martedì 29 settembre 2020

CALCIO VS BASKET OVVERO MOBIAM UDINE VS MEL DAVIS

 

La prima volta che misi piede al Palasport "Primo Carnera" fu il 14 gennaio 1979, circa sei mesi dopo la mia "prima volta" allo stadio Friuli ed ebbi così modo di sperimentare le emozioni del gioco che ha conteso, e tutt'ora contende, il posto principale nel mio cuore di appassionato sportivo. In realtà, i due sport convivono bene nei miei affetti, perché trattasi di due esperienze complementari e non antitetiche. Il calcio è stato il "primo amore", lo sport la cui pratica negli anni '70 costituiva per tutti i maschietti in età scolare la via più rapida per accedere al mondo esterno dei pari: bastava la palla e qualsiasi spazio, dal cortile della scuola alla piazzetta della chiesa o al prato vicino casa, due cappotti, due cartelle o due alberi avvicinati per finire direttamente dentro lo stadio di San Siro. E su quegl'improvvisati campetti trovavi avversari di tutti i tipi, dal ricco al povero, dal più piccolo al più grande, dal secchione al Lucignolo di turno. Insomma tutti, e se non facevi parte delle poche famiglie ricche o almeno agiate e volevi avere una qualche specie di vita sociale, non potevi astenerti dal saper "dare due calci al pallone". Il basket era diverso. Non era per tutti. Per costituzione: se volevi praticarlo era necessario accedere ad una palestra o ai pochi campetti con canestro e tabellone che sorgevano di solito nei Ricreatori. E a Cividale, appunto, ce n'era solo uno. Il pallone da basket, poi, non poteva essere surrogato da stracci o pezze avvolte o da sfere di plastica dal prezzo accessibile, doveva essere da basket e solo da basket e non era acquistabile risparmiando per un po' di mesi la misera paghetta dei genitori. Neanche in società. E non si poteva giocare in quanti si voleva o in quanti c'erano, al massimo si poteva arrivare a dieci. E non potevi dire all'ultimo principiante arrivato: si usano solo i piedi e devi fare gol tirando la palla tra i due alberi oppure, più probabile, se vai in porta con piedi, mani e tutto quello che vuoi devi impedire che la palla ci passi in mezzo. Non potevi cavartela dicendo: lancia la palla nel canestro usando solo le mani; e il terzo tempo? e i passi? e la doppia? e la palla accompagnata? e i tre secondi? E il due su tre? E i cinque falli? E il time-out? Insomma, per farla breve, il basket era il gioco dei "fighetti", di “quelli del centro”, delle famiglie “bene”, fisicamente dotati in statura e che sublimavano il loro senso di superiorità rispetto alla massa - calciofila - praticando uno sport "non per tutti" con “regole d'ingaggio" sicuramente più evolute e sofisticate rispetto a quelle rudimentali del "balòn". Fino agli otto anni, per me, che vivevo in una famiglia né agiata e né particolarmente interessata allo sport, il calcio non poteva che diventare il mio primo e unico amore, a cui ho dedicato tanto sudore e molte ginocchia sbucciate su tutte le superfici, durante l'infanzia. Poi, nel 1975, a Pordenone, dove da poco mi ero trasferito con i miei genitori, l'allenatore delle giovanili di basket del Ricreatorio San Lorenzo di Rorai Grande, mi "strappò" dal campo da calcio per mettermi su quello da pallacanestro. Obtorto collo e con molte resistenze da parte mia. Come mai?? Anche a Rorai, quartiere popolare, volevano una squadra di basket e così incaricano un appassionato insegnante di educazione fisica locale e amico del Parroco, di selezionare una quindicina di ragazzi da avviare al minibasket. Impresa complicata, in quel mondo che pullulava di calciatori in erba, che alla fine si risolse "obbligando" i più alti ad aderire e, visto che durante l'infanzia la natura mi aveva dato una statura decisamente superiore alla media, non furono sufficienti tutti i miei pianti per evitare di lasciare i compagni del calcio per diventare un pioniere della pallacanestro. A distanza di anni, anche se non lasciai in seguito tracce degne di nota nel mondo della palla al cesto, non posso che ringraziare quell'insegnante che mi fece imparare nell'anno successivo i fondamentali e i rudimenti necessari per giocare a basket, sport che incominciai ad apprezzare ed amare tanto da essere stato selezionato, sicuramente data l'altezza, per trasferirmi a fine stagione nelle giovanili della Postalmobili, allora prima squadra della città sul Noncello. Quel trasferimento non ebbe mai luogo, perché la famiglia ritornò ad abitare a Cividale, dove, la mancanza in quegl'anni di una società sportiva di pallacanestro con settore giovanile, mi fece riabbracciare convintamente e definitivamente il mondo dei pallonari, relegando la pratica del basket ai tornei scolastici e a occasionali sfide, post compiti del pomeriggio, tre contro tre nel campetto del Ricreatorio. Quell'anno di basket però fu sufficiente per farmi innamorare anche di quello sport, così diverso dal calcio, sia in relazione agli skills necessari per la pratica, che per la prassi, i rituali e le emozioni della partecipazione passiva. Eccoci qui, finalmente. La partecipazione passiva. Fu come scoprire un’altra galassia, per un “pallonaro” che aveva appena incominciato a fare i conti con la tempra necessaria per assistere il calcio, dal vivo allo stadio, fronteggiando nell’ordine: la calca feroce alle biglietterie, gli assembramenti e le code interminabili per l’ingresso, l’esposizione diretta per qualche ora alle intemperie sui gradoni in cemento della curva prima e durante la partita, la ressa infernale per acquistare un panino durante l’intervallo in mezzo ad un’umanità, quasi esclusivamente di sesso maschile, composita ma accomunata da un generalizzato e continuato uso “approssimativo” del galateo. E guardandosi bene dall’incrociare lo sguardo con qualcuno “degli ultras”, soggetti dai quali era meglio stare alla larga non solo allo stadio ma anche ai baracconi e di cui molti già ben noti alle forze dell’ordine.

