è lì che inizia la mia preoccupazione. Questa fiducia cieca. Ogni volta che esprimo dubbi su cosa ci stiamo giocando delegando le nostre decisioni a delle macchine, tutti mi ridono in faccia. “Sei un conservatore”, dicono. Vintage, aggiungono. Come se fosse un insulto.»

Il ragazzo sembrava colto di sorpresa, ma non ancora convinto. «Ma l’uomo resterà sempre al centro. Saremo noi a dare regole, etica, direzione. L’AI esegue. È uno strumento.»

L’uomo si voltò a guardare il tempio spezzato. «Anche queste pietre un tempo erano strumenti. Architettura, potere, religione. Ma guarda ora. Il tempo, la natura, la violenza dell’uomo… tutto ha lasciato il segno. E oggi restano solo rovine. L’AI non sarà diversa. L’illusione del controllo è l’ultima trappola. Davvero pensi che sarà l’uomo a governarla?»

Fece una pausa, poi aggiunse:

«L’uomo… quella specie illuminata che ha inventato la Shoah, che fa guerre ogni trent’anni, che stermina i più deboli per profitto… pensi davvero che questa specie sia in grado di scrivere algoritmi “etici”?»

Il ragazzo non rispose subito. La brezza si infilava tra le colonne, come un sussurro millenario.

«Io penso che ci proviamo. Che almeno questa volta non siamo del tutto ciechi. Abbiamo imparato qualcosa, forse.»

L’uomo sorrise amaramente. «Mosè, Buddha, Gesù, Maometto, Confucio… tutti ci hanno provato. Ma l’uomo ha sempre trovato il modo di disattendere le loro promesse. E ora pensi che saranno due righe di codice a salvarci? Auguri.»

Restarono in silenzio. Dall’alto del tempio, il sole morente sembrava osservare la scena come un vecchio che ne ha viste troppe.

«L’unica consolazione che ho,» mormorò l’uomo, «è che ho poco tempo davanti. Forse non vedrò l’ultima sostituzione. Quella totale.»

Il ragazzo si voltò verso di lui. «Ma se l’intelligenza artificiale un giorno prenderà tutto il controllo… davvero potrà fare peggio di noi?»

L’uomo si alzò in piedi, e guardò per un lungo istante le rovine. «È proprio questa la domanda. E forse, nel profondo, la risposta ti è già arrivata.»

Ora ragazzo osservava l’uomo con più attenzione, qualcosa, nella sua voce, negli occhi fermi, gli impediva di liquidarlo come l’ennesimo nostalgico. Era stanco, sì, ma non arrendevole e soprattutto, parlava con la calma di chi ha già visto le onde alzarsi e abbassarsi più volte nella vita.

«Ha l’aria di uno che ha lottato con questi temi prima che diventassero moda», disse il giovane, in tono meno ironico.

L’uomo sorrise appena. «Moda... già. Prima erano solo preoccupazioni da vecchi professori o da filosofi pessimisti. Oggi sono diventati pitch da conferenza, titoli di libri, panel da festival. Ma la sostanza resta la stessa: l’uomo gioca con qualcosa che crede di controllare e lo fa con una leggerezza che, se non fosse tragica, sarebbe ridicola.»

Si chinò e raccolse un piccolo frammento di marmo. Lo rigirò tra le dita come fosse una reliquia.

«Conosci la hybris

Il ragazzo fece spallucce. «Greco antico, giusto? Una specie di peccato di orgoglio?»

«Non solo. È molto di più. È lo scavalcare il limite. L’uomo che si crede pari agli dei, che si dimentica della sua misura. Metron, la chiamavano. Ogni volta che l’uomo oltrepassa quel confine, il destino – l’Anánkē – lo richiama. E non con le buone.»

Indicò le colonne spezzate tutt’intorno. «Guarda. Questo era un tempio a Hera, sposa di Zeus, regina degli dei. Luogo di culto, di ordine. Eppure ora è polvere. Perché? Perché la civiltà che l’ha eretto ha creduto di poter durare per sempre, di poter dominare tutto: natura, uomini, dei, ma nulla invece resta in piedi quando si dimentica il proprio limite.»

