martedì 22 dicembre 2020

CUCCHIAIO DI SALE SULLA VIA DI SANTIAGO









I casi della vita vollero che il play-off per l’accesso alla fase a gironi della Champions League 2012/2013 si tenessero nello stesso periodo in cui mi sarei trovato nell’ultima settimana del mio Cammino verso Santiago di Compostela e cosa ancora più curiosa era che quando il 22 agosto si sarebbe disputata la gara di andata tra l’Udinese e i non irresistibili portoghesi dello Sporting Braga, io mi sarei trovato a Sarria, in Galicia, a soli 244 km dalla città lusitana, ovvero a 2 ore e mezza d’automobile. La gara di ritorno, invece si sarebbe tenuta allo stadio Friuli il 28 agosto, quando già raggiunta la Catedral di Santiago, mi sarei trasferito come impone la millenaria tradizione a Finisterre, per bruciare in riva all’Oceano qualche indumento portato nello zaino durante il cammino, prima di rientrare a Cividale il giorno seguente. C’erano diversi indizi perché si dovesse verificare qualcosa di memorabile durante quel preliminare. E così fu, anche se non nel senso che avevo interpretato quando qualche giorno prima della mia partenza per il Cammino, dall’urna di Nyon il sorteggio aveva abbinato proprio l’avversario che desideravo: lo Sporting Braga. In quel periodo avevo finito di preparare la sceneggiatura del mio ultimo spettacolo teatrale “Io dico che domani Italia vince”, lavoro che si basava sul testo di un libro scritto da Mario Sconcerti nell’agosto 1982 per celebrare la fresca vittoria azzurra al mundial di Spagna. L’avventura aveva avuto inizio proprio in Galicia nel ritiro della casa del Baron di Pontevedra e l’ultima amichevole giocata dai ragazzi di Enzo Bearzot prima di iniziare la cavalcata che si sarebbe conclusa con il trionfo di Madrid, si era disputata proprio a Braga, conto lo Sporting, fresco vincitore quell’anno della serie B portoghese. Rileggere dopo 30 anni il racconto che all’epoca scrisse e pubblicò Mario Sconcerti, allora giovane cronista di Repubblica inviato al seguito della nazionale, mi aveva convinto che realizzare un adattamento del testo per una sua messa in scena in forma di recital potesse costituire una sfida molto stimolante dal punto di vista artistico e per il pubblico, soprattutto quello più giovane che non aveva vissuto quel mese del 1982. Per vincere la sfida personale avevo voluto leggere tutte le memorie pubblicate dai vari protagonisti, recarmi in Galicia, per trascorrere alcuni giorni a Pontevedra dimorando nello stesso Parador che aveva ospitato gli azzurri, riguardarmi le interviste e i documenti filmati noti e meno noti dell’epoca, compiere a piedi gli ultimi 200 km del cammino di Santiago per assaporare i profumi, i suoni e il clima atmosferico della Galicia e apprendere in prima persona quale impatto su corpo e psiche poteva dare un’impresa fuori dal quotidiano, oltre che, naturalmente attingere a piene mani ai miei ricordi di sedicenne. 