Il clima del Palazzetto era invece paragonabile a quello di un salotto: seduta confortevole, riscaldamento, musica di sottofondo, buona visibilità, venditori di bibite e panini che si muovevano agevolmente tra gli spettatori, possibilità di spostarsi tra un settore e l’altro delle gradinate per osservare molto più da vicino i giocatori, pubblico molto più educato e addirittura ragazze sugli spalti! E gli “ultras”, che pure c’erano, sembravano decisamente “più civili”. Agli occhi di un ragazzino di 13 anni un senso di grande sicurezza, rispetto alla vertigine e al battito impazzito del cuore sperimentati la prima volta in mezzo alla folla dello stadio. Ragionamento semplice: se il basket era il gioco dei “fighetti”, “fighetti” – e fighette -  non potevano che esserlo anche i sostenitori e gli appassionati. Se andare ad assistere alle partite dell’Udinese al “Friuli” era come partire per una battaglia da campo in mezzo ad una compagnia di alpini, andare al “Carnera” a vedere la Mobiam aveva invece il sapore di essere invitati ad una festa di capodanno per dirigenti e quadri di un istituto bancario. Per questo i miei amori per il calcio e il basket hanno potuto convivere pacificamente ed in modo parallelo: cose troppo diverse per essere messe a confronto, così negl’anni ho potuto partecipare sempre con grande trasporto ad entrambe gli eventi e rammaricarmi solo per i lunghi periodi in cui disastrose vicissitudini societarie e sportive del basket udinese mi hanno privato delle frequentazioni nel salotto del “Carnera”, “condannandomi” a rimanere ostaggio del solo stadio Friuli. Il mio “primo giorno” al palazzetto vide “la palla a due” tra i verdi della Mobiam Udine e i rosa della Manner Novara, che si contesero i due punti in palio nella penultima gara del girone d’andata della stagione regolare del campionato di A2 1978/79. Era una specie di “testa-coda” perché mentre la squadra guidata dall’esperto tecnico “Dido” Guerrieri ambiva a riportare Udine nel massimo campionato dopo i freschi fasti snaiderini veleggiando nelle posizioni di alta classifica, la Manner aveva trasferito a Novara i diritti di Genova e cercava di abbandonare l’ultimo posto in graduatoria ed evitare la retrocessione diretta in serie B. Era anche un altro basket rispetto a quello odierno: non c’era il tiro da tre punti, gli arbitri erano solo due, il possesso era di trenta secondi, vigeva ancora la regola del due su tre ai liberi e c’erano due tempi da venti minuti ciascuno, e solo due stranieri per squadra tanto in A1 che in A2. Per dire solo delle cose più rilevanti. Lo spettacolo c’era lo stesso, eccome se c’era.  Quella sera, come da pronostico, vinsero i “mobilieri” di casa con un pirotecnico punteggio da NBA: 123 – 105. La cosa che però mi rimase per sempre ben impressa nella mente di quella prima volta, non è legata ai beniamini di casa, bensì a quello che fece pochi istanti prima della fatidica “palla a due” per l’inizio del match.la “stella” degli avversari: tale Melvyn Jerome “Mel” Davis, ala-centro di 2 metri scarsi e con un passato nell’NBA con i celebri New York Knicks, 