Fece una pausa. Il vento gli muoveva lievemente i capelli.

«Oggi la nostra hybris ha il volto levigato dell’algoritmo. Parliamo di progresso, efficienza, ottimizzazione… ma sotto c’è lo stesso delirio di onnipotenza di allora. Solo che questa volta è meno visibile, più subdolo: ci promette di toglierci la fatica di essere umani.»

Il giovane fissava l’orizzonte. Aveva smesso di sorridere. Un fremito gli passò negli occhi, come se qualcosa stesse scalfendo la sua certezza.

«Però non è solo delirio. È anche speranza. Desiderio di superare i nostri limiti, di curare, di capire…»

«Lo so», rispose l’uomo. «E in questo c’è una bellezza autentica. Non disprezzo il desiderio umano di conoscenza, né la tecnologia in sé. Ma mi chiedo: a che prezzo? Ogni volta che deleghiamo qualcosa all’AI, ci togliamo una parte di responsabilità. E quando smetti di scegliere, quando una macchina decide per te, anche solo in piccolo… qualcosa dentro si spegne.»

Un silenzio colmò lo spazio tra i due. Dalle colonne, i raggi del sole filtravano come dita divine, l’aria vibrava di una quiete ancestrale.

Il ragazzo parlò piano. «Ha paura?»

L’uomo esitò. Poi annuì.

«Sì. Ma non di quello che l’AI farà: ho paura di quello che non faremo più noi; dimenticheremo la bellezza dell’incertezza, dell’errore, del tentativo, la capacità di fermarci, di sbagliare, di piangere per una decisione presa col cuore, e non con un algoritmo. E quando questo succederà… non saremo più umani: saremo divenuti una civiltà apparentemente perfetta, ma spenta. Una Selinunte digitale: bellissima, ma morta.»

Il ragazzo lo guardò a lungo. Poi tirò fuori il telefono, e per un momento, lo contemplò come se non lo riconoscesse più.

«Posso farle una domanda?» chiese infine.

«Certo.»

«Se potesse scegliere… riavvolgere tutto… fermare questo processo prima che esploda… lo farebbe?»

L’uomo restò immobile. Guardava il tramonto che stava spegnendo lentamente i templi.

«No», disse. «Non servirebbe. Il processo è avviato. Irrefrenabile. Ma almeno… almeno potremmo procedere con coscienza. Con umiltà. Ricordando che l’uomo che sogna di diventare Dio, prima o poi si sveglia… e scopre invece di essere solo polvere. E poi, tutto questo in fondo riguarda più te che me. Come rispondono sempre i tuoi sodali quando cerco di  spiegargli che bisognerebbe andarci più cauti nel rendere indispensabili le app e l'AI nella vita di ogni giorno, non si può rallentare il progresso per me e per quelli come me, dato che tra 20 anni o giù di lì saremo tutti morti. Di nuovo, auguri, ragazzo.»


martedì 24 giugno 2025

"DOBBIAMO PARLARE", OVVERO L'ARTE DI NON VOLER ASCOLTARE

Era ancora presto, ma la metropolitana di Napoli aveva già l’odore tipico dei giorni feriali: un misto di caffè forte, profumo di sfogliatelle appena sfornate e quella tensione compressa di una città che corre sempre, ma a modo suo.

Claudio, milanese di nascita, era salito a Toledo, come faceva ogni mattina da quasi vent’anni. Trench grigio, ventiquattrore in pelle un po’ consumata, lo sguardo perso nel vuoto, tipico di chi ha imparato a misurare il tempo e le parole con rigore. Sedette senza nemmeno guardare chi aveva davanti. Poi alzò gli occhi e lo vide. Lo riconobbe subito.

«Io e te dobbiamo parlare», disse, di getto, con un sorriso appena accennato.

L’uomo davanti a lui, nato a Sorrento, si voltò di scatto, sorpreso. Aveva quell’aria più distesa, quasi solare, e un modo di fare gentile che tradiva una certa naturalezza nel rapportarsi agli altri.

