domenica 14 novembre 2021

PERCHE' SCRIVI?


Se Parigi era sempre stata nel cuore di Rubén la città che meglio di tutte le altre al mondo rappresentava il suo modo di vivere l'Amore ideale, Praga era invece quella che più si armonizzava su come lui avesse in realtà vissuto il rapporto con Eros.

Quel tardo pomeriggio di fine giugno, seduto ad un tavolino della terrazza panoramica dell'Hotel U Prince, mentre era intento a scrivere su di un taccuino, assaporava soddisfatto e a piccoli sorsi la celebre birra quasi nera con la schiuma scura e dal sapore forte, compiaciuto oltre che dal gusto della bevanda anche dal il nome che dal 1874 fa bella mostra sulle sue bottiglie: Kozel, ovvero "caprone" in ceco.

L'abitudine di scrivere qualcosa ogni sera era nata improvvisamente nell'animo del pittore spagnolo proprio durante il suo soggiorno praghese, periodo che durava oramai da più di tre settimane ovvero da quando era stato incaricato dall'Ambasciata di Spagna a curare, assieme all'addetto culturale dell'Istituto, una mostra sulla "trinità" dell'arte figurativa iberica Goya - El Greco - Velàzquez, da tenersi nelle sale dello splendido Obecnì Dum, il palazzo civico situato proprio alle spalle della piazza della città vecchia  e nei pressi di Prašná brána, la torre delle polveri.

Come tutti i neofiti che improvvisamente si sentono attratti da una qualche forma di arte o di una qualsiasi più semplice attività, gli esordi erano stati contraddistinti da una sorta di frenetica bulimia, tanto che Rubén, puntualmente, ogni sera, terminati gli impegni connessi al piacevole incarico da svolgere nella città di Kafka che solo lievemente era appesantito dal necessario rapporto quotidiano con il terribile burocrate che gli aveva affiancato l'ambasciata, raggiungeva la terrazza, si godeva per qualche minuto l'incantevole panorama e poi iniziava con foga a riempire d'inchiostro un taccuino acquistato per quello scopo preciso a Josefov, il quartiere ebraico. Sempre sorseggiando almeno un paio di Kozel, appunto.

Quel tardo pomeriggio il sole si era oramai  addormentato dietro le guglie di Hradcany e il cielo si era colorato di tutte le possibili sfumature del rosa, conferendo a quel luogo l'aspetto delle cittadine medioevali che i nonni di tutta Europa cercano in ogni modo di evocare ai piccoli nipoti quando ambientano le fiabe che raccontano loro, sempre infarcite con bellissime Principesse puntualmente salvate all'ultimo minuto grazie all'eroico intervento di Principi o Cavalieri, altrettanto avvenenti, senza macchia e senza paura e capaci di mettere fine ai tremendi incantesimi orditi da orrende megere oppure di strappare le fanciulle dagli artigli di mostri ripugnanti, spesso draghi dall'alito incendiario. Ovvero gli ingredienti perfetti per rendere facilmente contagiabili i poveri nipoti da futuri abbagli, allucinazioni e travisamenti amorosi, sempre gravidi di sofferenze non proprio insignificanti. 

