giovedì 23 ottobre 2025

C'ERA UNA VOLTA LA TRATTORIA FRIULI

C'era una volta una vecchia trattoria, si chiamava Friuli, ed era stata inaugurata nel settembre di un anno horribilis per quelle contrade: il 1976.

Il proprietario in poco tempo azzeccò il cuoco capace di usare gli ingredienti giusti per cucinare piatti saporiti che, con grande soddisfazione dei clienti, vide salire il livello fino alla menzione nelle guide nazionali della ristorazione.

La trattoria necessitava di adeguamenti per reggere ora il peso del livello acquisito e mantenerlo e, così, il proprietario cedette la mano ad una famosa società locale dai grandi mezzi economici, e questa iniziò ud abbellirlo ed ingrandirlo nelle strutture, e puntò su piatti da cucinarsi con ingredienti di pregio internazionale, allargando la clientela e puntando a finire nelle guide europee, non solo nazionali e a diventare addirittura stellato!

Dopo pochi anni però, la società proprietaria aveva ben altre gatte da pelare in casa sua che continuare a finanziarie la politica espansiva e assai dispendiosa del ristorante che, nonostante gli ingredienti pregiati i cuochi prescelti, italiani e stranieri, non riuscivano a far decollare e così regalò l'azienda al suo direttore come liquidazione.

La qualità dei piatti continuava a peggiorare, il "nuovo" proprietario non aveva più le risorse per mantenere il livello, si fece qualche "maneggio" per riuscire a reggere, ma alla fine, sull'orlo della bancarotta e con il declassamento nelle guide Michelin, cedette a sua volta ad un nuovo proprietario, un friulano tutto d'un pezzo.

I clienti locali nonostante tutto, si mantenevano sempre affezionati al loro ristorante di fiducia.

Il nuovo proprietario ci mise un po' a capire come andava il mercato, all'inizio si affidava a cuochi ed ingredienti di pregio, ma al limite della scadenza e così la clientela, sempre affezionata, si dovette accontentare di menù di seconda categoria con qualche episodico pranzo di livello.

Poi, sfruttando le nuove regole del mercato, trovò la formula magica per far decollare l'attività: cuochi semisconosciuti e di grande talento e pietanze anch'esse poco note e provenienti da ogni angolo del mondo che riuscivano a stupire la concorrenza e guadagnare posizioni nelle guide nazionali e per la prima volta anche europee.

La clientela ne fu estasiata. 

Ma il proprietario scoprì presto che poteva brevettare i piatti e cederli alle multinazionali della ristorazione e guadagnarci un bel po' e fu così che si dedicò solo alla gestione del ristorante Friuli, ben coadiuvato dai suoi familiari.

Per molti anni riuscì a mantenere alto il livello qualitativo  - pur cambiando cuochi, ingredienti e menù -  soddisfare gli affezionati clienti locali e guadagnarci un bel po' di denari, tanto da attrarre spesso le attenzioni del Fisco, non convinto della fedeltà delle dichiarazioni dei redditi dell'azienda.

Le cose funzionavano talmente bene che pensò di replicare il modello ristrutturando in Spagna ed Inghilterra vecchie trattorie, acquisendone la proprietà, ed iniziando a scambiarsi i cuochi e le pietanze all'interno della catena creata.

Il cibo ed i menù non ne guadagnavano in qualità, ma i profitti salivano e i clienti, soprattutto quelli friulani non smettevano di frequentare il ristorante Friuli, come fedeli che non disertano mai la Messa della domenica, anche quando o se la Fede vacilla.

Ad un certo punto il proprietario, all'apice della popolarità per la capacità di mantenere ai massimi la qualità del prodotto dimostrata  dal cuoco del tempo nel mescolare sempre al meglio le pietanze note, ma soprattutto meno note, che venivano rifornite ogni anno da ogni dove, decise che la struttura del ristorante era antiquata e sentiva il peso del tempo.