«Ehi! Quanto tempo! Sei proprio tu! Ma ti prego… dobbiamo parlare, proprio no! Mannaggia li muort!»

Scoppiarono a ridere insieme, una risata leggera, disarmata. Come il sollievo di ritrovare un complice di un tempo in cui tutto sembrava avere più senso, o almeno più energia.

«Scusa», disse Claudio. «Ma era troppo facile. Te la ricordi, vero? Quante volte l’abbiamo sentita in filiale?»

«Eh già», annuì l’altro, Gianluca, con un sorriso di traverso. Aveva già tolto la cravatta, come faceva sempre appena lasciava l’ufficio. «Il vice che ti prendeva da parte con la faccia grave: “Dobbiamo parlare”. E tu lì a pensare: ho sbagliato un bonifico? Ho approvato un mutuo sbagliato?»

Claudio annuì. «O quella volta che credevano fossi stato io a bucare il plafond del cliente della Ferrari. Mi chiamò il direttore con quella faccia lì. Tre giorni di ansia per poi scoprire che era stato suo figlio a fare casino con il suo tablet.»

«Sì! E tu che avevi già preparato la lettera di dimissioni!»

Risero di nuovo, ma stavolta con una nota di malinconia sotto. Perché il tempo aveva limato le vette, ma anche le illusioni.

«Comunque», riprese Claudio, «ci pensavo proprio stamattina: quante volte ce la siamo sentita dire quella frase, “Dobbiamo parlare”? Ma in realtà nessuno voleva parlare davvero.»

Gianluca lo guardò di lato. «Volevano solo mettere le cose in chiaro. Unilaterali. Tu ascolti, io ti comunico. Punto.»

«Parlare, oggi, è diventato questo. Aspettare il proprio turno. Quando va bene.»

«Quando va bene, sì. Di solito ti interrompono prima che tu abbia finito la frase.»

Claudio guardava il vetro davanti a sé, ma non vedeva il suo riflesso. Pensava a Sara, la figlia ormai adolescente, e a quanto spesso si accorgesse di non ascoltarla davvero. «Come a tennis», mormorò. «Solo che invece della racchetta usiamo le parole. E ci affanniamo a ribattere, mica a capire.»

Gianluca annuì, improvvisamente serio. «Ma sai perché? Perché ascoltare è faticoso. E la fatica oggi non va di moda.»

«Già. Se una cosa richiede tempo, se ti costringe a fermarti, allora è “vecchia”. È “out”.» aggiunse Claudio.

"Non è solo fatica. È che ascoltare davvero… non è solo sentire», continuò Gianluca, con voce più bassa. «È cercare di capire cosa significano le parole dell’altro non per noi, ma per lui. E questo, Claudio, è devastante.»
L’altro si voltò, curioso.
«Cioè?»
«Cioè che quando qualcuno ti parla, tu credi di aver capito perché hai colto le parole. Ma quelle parole passano attraverso i tuoi filtri, le tue esperienze, i tuoi valori. E allora finisci per interpretarle alla luce di te stesso. Invece no. Dovresti leggerle con le sue lenti, col suo vissuto. Capire non cosa diresti tu in quella situazione, ma perché lui lo dice così, con quel tono, in quel momento. È… un’impresa. Una scalata interiore.»
Claudio annuì lentamente. «Serve empatia. E tempo. E voglia di uscire da se stessi. E chi ce l'ha?»
«Appunto. Oggi chi ce l’ha, quella voglia? Siamo tutti occupati a esistere nella nostra bolla, a difendere il nostro punto di vista come se fosse una roccaforte. E più l’altro è distante, più lo riduciamo a una caricatura. Troppa fatica mettersi nei suoi panni, meglio giudicare e tirare dritto.»
Il treno continuava la sua corsa, ma all’interno sembrava essersi creato un silenzio diverso. Di quelli che non pesano.