Quell'incanto gli aveva portato alla mente una vecchia discussione intavolata tra lui e la sua amica del cuore Dolores, quando una mattina di molti anni prima a New York dopo aver visitato Ellis Island alla foce dell'Hudson, avevano percorso a piedi tutta la strada che dallo sbarco del battello a Battery Park li aveva condotti quasi senza accorgersi nientemeno che all'ingresso del Central Park, attraversando tutto il cuore di Manhattan per rientrare al Plaza, dov'erano ospitati. 
I taxi gialli che riempivano le strade della City come fa il sangue nelle vene, la marea inesausta di persone multicolori che inondavano i marciapiedi e che sgorgavano o sparivano dalle fermate della metro come le risorgive di pianura o le sorgenti di montagna, i suoni dei clacson, delle sirene di ambulanze, auto della polizia e dei pompieri, i fumi di vapore che si alzavano dai tombini, il profumo del lusso che usciva dai negozi della quinta, l'odore di fritto che permeava le vicinanze delle centinaia di bar e tavole calde disseminate lungo il percorso e il sapore dei gas di scarico vomitati nell'atmosfera, non erano riusciti a distrarli da quella discussione.
Avessero camminato sulla battigia di qualche spiaggia incontaminata delle Maldive sarebbe stato lo stesso: tutta la loro attenzione e i pensieri erano agganciati per rispondere motivatamente al quesito di partenza che aveva posto Dolores a Rubén: se esistesse davvero "la città dell'Amore" e se si, quale doveva essere per ciascuno di essi. 
I due erano partiti da un'ampia rosa di nomi di metropoli o centri più piccoli sparsi nei cinque continenti, tutti evocati in base a vissuti personali o da esperienze letterarie, per restringere infine le candidature a due luoghi soltanto, sicuramente non originali e ben noti nell'immaginario di qualsiasi vittima di Cupido: Parigi e Venezia.
Dolores si era dichiarata senza tentennamenti per Venezia mentre Rubén con altrettanta sicurezza si era dichiarato per Parigi e la discussione si era incendiata quando fu il momento di dar conto di quella scelta. "Venezia tutta la vita, Rubén! - aveva esordito la donna con occhi scuri e fiammeggianti - Venezia è una città che non ha nessun tipo di eguali al mondo, nonostante i tanti tentavi di replica a tutte le latitudini! E' letteralmente sospesa sull'acqua ed eleva sul mare una quantità insuperabile di opere d'arte: ogni palazzo, ogni casa, ogni chiesa sono uno scrigno che contiene tesori e fascino inesauribile e non c'è scorcio, ovunque tu ti possa trovare che non sia in grado di rimandarti le note di un inno perpetuo alla bellezza. Puoi ritornaci mille e mille volte e in ogni occasione ne resterai ammaliato e ogni volta che la lasci provi sempre dispiacere che puoi compensare solo con il desiderio del ritorno.
Tutto questo per me, caro Rubén, è la perfetta metafora dell'Amore ideale: unico, insostituibile, pieno di bellezza in ogni gesto, dal quale riesci a staccarti solo perché hai la certezza del ritorno e che ogni giorno non finisce mai di ammaliarti. Cosa può opporre a fronte di tutto questo la "tua" Parigi? Non c'è il mare e senza mare non potrai mai avere il senso d'infinito di cui deve nutrirsi l'Amore. E poi, come la mettiamo con tutti quei parigini così snob da esibire senza freni la loro convinzione di vivere nel posto più bello del mondo? L'Amore non può che essere gentile con chi lo abita e sempre rispettoso del sentire altrui." 
"Mia cara venexiana - aveva finalmente replicato Rubén - io invece scelgo Parigi tutta la vita, perché per me l'Amore ideale è un'altra cosa. Non posso negare la bellezza unica della città dei Dogi davvero insuperabile nel suo "mood", ma è una bellezza "statica" e quindi "morta". Un grandissimo museo a cielo aperto che ogni anno si svuota di abitanti e viene invasa da turisti mordi e fuggi che la violentano, senza neppure capire cosa li circonda. 
E' un inno a ciò che fu, un Amore perennemente con lo sguardo all'indietro, contemplativo, incapace di evolversi in qualcosa di ancora più bello in armonia con le necessità del tempo nuovo che procede incessantemente e senza possibilità di fermata. Un posto dove recarsi per festeggiare un anniversario, ma dal quale fuggire subito il giorno dopo. L'Amore ideale per me è un viaggio che si, deve sempre circondare di bellezza e di gusto estetico ogni suo gesto, ma deve altrettanto possedere lo slancio, il desiderio, la creatività e la forza di rinnovarsi e guardare avanti, custodendo gelosamente i ricordi ma nel contempo aprirsi a nuove esperienze da far convivere e armonizzare con ciò che c'è e che va tutelato. E proprio questo invece è Parigi, dove c'è il Louvre, c'è il medio evo dell' Île de la Cité, i colori di Montmartre, il Sacre Coeur, l'inno al progresso della Tour Eiffel, il romanticismo del lungo Senna, ci sono i turisti che tentano la violenza ma vicino a tutto questo e altro ci sono i parigini, che saranno pure snob come dici tu, ma vivono la loro città anche con i grattacieli della Défense, si spostano una delle metropolitane più diffuse ed efficienti, usano tre aeroporti e riempiono ogni sera cafè e ristoranti per ogni genere di incontri: d'amore, di lavoro e d'intelletto. Insomma vivono e divengono, giorno dopo giorno, beandosi dei loro tesori ma soprattutto mescolandoli con tutto il meglio che il mondo può offrire nel tempo presente e con l'occhio al futuro. E poi dentro ognuno di quei palazzi, dal primo piano alla mansarda, pulsa la vita vera, di abitanti vivant mica il vuoto degli splendidi, ma sempre più abbandonati palazzi veneziani."
Ne era seguita un'accesa replica con controreplica e avanti così passo dopo passo, con i grattacieli di Manhattan che li circondavano ed impedivano ai raggi del sole di portare un po' di luce al loro cammino e alla fine, davanti all'ingresso del Plaza avevano trovato un punto d'incontro: non esisteva "la Città dell'Amore Ideale" ma tante città dell'amore, quanti erano gli Amori Ideali e quindi potenzialmente qualche miliardo, vista la soggettività con cui gli esseri umani hanno definito, definiscono e definiranno cosa sia il loro "Amore Ideale". 
"E ammesso che ci riescano per davvero, visto che l'unico elemento certo che definisce l'Amore è il Mistero."  Era stata la chiosa finale di Dolores sulla vexata quaestio, qualche ora dopo a cena nel ristorante del celebre hotel della Grande Mela, con piena approvazione di Rubén che alla fine aveva proposto un brindisi sul perfetto accordo raggiunto, ordinando una bottiglia di Sauvignon del patriarca californiano Robert Mondavi, visto che una di champagne avrebbe avuto il sapore della sfida. "Al Mistero!" aveva alzato il calice Rubén subito imitato da Dolores: "Al Mistero, scintilla dell'Amore Ideale". "E a Parigi e Venezia!", avevano chiuso all'unisono con una bella risata i due amici, tra i sorrisi compiaciuti di camerieri e altri ospiti del Plaza.