Il riscaldamento stava per concludersi, diversi giocatori erano già accanto ai rispettivi coach presso le panchine, le luci delle gradinate già spente e i due arbitri al centro del campo quando il “califfo” in maglia rosa pensò di incutere timore ai suoi avversari terminando il warm-up con una potente e spettacolare schiacciata in terzo tempo, appendendosi al ferro. Risultato? Il tabellone di vetro esplose letteralmente in mille pezzi con un fragoroso botto. Partita rinviata di 45 minuti per sostituire canestro e tabellone – allora i ferri non erano a prova di schiacciata - con il “feroce” Mel portato d’urgenza al pronto soccorso dove gli praticarono una decina di punti di sutura in testa.

Unforgettable, specialmente per un ragazzino di tredici anni al debutto in un palazzetto.

Il risultato finale ci racconta di un largo successo della Mobiam, che incontrò un unico ostacolo durante il match: il redivivo Mel Davis che, dopo pochi minuti dall’inizio della gara, rientrò sul parquet con una vistosa fasciatura in testa e mise a segno 33 punti finali, con uno score di 9/10 ai liberi 5/16 da fuori, 7/12 da sotto e 8 rimbalzi, risultando di gran lunga il migliore dei suoi.     

Così qualche anno fa, mentre assistevo a Cividale nel palazzetto di Via Perusini al riscaldamento di uno dei tanti match di A2 della GSA – erede dell’APU e quindi anche di quella Mobiam -  e mi ritornò ancora alla memoria il ricordo di Mel Davis, decisi di fare delle ricerche per sapere che fine aveva fatto quel “califfo” che per sempre aveva segnato la mia memoria baskettara.

Grazie a Google l’impresa, che "una volta" avrebbe il richiesto tempo e la dedizione di una ricerca archeologica, oggi mi ha sottratto il tempo del panino e con un po’ di destrezza e controllo delle fonti ho scoperto che “Big Mel”, nato nel 1950 a New York e dopo aver frequentato le scuole medie a Brooklin si iscrisse alla St, John University dove conseguì una laurea in Marketing e nel campionato universitario, nonostante fosse un’ala di 2 metri, risulta essere ancora il settimo rimbalzista di tutti i tempi.

Ingaggiato dai leggendari New York Knicks nel 1973 vi giocò fino al 1977, prima di passare un anno ai Nets, con uno score finale della carriera in NBA di 5,3 punti a partita e 4,3 rimbalzi a gara.

Arrivato in Italia con il soprannome di “the Killer”, in virtù del fisico da “Big Jim”, delle cicatrici sul volto eredità delle risse da strada collezionate in gioventù a Brooklin ma soprattutto per un diretto destro da KO più volte azionato durante le fasi calde dei match sui parquet dell’NBA, non ebbe molta fortuna nella scelta delle compagini in cui militò.