Gianluca sistemò il giubbotto sul grembo. Aveva lasciato la banca da un paio d’anni. Ora lavorava in consulenza finanziaria, meno sicuro, ma più libero. «Io non ne potevo più di quella dinamica da cartellino e riunioni inutili. Si parlava per non dire, e nessuno ascoltava nessuno. Tutti sempre in vetrina.»

«E quando parli davvero? Quando cerchi un dialogo autentico, magari ti dicono che sei pesante.»

Claudio lo guardò, stavolta con un sorriso più caldo. «Sai che ti invidio? Hai avuto il coraggio di mollare. Io sono ancora lì. Ogni giorno più stanco. Più muto.»

Il treno frenò bruscamente. Una voce metallica annunciò: «Toledo». Fermata di interscambio.

«Scendi qui?», chiese Gianluca.

«No», rispose Claudio. «Ma sai che ti dico? Dopo questo incontro, forse cambio direzione. Almeno mentale.»

Si strinsero la mano, come vecchi compagni di trincea. Si scambiarono i numeri, ma soprattutto una promessa: un pranzo. Un vero pranzo. Con calma. Con ascolto.

Poi Gianluca si alzò. Prima di uscire dal vagone si voltò, con un mezzo sorriso:

«Oh, ma la prossima volta niente “dobbiamo parlare”, eh? Ti denuncio per crimini contro l’umanità.»

L’altro sorrise. «Buona giornata, filosofo.»

«Anche a te, maestro del tennis.»

venerdì 20 giugno 2025

LA PROFEZIA DI AMBROSINI: ADVENTURES OF A LIFETIME

New York City, aprile 2025


Il sole di primavera si rifletteva sui vetri dei grattacieli come un report trimestrale mandato in anticipo: brillante, inaspettato, vagamente sospetto.

Marco De Santis – contabile senior, ex giovane promessa della Bocconi, ormai “asset storico” di una multinazionale in cui nessuno ricordava più cosa facesse davvero – stava svuotando la sua scrivania per l’ultima volta.

L’ufficio era una teca del tempo.

Su una mensola in alto, una pianta grassa che aveva smesso di lottare nel 2019. Accanto, un mug sbeccato con il logo di una startup fintech morta al secondo round di finanziamento e appeso alla parete un calendario da tavolo del 2020 – mai sostituito, tanto i giorni erano diventati tutti uguali.

E, in fondo a un cassetto che si apriva solo con un colpo ben assestato, una cartelletta blu.

Sopra, scritto a penna: “Ambrosini, 1988 – Bocconi”

De Santis Sorrise.

Non un sorriso dolce. Di quelli amari, alla “lo sapevo, ma ho fatto finta di niente”.

Si sedette. Non con l’eleganza del manager in pensione, ma con la rassegnazione articolare di uno che ha passato quarantadue anni curvo sulle scadenze fiscali.

Fuori, il traffico di Lexington Avenue scorreva come un foglio Excel con troppi filtri: lento, pieno di errori e con qualcuno che continua a chiederti “ma perché non si aggiorna il grafico?”.

Nel 1988, al terzo anno di università, aveva seguito il corso di Economia e Management dell’Impresa Industriale.

Il Professor Ambrosini parlava come se stesse dettando il futuro. Un giorno, con la calma clinica di chi sapeva già tutto, aveva detto:

“I colletti bianchi subiranno la sorte che hanno avuto i lavoratori nelle fabbriche con l'arrivo delle macchine e del taylorismo: saranno gli operai meccanizzati ed alienati del prossimo futuro, scoprendo nuove e più sottili forme di alienazione.”

De Santis, che sognava riunioni a New York e stock option da piegare in quattro, lo aveva ascoltato con lo stesso scetticismo e la grattata di zebedei con cui si ascolta il croupier al Casinò che dice "il Banco vince sempre" e liquidato mentalmente con un “Menagramo! che esagerazione” e un panino al tonno nella mensa della Bocconi.

