Viktor avanzava tra le rovine di via Myru come se camminasse dentro una fotografia in bianco e nero: ogni colore era stato divorato dalla guerra; il verde degli alberi, il blu dei balconi, il rosso delle insegne: tutto spento, grigio, polvere.
Solo mura scheggiate e costruzioni crollate, in un silenzio pesante che sembrava soffocare ogni speranza. Viktor camminava tra le rovine, le gambe stanche, la mente immersa in un buco nero di pensieri e ogni passo lo portava più lontano dalla sua vita precedente, quella di quando a Kyiv, qualche mese prima, pensava che tutto fosse ancora possibile.
Ora c'era solo la guerra, e la guerra non faceva domande, non si fermava mai e non chiedeva permesso, non ti dava il tempo di riprenderti.
Viktor aveva imparato a convivere con quel rumore costante in sottofondo: il boato delle esplosioni, il fruscio dei missili che sibilavano nell'aria, l'eco lontano dei colpi. Le sue orecchie ormai non rispondevano più al suono della guerra, ma il cuore, quello, non riusciva a smettere di battere forte. Ogni battito era un ricordo che tornava a galla, una domanda senza risposta.
Aveva imparato a non guardare troppo a lungo, né le case, né i volti; le cose guardate troppo a lungo in guerra si portano dietro e lui portava già abbastanza.
Fu tra i detriti di una panetteria che vide la bottiglia.
Una bottiglia semplice, di vetro trasparente, senza tappo, senza etichetta ma intera; era lì beffarda, in piedi, appoggiata tra due mattoni, come dimenticata da Dio e risparmiata dal diavolo.
Viktor si fermò. Per un attimo, tutto intorno sembrò muto. Neppure il suo respiro arrivava alle orecchie. Solo quella bottiglia.
Si chinò. La prese in mano come si tiene un uccellino appena caduto dal nido.
Fredda, liscia, perfetta. Fragile.
Intatta.
Pensò: “E io?”
Lui era ancora in piedi, sì; respirava, mangiava quando poteva e parlava poco ma dentro non era più intero. Aveva cominciato a spezzarsi lentamente: quando aveva visto la madre di Oleg morire dissanguata tenendosi il ventre, quando aveva spinto via un vecchio da una coda per l’acqua e quando aveva desiderato con tutte le sue forze che qualcun altro morisse al posto suo.
La guerra non lo stava uccidendo. Lo stava trasformando.
Aveva cominciato a odiare.
Prima i russi, con ferocia cieca, poi quelli che erano scappati, poi quelli che mandavano aiuti e si sentivano a posto, poi chi parlava di “resilienza” e infine… se stesso.
La fissò a lungo. Quasi con rabbia. Le venne da chiedersi se fosse vera o fosse una specie di provocazione del destino, come dire: “Guarda, qualcosa può ancora restare intero. Solo tu no.”
E allora la lanciò.
La bottiglia volò per un secondo, poi si ruppe con un suono chiaro, secco, come un grido breve. Andò in mille pezzi, sparsi sul cemento mentre alcuni scomparvero nella polvere.
Si chinò e raccolse uno dei frammenti più grandi e vi si specchiò: il suo viso era lì, distorto, tagliato. Irriconoscibile.
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