Scivolato via quel lontano e profondo ricordo, sorseggiando la birra ceca e lasciando cadere ogni tanto lo sguardo sulla piazza della città vecchia, Rubén s'interrogava ora su quale città invece rappresentasse al meglio qual era stato il suo rapporto e quello di Dolores con Eros.
Nel suo caso era proprio la capitale Boema: città splendida, per lunghi periodi persino capitale imperiale, spesso disponibile ad accogliere letterati e umanità varia di etnie diverse, riuscendo anche a trovare momenti di feconda integrazione ma spesso spazzata da invasioni straniere che ne hanno represso con la violenza a più riprese lo slancio vitale, fino a ridurla per tempi altrettanto lunghi in una sorta di una buia prigione a cielo aperto occupata e governata da potenze straniere per poi essere divenuta la capitale troppo grande e difficile da sostenere per uno stato troppo piccolo e quindi impossibilitata a recitare il ruolo che le spetterebbe nel panorama europeo ed internazionale, compressa inevitabilmente nella storia tra vicini più grandi e potenti come la Germania e la Russia. Un po' come le sue più importanti storie d'amore, in cui donne molto belle e sensuali si erano avvicinate a lui attratte dai suoi talenti speciali, dando vita anche a non brevi periodi di grandi passioni e trasporto emotivo ma poi fuggite o abbandonate per l'insorgere di necessità o complicazioni troppo grandi per essere risolte solo affidandosi ai buoni sentimenti o ai piaceri della carne, lasciando poi il pittore spagnolo ad affrontare penose e complicate ricostruzioni in una sorta di cattività esistenziale.
Pensando invece a Dolores, la città non poteva essere che Montreal, la capitale di uno stato come il Canada che mai si era posto con ambizioni di dominio sulla scena internazionale, ma aveva sempre svolto un ruolo di sostegno attivo nei confronti dei suoi abitanti e della corona britannica e in questo modo si era sempre tenuta alla larga dai guai e consentito una vita tranquilla, forse anche un po' noiosa ma pur sempre agiata ai suoi abitanti. Alla prima occasione ne avrebbe parlato con Dolores per vedere se fosse stata d'accordo con quell'impostazione.

