Per gli adolescenti maschi nati nella seconda metà degli anni '60 la vita era particolarmente dura a Cividale del Friuli - ed in genere in tutte le cittadine e i paesi di provincia del Friuli - per la soddisfazione degli ormoni in fermento durante il decennio '80, tutti "vittime" più o meno inconsapevoli del contesto geopolitico del tempo, ancora sotto l'influsso degli effetti della "guerra fredda" e della contrapposizione est-ovest.
Quel "dannato" contesto faceva si che in Friuli fossero dislocati i 2/3 dell'Esercito Italiano al tempo della leva obbligatoria: in parole povere una presenza fissa di circa 200.000 ragazzi in grigioverde in una Regione di un milione e 200 mila anime, rapporto che nella fascia di confine si faceva ancora più incisivo, come nella "mia" Cividale, dove la presenza di 4 caserme nel territorio comunale dava alloggio a quasi 3.000 "stellette" su di una popolazione di 11.000 abitanti.
Voglio essere ancora più preciso e "scientifico": in una popolazione di 11.000 abitanti, divisi equamente tra maschi e femmine, il "segmento" di ragazze tra i 16 e i 22 anni era circa il 15% del totale, per cui 750 (per eccesso) la sua consistenza; numero destinato a calare ancora, se dovessimo escludere dal campione quelle, diciamo, non proprio attraenti agl'occhi dei maschi adolescenti del periodo.
Insomma, come ci spiegavano bene a scuola le teorie economiche di Adam Smith, la sproporzione tra l'offerta (femminile) e la domanda (maschile) era talmente significativa (si può facilmente parlare di 1 a 6), per cui il "prezzo" di una conquista era talmente alto da mettere "fuori mercato" una bella fetta di "locali".
Situazione resa ancora più critica da un'ambiente culturale ancora ammantato da una morale cattolica difesa da almeno 6 parrocchie nel territorio comunale, con una densità di chiese per abitante quasi simile alla Città del Vaticano; e si sa quanto quella morale potesse (non) dare slancio ai rapporti pre-matrimoniali, soprattutto nel mondo femminile!
Insomma, la tempesta perfetta per far atrofizzare gli ormoni impazziti di giovani maschi adolescenti.
Confinati in un angolo dimenticato d'Italia, con quasi nulla la mobilità, con una frontiera che più che un passaggio era un capolinea, con bar e pizzerie occupate "militarmente" tutte le sere della settimana, i luoghi di aggregazione lontano da mamma papà e di svago per noi maschietti nel dopo scuola erano quasi esclusivamente i campetti e lo sport (calcio e basket per lo più).
In anni in cui la pratica sportiva sembrava una faccenda "per soli uomini" per "approcciare" una ragazza le opzioni oltre ai 10 minuti di ricreazione a scuola o il tragitto di ritorno verso casa finite le lezioni, rimanevano il Catechismo (sic!) o qualche "festino" organizzato in garage, taverna o cantina a casa di qualche coetaneo.
Insomma, come ha detto qualcuno, "gli anni 80' sono stati il Vietnam della FXXX".
Mi rendo conto di aver dato la versione, e la visione, di un "berretto verde" di quell'atroce conflitto, quindi assolutamente "di parte", tanto che oggi verrebbe probabilmente additata come sessista; ho voluto solo "parlare per esperienza diretta", perché mi piacerebbe anche conoscere come nell'altra metà del cielo venivano vissuti i richiami della carne e i sogni più romantici durante gli assalti a Saigon.
Non dev'essere stato facile neanche per i "Vietcong" in rosa, costrette a non uscire troppo di casa, a vestirsi cercando di nascondere anziché esaltare la propria femminilità per non fare incazzare i genitori o essere subito additate dai "benpensanti" come "poche di buono", combattere continuamente il senso di colpa che veniva instillato come la tortura della goccia dalla cultura dominante del tempo e una volta all'aria aperta dover affrontare anche sciami di maschi in cattività.
Bene, nel contesto che ho cercato di delineare, in un fine settimana di fine inverno 1986 un nostro coetaneo, irruppe nel locale in cui eravamo soliti ritrovarci per bere qualche birra, giocare a carte, o "rincoglionirci" con qualche videogame per ammazzare la noia e gli ormoni, per dare un annuncio sensazionale!
Con l'aria di chi aveva avuto la notizia direttamente da Eros in persona, con gli occhi iniettati di desiderio, come un naufrago che tocca terra o di uno che aveva vagato nel deserto senz'acqua per mesi alla vista di una cassa di acqua minerale ghiacciata annunciò: "Ci sono le svedesi a Bovec"!
Potete immaginare lo scompiglio che seguì a quella rivelazione straordinaria! Sembravamo gli Apostoli innanzi al ritorno del Messia risorto! E naturalmente, come fra tutti gli Apostoli che si rispettino, dopo i primi attimi di euforia collettiva si fece avanti il San Tommaso di turno...
"Ma dai! Ma dove?? Ma chi ti ha detto?? Le Svedesi in Jugo, ma dai.. ma chi ci crede!!"
I dubbi erano assolutamente legittimi e condivisibili: le svedesi - il sogno erotico di noi tutti berretti verdi - immaginate in quegl'anni tutte come bellissime amazzoni e, soprattutto dai costumi "generosi" e dalle abitudini "facili", cosa potevano mai farci a Bovec, in Jugoslavia, un luogo che ai nostri occhi resi strabici dalla propaganda e mai usciti dal nostro piccolo mondo antico, rappresentava l'arretratezza e l'oppressione della libertà.
Ma il nostro "Messia" fu molto convincente nella replica e riuscì anche quasi a convincere "San Tommaso", il quale alla fine, come il suo illustre predecessore, disse che si sarebbe unito a noi per "toccare con mano" la bontà dell'annuncio.