Decise che era ora di rinnovarlo completamente, rifacendolo da capo a piedi e cambiandogli pure il nome, "brandizzandolo" con una marca automobilistica prima e con una multiutility energetica poi per adeguarlo al mercato ed aumentare i ricavi e così, in un paio di anni, con tenacia tipicamente friulana di superare tutte le ardue prove imposte dall'italica burocrazia, il risultato fu un vero e proprio gioellino, un ristorante di lusso.

Da lì in poi, invece, la qualità del prodotto divenne sempre più scarsa, nonostante una girandola di cuochi assunti in Italia e all'estero per trasformare, come era riuscito in passato, "il piombo in oro".

L'operazione è perfettamente andata a buon fine a livello contabile, mentre è risultata indigesta per i clienti che si sono visti propinare ogni anno, immancabilmente e nonostante le promesse di rilancio, cibi sempre più scotti e insipidi, fino a rischiare il declassamento.

Nonostante questo, non è cambiata la fedeltà: qualche mugugno, ma sempre "presenti" alla messa della domenica o del venerdì, del sabato e del lunedì, visto che nel tempo i ristoranti possono aprire quando vogliono e neanche tutti alla stessa ora, per le mutate regole di mercato.   

La proprietà, di fronte agli sparuti brontolii e  maldipancia di qualche cliente meno bonario, fa spallucce e dice: "O mangi questa minestra o salti la finestra", perché diversamente non si può fare con la concorrenza che c'è e anzi, bisogna essere orgogliosi di essere, con la sua gestione, da più di trent'anni clienti fissi di un ristorante di lusso stabilmente elencato nelle guide Michelin.

Nonostante tutto.

Morale della favola, se c'è una morale: la proprietà non guadagnerà mai una stella Michelin, nè in Italia nè altrove, ma sicuramente merita il premio Nobel per l'economia.

Chapeau. 

E i clienti?




giovedì 16 ottobre 2025

L'ULTIMA SBERLA


Sono nato a metà degli anni ’60 in Friuli e come gran parte dei miei coetanei, l’infanzia e la prima adolescenza si sono svolte assieme ad un compagno di viaggio molto presente quanto indesiderato: la sberla. In famiglia, all’asilo e alla scuola elementare erano “espedienti” considerati assolutamente “politically correct”  per l’educazione dei giovani virgulti.

Questa compagnia, almeno in famiglia, è stata indiscussa almeno fino ai primi anni 90, mentre nelle istituzioni scolastiche, dopo la rivoluzione studentesca e giovanile del ’68, la pratica si era ridotta drasticamente fino a scomparire in  pratica del tutto già  a metà degli anni ’70.

Ogni volta che si contravveniva ad una richiesta (ordine) dei genitori o dei maestri o si combinava qualche “disastro” che poteva mettere in cattiva luce il buon nome della famiglia o dell'istituzione nel suo contesto di riferimento – la sberla era inevitabile come la caduta delle foglie in autunno.

Naturalmente forza e localizzazione della sberla – sedere o volto – variava a seconda dell’importanza dell’infrazione in base alla diversa scala valoriale vigente nella famiglia di appartenenza.

Che questa pratica, appannaggio esclusivo dei padri fosse da rivedere, attesi i risultati comunque insoddisfacenti in termini di rispetto delle regole, dev’essere iniziato a serpeggiare ad un certo punto anche tra gli stessi papà, considerato che mio fratello, nato invece all’inizio degli anni ’70 si prese un decimo degli schiaffoni che miravano a fare di me una persona adulta ed educata, raddrizzando i comportamenti ritenuti disfunzionali per la morale del tempo.

E non perché lui  fosse più ligio alle regole o rispettoso dei divieti  rispetto a me.

Quando la mia generazione a sua  volta si è trovata a ricoprire il difficile ruolo di genitore, probabilmente memore di quanto male ci hanno fatto quelle grandinate di sberle inflitte dal nostro Pater Familias  - oggi termine divenuto politicamente scorretto e sostituito dal più benevolo anglicismo Care Giver   - le abbiamo bandite del tutto e spinte sul bordo del Codice penale.