Lui ce l'aveva fatta, era riuscito davvero a sbarcare nella City dopo la Bocconi e ad avere la tempra per mettervi le radici e "fare famiglia" coronando il personalissimo sogno americano nella città dei sogni ma "a consuntivo" era andata esattamente come profetizzato da  Ambrosini, solo con meno poesia.

E a guardare, con occhi meno superficiali, più o meno come aveva anticipato abilmente Paolo Villaggio nel 1975 con il suo Fantozzi, celando dietro le "assurde" avventure dell'improbabile ragioniere, tutte le dinamiche presenti nel mondo del terziario, anche di quello "avanzato".  

E a guardare ancora più in profondità, Kafka, con la sua "Metamorfosi" lo aveva messo nero su bianco già nel 1915, ma lui di letteratura si era sempre disinteressato sin dai tempi del Liceo, quando l'aveva giudicata "qualcosa di cui si poteva occupare chi era già ricco e aveva tempo da perdere" ed era il classico studente da "mi basta 6".

De Santis aveva iniziato a registrare fatture con penna blu e fogli protocollo, poi erano arrivati  i floppy da 5¼, poi la "magia nera" di Lotus 1-2-3 che crashava se guardavi male la tastiera. Seguirono Excel 95 (era ora), SAP - l'infernale gestionale tedesco che in azienda avevano subito battezzato Sistema di Abilità Punitiva -  i server aziendali (“basta salvare tutto in G:\”),  poi il cloud che doveva essere la salvezza ma somigliava più ad un magazzino disordinato con un abbonamento mensile  (“non si sa dove va, ma ci va tutto”).

L’outsourcing lo aveva privato dei colleghi italiani mentre l’automazione gli aveva stravolto le mansioni, mortificando l'intelletto, mentre la pandemia aveva sancito il trionfo senza ritorno del "lavoro da remoto" e la vittoria dello smart working.

Quella cosa che l'addetto alla sicurezza ucraino della Tower della City dove De Sancits passava tutte le sue giornate, aveva battezzato "SMRT" working, spiegandogli che "SMRT" in tutte le lingue slave voleva dire "morte". 

L’intelligenza artificiale, alla fine, aveva reso il suo lavoro più "strategico"; tradotto: faceva tutto lei, tu controllavi che non avesse interpretato "costo del lavoro" come "licenzia tutti e compra un robot emotivo".

Negli ultimi cinque anni, il suo lavoro consisteva in tre operazioni:

1. Leggere report generati dall’IA e fingere che avessero un senso.

2. Correggere le “ottimizzazioni” dove l’algoritmo aveva deciso che 0 dipendenti = massimo margine operativo.

3. Sorridere in avvio di videochiamate mentre un software di riconoscimento facciale gli dava 6/10 in “employee engagement” e a seguire l'unico vero vivente collegato diventava il gatto di qualche collega in smart working.

Si era trasformato, senza accorgersene, in quello che Ambrosini aveva descritto con chirurgica crudeltà: un operaio da tastiera, schedato, tracciato, ottimizzato, e completamente inutile durante i blackout di sistema. Però ben pagato, anche nel 2008, quando la grande crisi dei mutui sub-prime sembrava potesse riportare Manhattan, Wall Street e tutta la finanza mondiale all'età della pietra.

Guardò la cartelletta.

Avrebbe voluto scrivere al professore e non per dirgli “aveva ragione” – quello lo sapeva già – ma per chiedergli se, oltre all’evoluzione del lavoro, avesse previsto anche la roulette del Bellagio di Las Vegas, dove in un weekend del 2003, Marco aveva lasciato in una notte quanto guadagnava in un trimestre. 

Sorrise di nuovo.

O forse era il bruciore di stomaco: la cena di ieri sera con i colleghi l'avevano fatta in un ristorante fusion in cui "innovativo" significava servire il risotto su di una pietra calda.

Chiuse lo zaino.

Infilò dentro due penne senza tappo, una graffetta arrugginita, e i resti simbolici di un’epoca in cui “digitale” era solo una marca di orologi Casio.

Scese nell’atrio.