Dopo il primo anno a Novara, targato Manner, dove le sue notevoli prestazioni non bastarono ad evitare l’ultimo posto e la retrocessione in B per una società che già a metà campionato aveva esaurito l’ossigeno finanziario e non riusciva a pagare gli stipendi, l’anno seguente si trasferì a Milano, sponda Pallacanestro Milano griffato Amaro 18 Isolabella, e anche qui, a fronte del quarto posto assoluto nella classifica marcatori con una media di 25 punti a partita e settimo in quella dei rimbalzi totali, cambi di allenatore e tracollo economico determinarono la retrocessione in A2 prima e la scomparsa del club dai professionisti poi.

Lasciata l’Italia per una breve parentesi in Svizzera, dove i sui conti al ristorante mandarono in crisi la dirigenza elvetica, Mel fece ritorno nella sua New York in tempo per ottenere un master in psicologia e counseling alla Fordham University e uno in pianificazione della carriera alla N.Y. University.

La leggenda narra che in Svizzera “Big Jim” fosse abituato a consumare pasti che prevedevano un bis di carbonara seguita da due polli arrosto interi oppure dodici trote salmonate, con l’immancabile accompagnamento di patate fritte, dolce e cappuccino finale.

Lasciato il basket, per un periodo è stato supervisore per la commercializzazione della Pepsi per poi occuparsi di programmi per l’orientamento delle matricole NBA e per la transizione nel mondo del lavoro dei giocatori in prossimità di terminare la carriera professionistica. Nel 2005 l’NBA ha nominato Mel Devis direttore esecutivo dell’Associazione Nazionale Giocatori in Pensione, ente che si occupa di sostenere gli ex giocatori con problemi di droga, alcolismo, salute e povertà.

Nel novembre 2005 è ritornato in Italia, quale rappresentante dell’NBA, assieme a Julius Erving per l’inaugurazione del palazzetto dello sport di Rieti intitolato alla memoria di Willie Sojourner, altro indimenticato “califfo” del campionato italiano di fine anni ’70.

Per quanto riguarda la Mobiam, perdendo nettamente l’ultima gara di campionato al “Carnera” contro i cugini della Pagnossin Gorizia del cannoniere Roscoe Pondexter guidata dal “santone” Jim Mc Gregor perse l’occasione di essere promossa direttamente in A1 e fu costretta disputare uno spareggio a quattro per la promozione assieme agli stessi goriziani, al Bancoroma di Nello Paratore e alla Pintinox Brescia. Spareggio che si concluse con una beffarda vittoria contro la Pagnossin e due sconfitte con le altre due contendenti, con conseguente fallimento dell’obiettivo stagionale.

Concludo, per gli amanti delle statistiche, con il tabellino di quel mio debutto al “Carnera”, in una domenica di gennaio del 1979 in cui l’Udinese di Massimo Giacomini in serie B, si faceva rimontare un gol di vantaggio in quel di Cesena e l’allora “mia” Juve trapattoniana e zeppa di nazionali perdeva in casa contro il Lanerossi Vicenza di Paolo Rossi non ancora Pablito Re di Spagna.

 MOBIAM UDINE – MANNER NOVARA 123 – 105 (p.t. 60 – 47)

Arbitri Guglielmo e Giuliano di Messina

 MOBIAM

Andreani 4 (2/2, 1/1, 0/3) Otello Savio 16 (4/5, 3/6, 3/3) Gianpiero Savio 15 (1/2, 3/8, 4/9) Piùbello (-,-, 0/1) Vidale n.e., Cagnazzo 18 (2/2, 0/1, 8/9) Bettarini n.e., Tonin 2 (-,-, 1/1) Garrett 41 (1/1, 8/13, 12/16) Gallon 27 (5/6, 1/5, 10/17)

Allenatore Guerrieri

 MANNER

Buscaglia (-,-,-) Papetti 7 (1/1, 1/3, 2/4) Foster 14 (-, 2/3, 5/7) Mottini 19 (3/3, 5/12, 3/4) Cantamessi 22 (-, 8/15, 3/3) Dordei 10 (2/2, 2/5, 2/4) Pozzati (-,-, 0/2) Ceron (-,-, 0/3), Marsano n.e., Mel Davis 33 (9/10, 5/16, 7/12)

Allenatore Tanelli

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