Sia chiaro, la finalità di questo scritto non vuole essere un Ode nostalgica al tempo della Sberla che, a posteriori, ritengo mi abbiano recato più danni che benefici ma fare solo la fotografia di un’epoca  e confrontarla, lasciando un ricordo personale a chi è interessato a guardare sotto la superficie del presente.  

Quei ceffoni non facevano male fisico, quello se ne andava in fretta: erano vere e proprie ferite dell’Anima che facevano fatica a guarire perchè inferte da chi invece ti aspettavi riconoscimento e qualche carezza.

Detto questo non mi sento una vittima, e non ho mai smesso di voler bene a mio Padre perché con il tempo ho capito che ciò che oggi sconfinerebbe nel codice penale e sarebbe di sicuro socialmente inaccettabile, per lui non solo era un normale stile educativo, ma per di più quello che riteneva il migliore e più efficace per me.

Ciascuno è figlio del suo tempo.

Nel mio, da genitore, memore di quante ne abbia prese e del male che mi hanno fatto tutte quelle sberle, non sono mai riuscito ad alzare le mani od alzare la voce nei confronti di mio figlio e invece ho sempre cercato di praticare l’arma della persuasione.

Oggi mi domando se lui, al contrario, da me si aspettasse qualche sberla e oggi mi biasima per non averlo fatto.

Come mio padre – e come tutti i padri prima e dopo di lui -  se ho sbagliato, l’ho fatto pensando di fare del bene. Un “classico” insomma.

Alla fine, rileggendo un adagio secondo cui “l’estrema risposta ad una stronzata è anch’essa una stronzata” mi sono detto che i genitori di ogni epoca sono attesi dallo stesso destino: possono cambiare i metodi, restano errori ed inadeguatezze per ciò di cui invece hanno bisogno i figli, che nascono e crescono in un altro tempo.

Chiudo svelando il perché del titolo, per dimostrare quanto mio padre fosse convinto dell’utilità delle Sberle.

L’ultima me la tirò in pieno volto una sera di agosto dell’anno domini 1984, quando avevo già compiuto 18 anni da qualche mese: appena varcata la soglia di casa, puntuale per la cena, tutto contento, lui senza dire nulla, mi sferrò il ceffone prima ancora che potessi dirgli “ciao”.

Perché?

Perché suo papà – mio nonno – gli aveva riferito, accusandolo di non essere stato in grado di “crescere bene” un figlio, di avermi visto andare a fare la comunione in duomo indossando una canottiera gialla.

Era tutto vero, canottiera acquistata nello stesso pomeriggio in cui avevo concluso un mese da operaio in una verniciatura del manzanese – lavoro estivo “in nero” dopo la promozione scolastica con ottimi voti, utilizzando il guadagno di quell’occupazione che si svolgeva ben prima della vigenza della normativa sulla sicurezza sul lavoro.

Confesso che la vera vertigine è accorgersi che la propria infanzia e la propria giovinezza, rilette alla luce delle leggi odierne, si sarebbero svolte — in famiglia, al lavoro e nel tempo libero — tra infrazioni assortite del codice penale.

E pure aggravate e continuate.

lunedì 13 ottobre 2025

VIRTUS, NON VIRUS

Roma, ottobre. Le ottobrate coloravano la città di oro e polvere. I sampietrini riflettevano la luce come se custodissero storie di coraggio e mediocrità. Andrea camminava verso il bar con passo deciso, l’aria piena di convinzione.

Il professor Balestri sedeva al suo solito tavolino del solito bar di Via del Governo Vecchio. Caffè nero e anni di osservazioni, sorridendo con ironia. L’aveva conosciuto dieci anni prima, quando Andrea era ancora un ragazzo ossessionato dagli appunti perfetti e dalle citazioni giuste. Ricordava le lezioni dove lui di colpo interrompeva tutto per raccontare un aneddoto assurdo, e Andrea, pur esasperato, rideva sempre, un po’ vergognandosi.

«Professore, ho deciso. Me ne vado. In India.»

