Nessuno si conosce, fin quando è soltanto se stesso e non è insieme anche un altro.
August W. Von Schlegel citato da H. von Hofmannsthal ne “Il Libro degli Amici”
Di norma il titolo di qualsiasi elaborazione e/o contributo
intellettuale, tende ad anticipare la tesi che sostiene o che nega l’autore e a
cui lo stesso perviene dopo lo svolgimento del ragionamento-opera personale che
lo conduce a tale conclusione; l’incipit del
lavoro che segue invece lascia al fruitore il dubbio su quello che possa essere il pensiero dell’autore e lo
stimola ad una duplice riflessione preventiva: quale potrà essere la personale
risposta data alla quaestio e quale
quella di chi scrive. Al termine, quando il dubbio verrà sciolto, sia che
lettore/uditore e autore si trovino in sintonia o meno, il destinatario della
domanda potrà aver rafforzato, modificato e/o addirittura creato ex novo il suo convincimento sulla questione
posta grazie al lavoro altrui. Già nella forma –
interrogativa - in cui si propone il titolo si cela dunque un possibile
universo da scoprire per coloro che si riconoscono nei seguenti versi di Dante
Alighieri:
«O voi ch’avete
l’intelletti sani
Mirate la dottrina che s’asconde
Sotto il velame delli versi strani! »
(Inf. IX, 61-63)
Nella comunità scientifica lo studio della psiche ha conosciuto un grande
sviluppo dal momento in cui il medico ebreo di nascita morava Sigmund Freud intuì
che, spingendo l’individuo a narrare a lungo e in profondità i suoi vissuti utilizzando il metodo delle libere associazioni, era possibile far
salire dall’oscurità dell’inconscio verso la luce della consapevolezza quanto
necessario per elaborare i traumi e migliorare lo stato di salute della
persona.
Se avviciniamo questa osservazione dal microcosmo individuale al
macrocosmo collettivo non possiamo non interrogarci sulla possibile e
formidabile valenza dello studio della Storia di una qualsiasi comunità o
aggregazione regolamentata tra esseri umani, quale metodo per comprendere non
solo chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando, hic et nunc, ma anche per
elaborare i traumi passati e quindi migliorare lo stato di benessere sociale.
E sottolineo, non la Storia
in sé (l’insieme dei fatti, dei personaggi, dei luoghi, degli eventi, delle
date ecc. ecc e neppure il compendio delle conclusioni degli studi sui processi storici) ma lo studio
stesso della Storia: ciò che conta è il processo formativo e non il risultato informativo
a cui si perviene in un dato momento storico, sempre suscettibile di acquisire
nuovi e anche imprevedibili significati successivamente, proprio in virtù della
continua opera che sviluppa il processo.
Se la formazione è il
processo dinamico di acquisizione verificata della Conoscenza e invece l’informazione
è il dato statico della conoscenza hic
et nunc soggetto all’usura senza la continua opera di formazione, credo che quale sia il mio pensiero circa il quesito
posto in cima al presente scritto non abbia bisogno di una manifestazione
esplicita.
«Quando mi diparti' da Circe, che sottrasse
me più d'un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse,
né dolcezza di figlio, né la pieta
del vecchio padre, né 'l debito amore
lo qual dovea Penelopè far lieta,
vincer potero dentro a me l'ardore
ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto
e de li vizi umani e del valore;
ma misi me per l'alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
fin nel Morrocco, e l'isola d'i Sardi,
e l'altre che quel mare intorno bagna.
Io e ' compagni eravam vecchi e tardi
quando venimmo a quella foce stretta
dov' Ercule segnò li suoi riguardi
acciò che l'uom più oltre non si metta;
da la man destra mi lasciai Sibilia,
da l'altra già m'avea lasciata Setta.
"O frati", dissi, "che per cento milia
perigli siete giunti a l'occidente,
a questa tanto picciola vigilia
d'i nostri sensi ch'è del rimanente
non vogliate negar l'esperïenza,
di retro al sol, del mondo sanza gente.
Considerate la vostra semenza:
fatti non foste a viver come bruti,
ma per seguir virtute e canoscenza".
Dante Alighieri – Inferno, canto XXVI, 90-120
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