Qual era il motivo di quella sfida personale? Rispondere in modo personale ad una chiamata: in un tempo in cui, sia individualmente che in ciò che percepivo nell’inconscio collettivo intorno a me tutto sembrava così tetro da indurre alla resa, all’abbandono e alla rassegnazione, avevo voluto dare e darmi, utilizzando la forma d’arte che più mi è congeniale, un messaggio di senso contrario: non mollare, non rinunciare mai a varcare la soglia. Insomma, invasato com’ero per quei luoghi e per quella vicenda, la circostanza che fossero stati proprio i portoghesi di Braga l’ultimo ostacolo verso i gironi della Champions League per l’Udinese del tecnico Francesco Guidolin e del superbomber Antonio “Totò” Di Natale, sposava in pieno considerazioni di tipo tecnico-razionale con valutazioni cabalistiche ed esoteriche per rendermi assolutamente sicuro che questa volta, l’obiettivo non poteva essere fallito. E poco importava che la divisa dello Sporting Braga fosse una sorta di fotocopia di quella dell’Arsenal, che l’anno precedente aveva sbarrato la strada ai bianconeri durante i preliminari: la circostanza era agevolmente compensabile verificando che l’unica volta in cui l’Udinese aveva superato le “forche caudine “dei play-off questo era avvenuto a spese di altri portoghesi e di un altro e ben più prestigioso Sporting, ovvero quello di Lisbona nel settembre 2005. Così quando la sera del 22 agosto, a Sarria, dopo la cena riprendevo le forze delle canoniche 6 ore di cammino giornaliero fui raggiunto dai messaggi WhatsApp degli amici che mi davano la notizia del risultato di 1-1 quale finale della partita di Braga, quel guazzabuglio di valutazioni mistiche e razionali sembrava proprio trovare conferma nella realtà dei fatti. E poco importava che il risultato di parità fosse maturato dopo che l’Udinese, passata in vantaggio nel primo tempo con una rete del serbo Dušan Basta, si era fatta rimontare da un gol portoghese a metà della ripresa: 6 giorni dopo allo stadio Friuli sarebbe bastato anche uno 0-0 per passare il turno. L’impresa era tutt’altro che titanica, nonostante l’estate avesse portato con sé l’ennesimo smontaggio del “giocattolo” che era stato capace di raggiungere il terzo posto finale nella serie A precedente, migliorando addirittura l’impresa del quarto posto della stagione 2010/11. Durante l’estate erano state cedute alcune “colonne” quali il portiere sloveno saracinesca Samir Handanovič all’Inter, l’esterno Mauricio Isla ed il totem di centrocampo Kwadwo Asamoah alla Juventus ed i sostituti, come rigida politica aziendale, erano tutti giovanotti di belle speranze che tutto avevano ancora da dimostrare come il portiere serbo Željko Brkić dal Siena e i brasiliani esordienti in Europa Willians, Allan e Maicosuel, detto ‘O Mago. Ma era rimasto il re dei bomber Totò Di Natale e soprattutto a guidare l’orchestra Francesco Guidolin, che in tutte le stagioni e in tutte le squadre che aveva allenato si era dimostrato ampiamente capace di “tirà fȗr il sang dai mȗrs”. Per cui, niente paura, il giorno prima della sfida di ritorno avevo raggiunto Santiago di Compostela: la vittoria dell’Udinese era scritta nelle “stelle”. Appunto. La sera del 28 agosto invece ero a Cabo Finisterre, il punto più estremo della terraferma della penisola iberica verso l’Oceano Atlantico, il punto che gli antichi romani avevano battezzato apposta come “Fine della Terra”, l’estremo oltre al quale non si poteva più andare, neppure per le loro invincibili legioni. In quel punto tutti i cammini terreni s’interrompono e inizia il viaggio per mare, quello che per gli antichi rappresentava il viaggio nell’Altrove dopo la morte. Avrei dovuto tenerne conto nei miei ragionamenti cabalistico-esoterici dopo aver bruciato un paio di magliette sul promontorio come la tradizione comanda e nel momento in cui sedevo a tavola con i compagni di quel lungo cammino per gustare l’ennesimo “pulpo alla gallega”, mentre allo Stadio Friuli l’arbitro olandese Kuipers fischiava il calcio d’inizio della partita di ritorno ed iniziavano già a fioccare i primi messaggi WhatsApp degli amici presenti in tribuna ad Udine. Il pulpo però era ancora mezzo nel piatto quando giunse telematicamente la notizia del sollecito vantaggio bianconero ottenuto con una inzuccata del “loco” colombiano Pablo Armero: pareva proprio che il viaggio verso l’Altrove, ovvero “la retrocessione” in Europa League aspettasse i portoghesi, mentre per i colori bianconeri i cancelli dei gironi di Champions League erano già mezzi aperti. La gioia per il coronamento del cammino e per l’ormai prossima storica vittoria dell’Udinese si mescolavano con lo stesso amabile sapore del vino iberico che accompagnava il pulpo, mentre i messaggi continuavano a susseguirsi in modo frenetico, pieni di rammarico per una serie di palle gol fallite miseramente