"Me l'ha detto un amico di San Pietro che l'ha saputo dal papà che per lavoro va spesso a Bovec: sono arrivate da poco per fare una settimana bianca, alloggiano in Hotel e la sera vanno nella discoteca del centro del paese: sono due classi di un loro liceo in settimana bianca!"
Non ci fu bisogno di aggiungere molto, dopo mezz'ora davanti a Vidussi, il tempo utile per correre a casa a prendere la "Prepusnica - Lasciapassare" io, San Tommaso, San Pietro e san Paolo eravamo pronti a salire nella macchina del Messia per immetterci nella valle dell'Isonzo una volta percorsa quella del Natisone e superato il valico di Robic.
Oggi potrà sembrare un banale trasferimento transfrontaliero, ma nel 1986 era un viaggio ai confini del mondo: statale scarsamente illuminata fino al valico, passati i controlli di confine da parte della Milica e dei Doganieri jugoslavi (spesso montenegrini) dagli sguardi torvi che filtravano sotto cappelli in cui troneggiava la stella rossa, ci si trovava per 40 km su di una strada buia, stretta, piena di curve che attraversava dopo Caporetto la valle dell'Isonzo incrociando solo qualche sparuto paesino, senza insegne luminose e con il costante pericolo che qualche capriolo potesse sbarrare il cammino.
Dopo quasi un'ora e mezza ci trovammo sulla porta della "discoteca" di Bovec situata in un edificio nella piazza principale della località di montagna ai piedi del Kanin.
Piazza deserta, illuminazione debole, qualche Zastava parcheggiata: proprio nulla che facesse pensare di essere prossimi ad un incontro con delle divinità nordiche, pareva di essere più sul set di "Frankenstein Junior" che su quello di "Saturday Night Fever".
"Siamo sicuri"? San Tommaso prese subito la parola dopo aver guardato con aria sconsolata la piazza in ogni direzione.
"Ormai ci siamo, ancora un po' di pazienza!" Disse piccato il Messia avanzando verso l'ingresso della discoteca: un normale uscio di abitazione privata riconosciuto come tale solo per la presenza dell'unica e rassicurante insegna luminosa accesa in quel momento e dal nome eloquente "DISKO".
Erano quasi le undici quando il Messia bussò alla porta di quel ventilato Paradiso e ad aprire si presentò una specie di Caronte che, con sguardo solo poco meno torvo del doganiere montenegrino ci passò in rassegna e senza proferire parola, con un gesto del capo c'invitò pagare il ticket alla cassa, situata in una nicchia dietro di lui.
Il biglietto con consumazione, dal modico valore, venne pagato in lire alla cassiera, una specie di versione balcanica di Mortissia Adams, anch'essa assai poco friendly e incastrata quasi per miracolo nella piccola nicchia.
Una volta muniti del biglietto Caronte, sempre con un cenno del capo c'invitò a scendere le ripide scale che scendevano davanti a noi e dai cui arrivavano i suoni della classica disco music occidentale in voga durante quegl'anni, cosa che per un attimo rinforzò la speranza che, al termine di quella discesa ci saremmo trovati nel "Nordico Paradiso".
Fu un attimo. In Paradiso si sale, non si scende.
Dopo l'ultimo dei gradini, superato un piccolo atrio inondato di fasci di luce multicolore, con la musica che si faceva sempre più assordante si aprì ai nostri occhi la vista della balera.
Un piccolo bancone bar sulla destra, dietro al quale c'era la versione più giovane - e più annoiata - della Mortissia incontrata alla cassa e uno stanzone semibuio di una cinquantina di metri quadri - illuminato ad intermittenza da luci colorate - in cui al centro si muovevano dinoccolati un paio di uomini sulla trentina e intorno seduti con il bicchiere in mano una ventina di sagome, per lo più di sesso maschile.
Gli amanti di Zagor avrebbero subito riconosciuto "La Taverna del Gufo".
Gli sguardi si rivolsero tutti verso quello del Messia.
Al tempo Germano Mosconi era solo uno sconosciuto giornalista di Tele Nuovo Verona, ma a suo insaputa qualcuno lo superò con molti anni d'anticipo quanto a turpiloquio e contumelie.
Fu costretto a pagare ripetuti giri di superalcolici in quel girone dantesco, con i quali cercammo di sbollire la delusione e dare comunque "un senso" alla serata, prima di affrontare assai pericolosamente alticci il rientro a Cividale del Friuli.
A cui arrivammo alle quattro del mattino, dopo una lunga sosta nella "Terra di Nessuno" tra la dogana jugoslava e quella italiana, dove imposi a San Tommaso, che aveva sostituito alla guida il Messia, di accostare per permettermi di regalare alla Madre Terra il sovrappiù della bevuta che la sua modalità di guida stile Rally delle Alpi Orientali tra le ripetute curve del tratto Bovec-Kobarid, aveva reso improcrastinabile.
E a causa della successiva ispezione a cui venimmo sottoposti dagli italici Finanzieri, insospettiti dall'orario e dalla lunga sosta in quel luogo improbabile o forse solo desiderosi di ravvivare la loro noiosa nottata in quel luogo sperduto o più probabilmente di dare una lezione a quattro giovani deficienti.
Povero Messia, era solo in anticipo sui tempi.
Venticinque anni dopo le svedesi le incrociammo per davvero facendo rafting a Bovec, che nel mentre non è più il paese ospitante il castello del Dottor Frankestein, ma un luogo assai frequentato e conosciuto in tutta Europa per il campeggio e la pratica degli sport estremi.
Specialmente nei paesi nordici.