Balestri sollevò appena lo sguardo.
«India? Ottima scelta, dove i sogni hanno fuso orario diverso dal resto della vita. Stai attento però al caffè, smbra non lo facciano troppo buono.»

«Non scherzi. Io voglio purezza. Qui non si cambia niente. Tutto è compromesso dai mediocri e dai raccomandati. Voglio una vita pura, assoluta. Silenzio, disciplina, spiritualità. Io voglio cambiare il mondo, ma cambiare davvero, farne un posto migliore, e non lo si fa con le mezze misure.»

Il professore accennò un sorriso.
«Ah, il mondo. Quell’invenzione che sopravvive nonostante tutti noi. Tu pensi che fuggire sia l’alternativa nobile a un mondo ingiusto. Io ti dico che è lo stesso gioco, solo dall’altra parte della scacchiera.»

Andrea si fece serio, quasi impaziente.
«No, professore, non è lo stesso. Lei confonde la resa con la scelta. Io non scappo: mi sottraggo. È diverso. Voglio ritrovare una purezza che qui è impossibile. Qui tutto è compromesso: si deve fingere, sorridere, negoziare. Io non ci sto! Basta concorsi truccati, colloqui inutili, ipocrisie: non voglio essere più giudicato solo in base al cognome o dalle conoscenze.».»

Il professore sorrise appena, con quell’aria indulgente che può irritare più di mille parole.
«Il compromesso, caro Andrea, non è una resa. È la forma più umana della coesistenza. Lo so, suona poco eroico. Ma la storia non la fanno gli eroi che bruciano, la fanno gli uomini che restano. Quelli che ogni giorno tentano di capire l’altro senza rinunciare a se stessi.»

«Ascolti, professore. Guardi la storia: nel 1992, avessi avuto la sua età, sarei stato sempre con Di Pietro. Mai con Craxi. Mai con Andreotti. Mai con i compromessi dei Democristiani. Quelli non cambiano nulla. E voi cosa avete fatto invece? Tutti con Berlusconi! Slo i rivoluzionari, quelli che non hanno paura di perdere tutto per un ideale, possono cambiare la storia, solo puntando all’assoluto si può migliorare il mondo.»

Balestri ridacchiò, con ironia pungente.
«Ah, i giovani! Sempre convinti che il mondo cambi in fretta e che la purezza sia la via. Ma vedi, Andrea, anche Di Pietro, non solo i democristiani,  aveva dei compromessi, e persino i rivoluzionari devono ogni tanto mangiare, respirare, sopravvivere…»

Andrea alzò la voce, ma senza rabbia: convinzione pura.
«Non parlo di sopravvivere! Parlo di cambiare le regole, di rischiare tutto per un ideale! Non si tratta di vivere tranquilli. Si tratta di lasciare una traccia vera, di costruire qualcosa che resti!»

Il professore fece un gesto teatrale con la tazzina, come per dire “ascolta bene”.
«Ecco il tuo errore: credi che tutto debba essere bianco o nero. Roma stessa è un compromesso di secoli, eppure eccola qui. Se tutto fosse assoluto, probabilmente non sarebbe sopravvissuta.»

Andrea scosse la testa.
«Io non voglio la sopravvivenza tiepida. Voglio rivoluzione, purezza. Voglio l’assoluto.»

Balestri sorrise, ma con una punta di malinconia.
«Bravo, ragazzo. Solo che la rivoluzione senza respiro quotidiano è fanatismo. Il coraggio non è solo abbracciare l’estremo, ma anche vivere tra le contraddizioni, ascoltando e rispettando l'altro senza rinunciare a sé. Vedi, il mondo cambia grazie a chi resta, ogni giorno, fedele a piccoli gesti.»

Andrea guardò la piazza dorata dalle ottobrate.
«Io continuerò a puntare all’assoluto. Il compromesso mi sembra vigliaccheria. Qui non c’è spazio per chi lavora, studia, si impegna. Conta solo chi ha la spinta giusta, chi sa a chi sorridere. Io non voglio più far parte di questa farsa. »

Il professore accennò di nuovo un sorriso, ma questa volta era decisamente ironico, come chi ha già visto quella stessa scena recitata mille volte da altri giovani.