dai bianconeri. Tutti errori che impedivano la chiusura “della partita” e che mantenevano sul filo dell’equilibrio il discorso qualificazione; incominciò a serpeggiare un’ansia sempre più difficile da contenere e tutte le mie farneticazioni magico-numerologiche ormai non bastavano più per rassicurarmi e così decisi di spegnere il cellulare: l’avrei riacceso solo nell’ora in cui era lecito attendersi la fine del match, tenendo conto anche di eventuale extra-time e annessi calci di rigore. La cena terminò quando allo stadio Friuli la partita era più o meno a metà del secondo tempo e quando uscì dal Restaurante Findo Camino di Rua Campo davanti a me, dalla vetrata del pub posto difronte all’uscita, giunse l’immagine di un televisore sintonizzato su di una partita. Fu impossibile distogliere lo sguardo dal primo piano di un giocatore in maglia biancorossa che esultava correndo verso gli spalti di uno stadio. Pochi, lunghi, terribili istanti e poi gli impulsi arrivati alla retina e spediti da questa al cervello limbico che a sua volta li aveva spediti alla corteccia cerebrale vennero rimandati infine da questa decifrati alla coscienza: non erano gli spalti di “uno” stadio ma quelli del Friuli e non era “un” giocatore in maglia biancorossa ma si trattava dell’attaccante Ruben Micael del Braga, che poi seppi essere entrato solo dieci minuti prima in sostituzione di un compagno. Resto di sale e superato lo shock, con una serie di imprecazioni, abbandono i compagni di viaggio intenzionati a concludere la serata tutti insieme guardando la baia dall’altura del Castelo di San Carlos, scusandomi blandamente prima di precipitarmi all’interno del locale per seguire, a questo punto fino al termine e in diretta, l’esito del match. La farò breve perché anche adesso, mentre scrivo, dallo stomaco risale ancora qualcosa di poco simpatico. Il locale è vuoto, c’è solo l’oste e la sua compagna già intenti nelle operazioni di “sbaracco”. In un pietoso anglo-friulano-spagnolo riesco a convincerlo, dietro la promessa di pagare un adeguato supplemento alle altrettanto adeguate consumazioni, di permettermi la visione del match fino al termine. “Senor, faltan nomo diez minutos! Por favor!”. Altro che “nomo – solamente” diez minutos: finisce 1-1 e si va ai tempi supplementari, giusto il tempo di consumare un paio di San Miguel ingurgitate a vetro e scomodare tutti i santi del paradiso quando Pablo Armero incespica davanti al portiere fallendo per sempre il gol qualificazione. Oramai mi sono giocato tutti gli eventuali aiuti divini o extraterrestri quando inizia la lotteria dei calci di rigore. L’Oste spagnolo alla terza San Miguel sembra più interessato alle mie evoluzioni fisiche e verbali in solitaria più che alla solenne drammaticità del momento. Ci fu un solo errore nella serie dei tiri dal dischetto e fu quello decisivo. Ci pensò ‘O Mago Maicosuel, il giovanotto brasiliano appena arrivato in estate e che non aveva fatto fatica alcuna per meritarsi quell’opportunità ma “abile” a confezionare un gesto che mai verrà dimenticato da tutti i tifosi friulani di ogni età sparsi per il globo. Calciò “un cucchiaio talmente insipido, che il portiere lusitano Beto, incredulo, accolse il pallone tra le braccia con la stessa delicatezza di una madre mentre si appresta a cullare il proprio pargolo appena nato. Game over. Capolinea. Fine del mondo e del viaggio. Ed io a Cabo Finisterre, appunto, assieme al pubblico dello stadio Friuli e a tutti i tifosi dell’Udinese che in quel momento tenevano gli occhi pieni di speranza davanti alla TV restammo tutti come statue di sale. Nel mio caso fu l’Oste spagnolo a tentare di ridarmi la vita, facendomi trovare un’altra San Miguel sul tavolo davanti a me. “Lo siento hombre! esto es sobre mi” (Mi spiace, questo lo offro io) disse con aria empatica strappandomi un “gracias” meno empatico. “Italiani, spagnoli: una fazza una razza.” pensai mentre in solitaria raggiungevo il resto della compagnia come uno zombie, pronto per essere sottoposto ad una “fucilazione” a base di “sfotto’”.

Ancora oggi credo che Francesco Guidolin non si meritasse questo amaro calice. O meglio, cucchiaio. N.B. “Restare di sale” è un’espressione utilizzata nel linguaggio comune che significa rimanere sbalorditi, stupefatti, basiti, provare una grandissima sorpresa, tale da rimanere senza parole, come impietriti. L’origine di questo modo di dire è da ricercarsi in un racconto dell’Antico Testamento. Si fa in particolare riferimento alla moglie di Lot (Genesi, 19, 24-26) che fu trasformata in una statua di sale perché, nonostante l’espresso divieto divino, si era girata indietro a guardare le città di Sodoma e Gomorra che venivano distrutte dalla collera di Dio.

Che altro mi poteva accadere alla fine del Cammino di Santiago?

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