Sono nato a metà degli anni ’60 in Friuli e come gran parte dei miei coetanei, l’infanzia e la prima adolescenza si sono svolte assieme ad un compagno di viaggio molto presente quanto indesiderato: la sberla. In famiglia, all’asilo e alla scuola elementare erano “espedienti” considerati assolutamente “politically correct” per l’educazione dei giovani virgulti.
Questa compagnia, almeno in
famiglia, è stata indiscussa almeno fino ai primi anni 90, mentre nelle istituzioni
scolastiche, dopo la rivoluzione studentesca e giovanile del ’68, la pratica si
era ridotta drasticamente fino a scomparire in pratica del tutto già a metà degli anni ’70.
Ogni volta che si contravveniva
ad una richiesta (ordine) dei genitori o dei maestri o si combinava qualche “disastro” che
poteva mettere in cattiva luce il buon nome della famiglia o dell'istituzione nel suo contesto di
riferimento – la sberla era inevitabile come la caduta delle foglie in autunno.
Naturalmente forza e
localizzazione della sberla – sedere o volto – variava a seconda dell’importanza
dell’infrazione in base alla diversa scala valoriale vigente nella famiglia di
appartenenza.
Che questa pratica, appannaggio
esclusivo dei padri fosse da rivedere, attesi i risultati comunque insoddisfacenti
in termini di rispetto delle regole, dev’essere iniziato a serpeggiare ad un
certo punto anche tra gli stessi papà, considerato che mio fratello, nato
invece all’inizio degli anni ’70 si prese un decimo degli schiaffoni che miravano
a fare di me una persona adulta ed educata, raddrizzando i comportamenti
ritenuti disfunzionali per la morale del tempo.
E non perché lui fosse più ligio alle regole o rispettoso dei divieti rispetto a me.
Quando la mia generazione a sua volta si è trovata a ricoprire il difficile
ruolo di genitore, probabilmente memore di quanto male ci hanno fatto quelle grandinate
di sberle inflitte dal nostro Pater Familias - oggi termine divenuto politicamente
scorretto e sostituito dal più benevolo anglicismo Care Giver - le
abbiamo bandite del tutto e spinte sul bordo del Codice penale.
Sia chiaro, la finalità di questo
scritto non vuole essere un Ode nostalgica al tempo della Sberla che, a
posteriori, ritengo mi abbiano recato più danni che benefici ma fare solo la
fotografia di un’epoca e confrontarla, lasciando
un ricordo personale a chi è interessato a guardare sotto la superficie del
presente.
Quei ceffoni non facevano male
fisico, quello se ne andava in fretta: erano vere e proprie ferite dell’Anima che
facevano fatica a guarire perchè inferte da chi invece ti aspettavi riconoscimento e qualche
carezza.
Detto questo non mi sento una
vittima, e non ho mai smesso di voler bene a mio Padre perché con il tempo ho
capito che ciò che oggi sconfinerebbe nel codice penale e sarebbe di sicuro
socialmente inaccettabile, per lui non solo era un normale stile educativo, ma
per di più quello che riteneva il migliore e più efficace per me.
Ciascuno è figlio del suo tempo.
Nel mio, da genitore, memore di
quante ne abbia prese e del male che mi hanno fatto tutte quelle sberle, non
sono mai riuscito ad alzare le mani od alzare la voce nei confronti di mio
figlio e invece ho sempre cercato di praticare l’arma della persuasione.
Oggi mi domando se lui, al contrario, da me si aspettasse qualche sberla e oggi mi biasima per non averlo fatto.
Come mio padre – e come tutti i
padri prima e dopo di lui - se ho sbagliato, l’ho fatto
pensando di fare del bene. Un “classico” insomma.
Alla fine, rileggendo un adagio
secondo cui “l’estrema risposta ad una stronzata è anch’essa una stronzata”
mi sono detto che i genitori di ogni epoca sono attesi dallo stesso destino: possono
cambiare i metodi, restano errori ed inadeguatezze per ciò di cui invece hanno
bisogno i figli, che nascono e crescono in un altro tempo.
Chiudo svelando il perché del
titolo, per dimostrare quanto mio padre fosse convinto dell’utilità delle
Sberle.
L’ultima me la tirò in pieno
volto una sera di agosto dell’anno domini 1984, quando avevo già compiuto 18
anni da qualche mese: appena varcata la soglia di casa, puntuale per la cena,
tutto contento, lui senza dire nulla, mi sferrò il ceffone prima ancora che
potessi dirgli “ciao”.
Perché?
Perché suo papà – mio nonno – gli
aveva riferito, accusandolo di non essere stato in grado di “crescere bene” un
figlio, di avermi visto andare a fare la comunione in duomo indossando una
canottiera gialla.
Era tutto vero, canottiera
acquistata nello stesso pomeriggio in cui avevo concluso un mese da operaio in una verniciatura del manzanese – lavoro estivo “in nero” dopo la promozione
scolastica con ottimi voti, utilizzando il guadagno di quell’occupazione che si
svolgeva ben prima della vigenza della normativa sulla sicurezza sul lavoro.
Confesso che la vera vertigine è accorgersi che la propria infanzia e la propria giovinezza, rilette alla luce delle leggi odierne, si sarebbero svolte — in famiglia, al lavoro e nel tempo libero — tra infrazioni assortite del codice penale.
E pure aggravate e continuate.
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