«Ti dirò una cosa che non ti piacerà: l’estremo opposto di una stronzata è anch’esso una stronzata.»

Andrea scosse la testa, contrariato.
«Lei riduce tutto a battute, come sempre. Ma ci sono momenti in cui bisogna scegliere da che parte stare.»

«E chi ti ha detto che non si possa stare nel mezzo senza essere vigliacchi?» ribatté Balestri.
«La via di mezzo è la più difficile. Richiede equilibrio, ascolto, disciplina. Gli estremi sono comodi: o tutto o niente, o si ama o si odia;  vivere invece tra il tutto e il niente… quello sì, è un lavoro da adulti. Faticoso, umile, incessante. E ti dirò -  continuò  Balestri - che vigliaccheria o coraggio, a volte la differenza la decide il tempo, e guardati bene in giro: Roma ti insegna che compromesso, se fatto con saggezza, può diventare una forma di eroismo.»

Il giovane restò in silenzio rabbioso, mentre la città respirava intorno a loro, tra luce dorata, foglie che cadevano e storia che non smetteva di esistere. L’assoluto di Andrea non era meno vivo, ma forse ora sembrava meno solo, sospeso tra idealismo e realtà, tra rivoluzione e vita quotidiana.

Dal vicolo arrivava l’eco di un violinista che suonava Yesterday. Roma respirava piano, col fiato lungo di chi non smette mai di recitare se stessa.

Il professore si alzò, lentamente.
«In medio stat virtus, Andrea. E bada bene: virtus, non virus. La mediazione non contagia, cura, se hai voglia di guarire; è una specie di medicina, brucia solo un po'.»

Andrea infine sorrise, ma il sorriso gli uscì amaro.
«Lei si accontenta.»
«No, io persisto. È diverso. Sai qual è la differenza tra un idealista e un uomo libero? L’idealista vuole cambiare il mondo mentre l’uomo libero vuole capirlo, e semmai, migliorarlo un poco, quando può.»

Nel mentre, non curante di tutto questo, Roma continuava ad essere città eterna, incanto di uomini e di dei, inno perpetuo di nobiltà e miseria.

venerdì 10 ottobre 2025

LA NOTTE IN CUI CIVIDALE DIVENNE PRAGA

La notizia della morte di Paolo Bonacelli, avvenuta a Roma lo scorso 8 ottobre, ha avuto l’effetto di far riemergere dalle profondità del cervello limbico il ricordo di una strepitosa – per il mio gusto estetico – serata “andata in scena” il 17 luglio 1999 a Cividale del Friuli, durante l’ottava edizione di Mittelfest, quella dedicata a La via dell’Ambra.

I più collegheranno il volto e la voce dell’attore scomparso – 88 anni – alle interpretazioni della sua lunga carriera, guidata dai più famosi e ispirati registi italiani: Ettore Scola, Michelangelo Antonioni, Pier Paolo Pasolini, Nanni Loy, Roberto Rossellini, solo per citarne alcuni. Oppure, i più giovani e “meno impegnati” lo ricorderanno nei panni dell’avvocato D’Agata, al fianco di Roberto Benigni, nel fortunatissimo Johnny Stecchino.

Perché tutta questa “memoria” mi è arrivata dopo rispetto a quanto scritto in apertura?
Perché la voce di Paolo Bonacelli dava il via all’evento-spettacolo itinerante Praga Magica, ideato da Giorgio Pressburger e Mimma Gallina come apertura di Mittelfest 1999. Nei miei ricordi fu il momento più riuscito di tutta la storia del festival cividalese – opinione assolutamente personale, beninteso, visto che la critica del tempo non fu altrettanto entusiasta nei confronti dell’opera, dopo aver invece celebrato Danubio, altro evento itinerante pensato sempre da Pressburger per far vivere il libro di Claudio Magris, utilizzando “il fiume” di spettatori che si muoveva nei vari siti della città ducale.