Mentre sorridendo era alle prese con quel pensiero si avvicinò d'improvviso la bella e giovane cameriera boema che, con grande piacere di Rubén, ogni sera prestava servizio nel turno in cui lo spagnolo si trovava lì per il suo rituale letterario e a bruciapelo, in un inglese perfetto gli "sparò" dritto per dritto la seguente domanda: "Ma che cos'hai tu da scrivere così tanto ogni volta?"

Rubén fu completamente sorpreso da quella domanda e come un bambino colto nell'atto di rubare le caramelle dal bancone di un negozio, farfugliò imbarazzatissimo una risposta assolutamente insipida improbabile: "Ognuno ha le sue tristezze", tanto che l'intraprendente cameriera per nulla soddisfatta rilanciò subito: "Non mi sembri così triste! Ho capito va, non me lo vuoi dire" indirizzando a Rubén un sorriso malizioso, per poi concludere "Ok, se cambierai idea e vorrai dirmi la verità, come sai ogni sera sono qui e termino il turno a mezzanotte. A parte il lunedì, che devo dedicare al mio ragazzo" e poi dare la schiena allo spagnolo e rientrare in cucina.

Rubén, piacevolmente sorpreso dall'intraprendenza della ragazza, sulle prime pensò che questa fosse rimasta attratta dalla sua bizzarria e che non fosse abituata a vedere uno straniero non più giovane venire in quel posto da solo e scrivere ogni sera senza curarsi di nulla, ma poi spostò i suoi pensieri sul significato della domanda. Quel "Ma che cos'hai tu da scrivere così tanto ogni volta?" forse andava interpretato in "Perchè scrivi tanto tu?". La questione non era sul "cosa", ma sul "perchè". Già, perchè?

Lo spagnolo aveva sentito dire che scrivere fosse un atto simile al parto, perché permette di dare forma all’informe e rendere fruibile all’uomo ciò che arriva direttamente dal mondo platonico delle Idee e quindi da ciò che non è umano ma divino. Chissà, forse perché lui era maschio e poteva conoscere le gioie e i dolori della maternità solo per via indiretta come osservatore partecipe, la scrittura aveva iniziato ad esercitare  su di lui un fascino irresistibile, avendolo scoperto come un atto di creazione nel senso  accennato più sopra: trasformare il pensiero intangibile di un attimo fuggente in qualcosa di tangibile che lascia una traccia capace di arrivare ai sensi dell’altro, non solo per un istante effimero come fa la parola, ma addirittura di sopravvivere alla morte.

Probabilmente c'era molto di vero in questo, ma in quelle sere lui scriveva per altro: avrebbe voluto rispondere più o meno così alla bella boema: "Per sopravvivenza. Per necessità di pulire la psiche dai troppi pensieri che altrimenti diventerebbero nella mente come una specie di criceto che corre all'impazzata su di una ruota e questo movimento isterico e senza sfogo finirebbe per togliermi ogni energia fino a farmi esaurire completamente, se non scagliassi con forza questi pensieri su di un foglio vuoto. In realtà "mia cara" mi piacerebbe molto spiegarti anche che ogni volta quando mi passi davanti e ti pieghi verso di me o di lato e permetti alla mia vista di intuire la pienezza e la tonicità dei tuoi seni che la camicetta, benché abbottonata, non riesce ad occultare e vorrei dirti anche quanto tu riesca a sollecitare il mio istinto animale a cui farebbe piacere assai toglierti d'impeto ogni impedimento che ostacola la tua fisicità a prorompere all'aperto." 

Il quesito adesso era: accettare o meno l'invito della cameriera a fornire, finito il turno, le adeguate risposte alla sua domanda, escluso il lunedì perché c'era il suo ragazzo?

Rubén si alzò dal tavolo, lanciò un ultimo sguardo alla vista mozzafiato della capitale boema ora illuminata nella notte, andò alla cassa, pagò il conto e prese l'ascensore per scendere a terra, attraversare la città vecchia e raggiungere il suo appartamento situato a Josefov, all'ultimo piano di un palazzo di fronte alla Sinagoga detta "Spagnola", farsi una bella doccia gelata per raffreddare tutti i criceti, ovunque questi si agitassero, e poi fumando il solito sigaro cubano sorseggiando un bicchiere di rum invecchiato seduto sulla terrazza del suo appartamento, decidere se accettare quell'inaspettato quanto pericolosissimo invito. Sicuramente non il lunedì.






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