Il receptionist – ventiquattro anni, laurea triennale in “Benessere Integrato e Creatività Transdisciplinare”, sneakers fluorescenti e sguardo zen – lo salutò:

«Happy retirement, Mr. De Santis!»

«Thank you, Son. Remember: quando un’app ti dice “vuoi accettare i nuovi termini?”, la risposta è sempre “no” – ma tanto accetta lo stesso.»

"What??" fu la risposta del receptionist preso in contropiede dall'uso dell'italiano, di cui non capiva una parola, prima di scuotere la testa e con un sorrisino ebete riprendere il suo solitario al terminale e pensare "Italians, crazy people".

Fuori, New York  accolse Mr. De Santis come aveva sempre fatto: rumorosa, indifferente, e piena di promesse non richieste.

E lui era tornato ad essere solo Marco, finalmente, non doveva più loggarsi, ma solo augurarsi che i "grandi" del pianeta, che parevano essere andati tutti fuori di senno da qualche anno, non avessero provocato una guerra atomica.

Libero.

Almeno finché qualche sistema legacy non avesse riesumato il suo nome per un audit del 2011.

Evento più temibile di un'esplosione nucleare.

E iniziò a comprendere suo figlio, che non ne aveva voluto sapere di studiare e lavorava come animatore sulle navi da crociera che facevano rotta tra le isole caraibiche, dove De Santis padre e i suoi colleghi meccanizzati cercavano di riconciliarsi con la vita durante le ferie comandate o la pensione, spendendo più dollari che potevano in ogni sorta attività di plastica che gli veniva venduta come "Adventures of a Lifetime".







giovedì 19 giugno 2025

MEXICO Y NUBES, ALL INCLUSIVE

La sabbia della Riviera Maya aveva un colore indeciso tra il latte e il sogno. Sembrava versata a mano da un dio in vena di gentilezze. L'acqua, più trasparente del curriculum di un influencer, accarezzava la spiaggia come una hostess svogliata, mentre il sole faceva del suo meglio per convincere anche le nubi più resistenti a starsene zitte.

All'interno del Yucatàn Blu Prestige Resort & Spa "dove il relax incontra l'anima", secondo il depliant pubblicitario patinato che aveva sfogliato in agenzia viaggi, il dottor Erik Nardini, 49 anni, consulente fiscale lombardo, orgoglioso possessore di due SUV e una moglie che gli parla solo tramite WhatsApp, stava sorseggiando un mojito in plastica compostabile. L'aveva chiesto "senza zucchero", per sentirsi sano.

Attorno a lui, un catalogo vivente di clichè: palme pettinate, iguane addestrate a sembrare esotiche ma non troppo, musica chill-out di flauto di pan, e gruppi di americani dalle camicie hawaiane esagerate e i portafogli ancora più esagerati.

Nella piscina a sfioro, una coppia russa si scattava selfie su uno dei gonfiabili a forma di fenicottero. Lui, torace depilato e tatuato con frasi di Bukowski mal tradotte e lei, completamente immobile, tranne che per le labbra a cuore gentilmente arricchite e modellate come altre parti del corpo. A pochi metri, una "life-coach del respiro", tedesca, di nome Luma, stava guidando un laboratorio chiamato "Riconnettiti con il tuo chakra turistico" sotto un gazebo profumato di palo santo.

«Apriamo il diaframma e ringraziamo l'universo per questa sabbia!»

«Figa! Ma io sono allergico alla sabbia» sussurrò, neanche tanto sommessamente, un milanese spaesato, prima di essere ignorato.

Erik si voltò infastidito. Era venuto là "per staccare", non per assistere a una recita "spirituale"; fu proprio in quel momento che vide di nuovo Raùl, l'addetto responsabile della sicurezza nel resort: alto, pelle color bronzo lucido, occhiali neri e un giubbotto antiproiettile che stonava comicamente con il contesto tropicale. Il badge diceva "Raùl", ma l'atteggiamento era da Clint Eastwood dei Tropici.

«¿Todo bien, señor?» (Tutto bene, signore?) chiese con voce profonda e cortese.