Ancor oggi, ogni notte, alle cinque, Franz Kafka ritorna a via Celetná (Zeltnergasse), a casa sua, con bombetta, vestito di nero. Ancor oggi, ogni notte, Jaroslav Hašek, in qualche taverna, proclama ai compagni di gozzoviglia che il radicalismo è dannoso e che il sano progresso si può raggiungere solo nell’obbedienza. Praga vive ancora nel segno di questi due scrittori, che meglio di altri hanno espresso la sua condanna senza rimedio, e perciò il suo malessere, il suo malumore, i ripieghi della sua astuzia, la sua finzione, la sua ironia carceraria…”

Molti avranno riconosciuto l’incipit del libro Praga Magica di Angelo Maria Ripellino, che Giorgio Pressburger aveva cercato di far vivere a Cividale, trasformando la città ducale nella Praga descritta dallo scrittore palermitano.
Quelle parole scritte dall'autore attraverso la voce di Paolo Bonacelli, accompagnata dalle note della Vltava di Smetana, giunsero agli spettatori che si accalcavano, al buio, a testa in su sul Ponte del Diavolo – divenuto per una notte il Ponte Carlo della capitale boema – mentre un funambolo lo attraversava su una fune tesa tra Borgo di Ponte e Piazza Duomo.

Vi posso assicurare che fu un momento davvero magico, anche per chi – come il sottoscritto – ebbe la ventura di essere al tempo assessore alla Cultura e membro del Consiglio di amministrazione dell’Associazione Mittelfest, e per questo a conoscenza di quante e quali richieste tecnico-organizzative, costi economici e responsabilità amministrative si nascondessero “dietro le quinte” di quell’evento.

Ne valse la pena.

Voglio “regalare” al lettore un solo aneddoto, per far intuire cosa significasse lavorare con Giorgio Pressburger. Lo spettacolo, nella “testa” del suo ideatore, doveva concludersi con la rievocazione dell’arrivo dei carri armati russi a Praga la notte del 20 agosto 1968, giunti a stroncare la famosa “primavera”. Giorgio voleva a tutti i costi far sfilare un carro armato vero su Largo Boiani fino a Piazza Duomo, e non c’era verso di fargli capire che la cosa era “troppo difficile”. Neppure il fatto che il Comando di Corpo d’Armata di Padova fosse stato interpellato – con esito chiaramente negativo – riusciva a placare la sua idea che “gli si volessero mettere i bastoni tra le ruote”, e che senza quella scena lo spettacolo non si sarebbe potuto chiudere degnamente.

La “salvezza” arrivò dalla scoperta che un tipo di Lubiana partecipava come stuntman in diverse produzioni, con la caratteristica di trasformarsi in torcia umana. La mente di Pressburger lo trasformò allora nel tragico rogo di Jan Palach, che nel gennaio 1969 si diede fuoco in piazza Venceslao per protestare contro l’occupazione sovietica.
Lo stuntman sloveno arse davanti al Duomo mentre un pallone-mongolfiera, rappresentante una luna benevola, si innalzava in Piazza Duomo portando con sé un’attrice vestita di bianco. Così, verso le due del mattino, lo spettacolo terminò: la magia si esaurì e Cividale si tolse i panni della capitale boema che aveva rivestito per una notte.

Gli eventi itineranti ideati da Giorgio Pressburger per far vivere pagine importanti della letteratura mitteleuropea furono, in quegli anni, il tratto distintivo di Mittelfest. Col tempo vennero abbandonati, perché i costi – e soprattutto le normative in tema di sicurezza – ne rendevano praticamente impossibile la realizzazione.
E mettiamoci pure Giove Pluvio, mai troppo benevolo con le estati cividalesi e il festival in particolare: esporre il budget importante di un evento non replicabile al rischio di annullamento al debutto o durante le prove non era più accettabile.

Peccato.

Chiudo lasciando la scheda dell’evento, tratta dal sito ufficiale dell’Associazione Mittelfest, per far immaginare al lettore cosa fu Praga Magica.


Praga Magica

Ispirato all’opera di Angelo Maria Ripellino
Un progetto itinerante di Mimma Gallina e Giorgio Pressburger
Coordinamento registico: Giorgio Pressburger e Sabrina Morena
Elementi scenografici di Andrea Stanisci
Narratore: Paolo Bonacelli
Coproduzione Mittelfest, Teatro Verdi di Trieste
ITALIA – TEATRO
Centro storico, spettacolo itinerante

Con gli interventi straordinari:

  • Ancora oggi, ogni notte alle cinque – a cura di Monica e Nanì Maimone (Piccola Cooperativa Kant), Piazzetta Zorutti

  • Al principe di Breslav. Il pellegrino – a cura di Gianfranco Evangelista (Moravske Divadlo Olomouc), Caffè San Marco

  • Osteria dei veleni. Švejk – a cura di Guido De Monticelli, Osteria ai Tre Re

  • Ai Due Agnelli. Kafka – a cura di Guido De Monticelli, Trattoria Alla Speranza

  • La vecchia signora. Voskovec & Werich – a cura di Ferruccio Cainero e Giovanni De Lucia (Teatro dell’Ingenuo), Arco Medievale

  • La maledizione della Montagna Bianca – a cura di Sabrina Morena, con Luciano Virgilio e Ester Galazzi, Piazza San Francesco

  • Rodolfo II – con Massimo Popolizio, Piazza Dante

  • Praga natura morta I e II – a cura di Jan Kratochvíl (Evropské Centrum Pantomimy Neslysicich Brno), Stretta della Giudaica

  • 20 agosto 1968 – con Rok Cvetkov e la Piccola Cooperativa Kant, Piazza Duomo

venerdì 3 ottobre 2025

ANONIMO RUSSO VS EUCLIDE 15-0

Il pomeriggio scivolava lento nella biblioteca della Sorbona, e la sessione autunnale di esami si avvicinava sempre più per Sophie Hubelle, ventunenne parigina studentessa di lingua e letteratura russa e Alexandre Dubois, ventiduenne di Nantes, al secondo anno di Ingegneria gestionale. Intorno a loro, libri e appunti erano sparsi sui tavoli, assieme a tanti altri giovani studenti e qualche professore dai capelli grigi.

Sophie, capelli castani raccolti in una treccia disordinata, sfogliava un’antologia di poeti russi dell’Ottocento, e i suoi occhi brillavano di passione e curiosità; di fronte, Alexandre, seduto rigido, era concentrato su uno studio di funzioni trigonometriche. Improvvisamente, la ragazza, a bassa voce, interruppe il compagno:

"Alexandre, senti qua! Lascia perdere quella roba astratta, senti la vita vera che pulsa!" ed iniziò a declamare, prima in russo e poi in francese:

Русский текст:

Теперь я знаю, что такое Жизнь.
Теперь я знаю, что такое Смерть.
И теперь что я знаю?

Теперь, когда я знаю,
слово потеряно.
Остаётся перо.

А потом?
Чёрное. Чёрное. Чёрное.
Как это чернило,
в котором я хочу утонуть.

Аноним, Белгород (?), 1891 (?)

Traduction

Maintenant je sais ce qu’est la Vie. (Adesso so cos’è la Vita.)
Maintenant je sais ce qu’est la Mort. (Ora so cos’è la Morte.)
Et maintenant, que sais-je? (E ora che so?)

Maintenant que je sais, (Adesso che so)
le mot est perdu. (la parola è perduta.)
Il reste la plume. (Rimane la penna.)

Et ensuite? (E poi?)
Noir. Noir. Noir. (Nero. Nero. Nero.)
Comme cet encre (Come questo inchiostro)
dans laquelle je veux me noyer. (in cui voglio annegare.)

Anonyme, Belgorod (?), 1891 (?)

Sophie, emozionata, chiuse lentamente il libro mentre il cuore le batteva forte.

"Che versi stupendi: le mot est perdu, ma resta la plume...  Non è disperazione, è resistenza. È un gesto eroico, di speranza, silenzioso, che sfida la morte."