Erik annuì con malcelata sufficienza. «Tutto fantastico. Questo posto è un paradiso, penso che gli americani se lo siano inventato, ma voi messicani lo mantenete bene. Bravi.»

Raùl inclinò la testa, appena. «Gracias, señor. Pero, ¿sabe qué había aquí antes del resort?»
(Grazie, signore. Ma sa cosa c’era qui prima del resort?)

«La giungla, immagino. Zanzare, serpenti, roba da selvaggi.»

Raùl sorrise sottile. «Había pueblos. Había silencio. Luego llegaron los gringos y sus fondos de inversión: trajeron el progreso; ahora sonreímos y damos la bienvenida a cualquiera con una tarjeta Platinum.»
(C’erano villaggi. C’era silenzio. Poi sono arrivati i gringos e i loro fondi di investimento: hanno portato il progresso; ora sorridiamo e diamo il benvenuto a chiunque abbia una carta Platinum.)

Poi tirò fuori un vecchio Walkman. «Esto lo dejó un turista italiano en 1994. Lo reparamos, lo usamos, luego lo tiramos. Ahora es “vintage”: un coleccionista de Miami pagó 300 dólares.»
(Questo lo ha lasciato un turista italiano nel 1994. Lo abbiamo riparato, usato, poi buttato. Ora è “vintage”: un collezionista di Miami ha pagato 300 dollari.)

Erik sbatté le palpebre. «Sta scherzando.»

«Jamás en la vida. Nosotros los mexicanos somos excelentes recolectores de sueños caducados. Los limpiamos, los vendemos otra vez. Con una sonrisa. ¿Cuánto ha pagado usted por esta semana?»
(Mai nella vita. Noi messicani siamo ottimi raccoglitori di sogni scaduti. Li lucidiamo, li vendiamo di nuovo. Con un sorriso. Lei quanto ha pagato per questa settimana?)

«Tremila euro.»

Raùl alzò le sopracciglia. «¿Y por qué? Por una playa que era gratis, por un atardecer que pertenecía a todos, y por una botella de tequila que aquí cuesta menos que la leche. Pero relájese, señor. La ironía está incluida en el paquete.»
(E per cosa? Per una spiaggia che era gratis, per un tramonto che apparteneva a tutti, e per una bottiglia di tequila che qui costa meno del latte. Ma si rilassi, signore. L’ironia è inclusa nel pacchetto.)

Se ne andò lasciandolo solo con il mojito annacquato e un vago senso di ridicolo. Ma non era ancora finita.

Quella sera, durante la cena a buffet tematica: tradizioni maya rivisitate in chiave fusion. Erik decise di chiedere chiarimenti alla chef responsabile del guacamole al tartufo.

La trovò. Era Dolores, cuoca locale, occhiali grossi e un sarcasmo tagliente come un coltello da sushi.

«Dolores, ma queste sono davvero ricette tradizionali maya?»

Lei sorrise.
«Sí, si los mayas hubieran tenido nata agria y microondas. Pero ya sabe, la tradición vende. Como las máscaras aztecas que hacemos en China y los ponchos que cosemos en Turquía. El folclore es el opio del turista.»
(Sì, se i maya avessero avuto accesso alla panna acida e ai microonde. Ma sa com’è, la tradizione vende. Come le maschere azteche che facciamo in Cina e i poncho cuciti in Turchia. Il folclore è l’oppio del turista.)

Il mattino dopo, Erik fece il check-out. Al banco, Raúl era ancora là.

«¿Todo bien, señor? ¿Encontró su paz interior?»
(Tutto bene, signore? Ha trovato la sua pace interiore?)

Erik sorrise. «No. Ma ho trovato questo.» Tirò fuori dal borsone un vecchio lettore DVD portatile. «Lo lascio qui. Chissà, magari un giorno lo rivenderete al triplo a qualche idiota europeo.»

Raùl lo prese, lo guardò, e fece un sorriso enigmatico.
«Sí, señor. Lo haremos. Y probablemente será usted.»
(Sì, signore. Lo faremo. E probabilmente sarà lei.)


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