Alexandre scrollò le spalle, il volto contratto, quasi infastidito:

"C’est une connerie totale! Tutto questo è una baggianata, un'illusione, il solito oppio per i sentimentali! La vita non si misura con l’inchiostro, la vita si vive, si affronta, si rischia, non si racconta. La scrittura non è vita, è rifugio, è comoda fuga dalle responsabilità."

"Vedi…" replicò Sophie, calma ma emozionata, "La parola è perduta, ma resta la penna. È resilienza. Chiunque l’abbia scritto, uomo, donna, giovane o vecchio, è un Eroe! La scrittura rende eterno ciò che siamo, quello che proviamo, ciò che ci sta intorno."

"Héroïsme? Ma per carità! No," replicò lui, la voce dura. "È fuga, ti ripeto. Questo autore o autrice dimostra solo di saper nascondersi nell’inchiostro, evita il confronto con la vita. Noir. Noir. Noir… questo affonda. Altro che Eroe! Ma per piacere..."

Non capisce… pensò Sophie, e volle insistere: "Non tutti i dolori si sanano con l’azione. La vita reale non può contenere tutto ciò che proviamo; la scrittura è il nostro spazio, l’unico luogo dove ciò che conta può sopravvivere."

Alexandre si appoggiò al tavolo, la fronte corrugata. "Persistance? Rester en vie? Sopravvivere? Forma? La vita è confronto, rischio, azione! Odori, profumi, sapori, suoni...esperienze sensoriali! Tout le reste, c’est du pipeau! Tutto il resto è aria fritta!"

"Du pipau?" ribatté Sophie, con voce vibrante. "È la forma più alta e nobile della resistenza! La scrittura mantiene vivo ciò che è morto, fissa un’assenza o una presenza, una gioia! Non è fuga, è vita che non si spegne!"

Da un tavolo vicino, Jean-Luc, uno studente di filosofia dai capelli arruffati e segretamente innamorato di Sophie - che aveva origliato tutto - sbuffò e si rivolse a Dubois con tono canzonatorio:

"Alexandre, Anonimo Russo-Euclide 15-0, battuta regolare! La vittoria dura poco: solo la sconfitta è per sempre! Point barre. Fin de l’histoire."

Alexandre lo fissò, irritato e sorpreso, mentre Sophie a fatica tratteneva un sorriso.

Fu allora che la voce calma e misurata del professor Henri Leclerc, seduto a parte con un libro di diritto penale, si fece sentire:

"Écoutez-moi un peu... Vedete, ragazzi, non avete ragione del tutto, né torto completamente. L’autore o autrice non è né solo vittima, né solo eroe. La scrittura è si rifugio, ma anche resistenza. Trasforma il dolore in forma, la perdita in memoria. Senza la scrittura, ciò che è vissuto svanirebbe; senza l’azione, però, la vita sarebbe vuota. Qui c’è chi sopravvive e chi trionfa sul tempo e sulla morte. La vita è sintesi di estremi: fuga e eroismo, dolore e creazione, assenza e memoria. Camminare sul filo degli opposti è ciò che la rende piena. Et voilà, c’est tout."

Sophie annuì, illuminata dalla comprensione. Alexandre serrò le labbra, pensieroso, accettando con scarsa convinzione e a malincuore la complessità della realtà, e si ributtò con più determinazione sullo studio delle funzioni trigonometriche, mentre Jean-Luc sorrise soddisfatto.

La poesia non era più solo un testo da analizzare: era diventata un incontro con un’anima sospesa tra sofferenza e creazione. In quel frammento di inchiostro noir, ciascuno di loro aveva trovato, a modo proprio, una scintilla di vita, una lezione sull’infinita oscillazione tra Vita e Morte.

Proprio come le oscillazioni di una funzione y= sen(x)

E mentre il sole calava, i tre studenti e il professore rimasero sospesi, consapevoli che la vita è sempre più complessa dei versi, eppure ogni parola scritta, ogni azione vissuta, lascia traccia nell’inchiostro e nel cuore.

O, almeno, di chi vuole e sa ascoltarlo.

Ça va sans dire.

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