giovedì 13 aprile 2017

IL CAPITANO DELLO SLAVIA

Buongiorno, signor Kliment... da dove cominciamo?

Dal principio, come in tutte le storie! Naturalmente. Mi dica pure dove inizia la sua allora...
 La mia storia incomincia da quando sono venuto al mondo, come per tutti... Sono nato nel quartiere di Malastrana, a Praga il 15 marzo 1939... Mi permetta, mica una data qualsiasi... quel giorno il suo paese venne invaso dalle truppe della Wehrmacht! Dunque la sua prima infanzia si è svolta nel paese durante l’occupazione nazista! 

Le credo sulla parola,  ricordo poco o nulla in merito... quello che so l’ho appreso, come Lei suppongo, dal racconto dei miei genitori e dalla lettura di molti libri.. quindi non credo valga la pena di insistere su questo argomento. Eppoi, invasioni e dominazioni straniere non sono mai state situazioni “straordinarie” nel mio paese, forse l’anomalia sono i periodi di... “autogestione”!

Me l’avevano detto che Lei era un osso duro! Incominciamo allora dalla fine! Se non sbaglio la sua storia ha subito la svolta decisiva a seguito di una delle tante invasioni subite dal suo paese, ovvero quella sovietica dell’agosto 1968..

Come corre Lei! senza conoscere gli antefatti vuole subito passare alla fine? Ma che razza di giornalista è?

Mi arrendo... questa volta il diavolo è molto piu’ brutto di come me l’avevano dipinto! Senta, facciamo come è uso in Italia durante gli esami universitari: mi parli di un argomento a piacere!

Davvero si fa così in Italia? Un bel posto dove dare esami dev’essere... comunque lo stesso metodo lo usavo anch’io nei pochi anni che in cui ho praticato l’insegnamento, una volta terminati gli studi universitari; prima volevo conoscere quello che sapevano i miei studenti, in seguito con le mie domande verificavo fino a dove sapevano ed infine andavo alla scoperta di quello che non sapevano...

Lei, il mitico capitano della squadra di calcio dello Slavia Praga, il centravanti Kliment era un insegnante??

Si, di letteratura greca e latina... ma non lo sapeva? Non esistevano calciatori o sportivi professionisti durante il regime comunista.. eravamo tutti dei “dilettanti” con un altro lavoro, o meglio con un vero lavoro. Buffo, non trova? Mentre nell’Occidente i calciatori iniziavano a vivere di solo calcio, noi all’Est, che avevamo inventato il professionismo in questo sport già a partire dalla fine degli anni ’20, eravamo tornati ad essere dei dilettanti..

Mi racconta qualcosa di quel periodo?

Le squadre piu’ seguite nella Cecoslovacchia prima dell’avvento del regime comunista erano lo Sparta e lo Slavia Praga,  clubs divisi da una sana rivalità sportiva che nasceva dalla provenienza dei rispettivi giocatori; mentre lo Sparta era l’espressione dell’alta borghesia della capitale e nella sue fila militavano i suoi ricchi figli, lo Slavia trovava grande seguito nelle classi meno abbienti e che dalla periferia si erano trasferite a Praga. In pratica loro erano i ricchi e noi i poveri... per semplificare le cose. Dalla creazione del campionato professionistico nel 1925 e fino al 1947 però i risultati del campo spesso sovvertirono i valori sociali... lo Slavia fu campione di Cecoslovacchia ben 13 volte su 23 edizioni disputate!!  Lo sport era così diventato un mezzo di riscatto sia economico che sociale.

E dopo cos’è accaduto? Curiosando tra le statistiche ho scoperto che dal 1947 ad oggi lo Slavia ha vinto un solo titolo e per di piu’ nel 1996!

Dopo la fine della guerra e con l’instaurazione del regime comunista la situazione mutò radicalmente. Naturalmente fu vietato il professionismo e qualsiasi pratica sportiva passò sotto la gestione dello Stato e quindi del Partito, come qualsiasi altra attività di interesse collettivo. La “scomparsa” della borghesia cambiò l’essenza dello Sparta, che divenne semplicemente la squadra del Partito, mentre lo Slavia divenne di colpo la squadra di coloro che avversavano il regime, attraendo tra i suoi giocatori diversi intellettuali e dissidenti in genere. Questa tendenza divenne molto forte a partire dalla fine degli anni ’50, proprio quando io feci il mio debutto nel massimo campionato.

E Lei entrò nello Slavia come intellettuale o come dissidente?

Io vi entrai semplicemente perchè mi piacevano la foggia della casacca ed i suoi colori sociali, il bianco ed il rosso! A 10 anni, quando entrai nelle squadre giovanili dello Slavia, ero un gracile monello molto piu’ simile ad uno dei ragazzi della via Pal che ad un filosofo e l’unica dissidenza che praticavo con determinazione era nei confronti dei miei genitori, quando questi insistevano perchè andassi a letto nel pomeriggio.
Quando poi, irrobustito nel fisico dalla pratica sportiva e nella mente dalle letture “proibite” dei classici greci e latini, ho debuttato a 20 anni nel campionato, ho sempre e solo pensato che quello che stavo facendo era il gioco che più mi piaceva al mondo e che non avrei mai cambiato casacca, perchè con quella ero “sportivamente” cresciuto; una specie di seconda pelle, insomma... Nulla a che vedere nè con la politica, nè con l’economia, nè a ben vedere con il calcio di oggi.

I risultati della squadra furono però molto deludenti, retrocedeste addirittura in seconda divisione!

Come cercavo di spiegarLe, lo sport in quegli anni era un monopolio del Partito, che se ne serviva molto in campo internazionale per aumentare il prestigio del regime e dunque non erano tollerate “voci” alternative. Se lo Sparta era la squadra del Partito e l’esercito aveva pure fondato un suo club, il Dukla Praga, erano queste due che dovevano primeggiare e godere in Patria del seguito della maggioranza degli appassionati. Per un regime che era in grado di condizionare le semplici azioni e le più normali abitudini della vita quotidiana di milioni di individui, crede che fosse difficile dare qualche indicazione a qualche arbitro? O decidere la sorte di qualche giocatore troppo bravo in qualche squadra scomoda? E’ davvero così stupefacente?

No, non lo è... ha ragione, del resto oggi anche in Italia, nonostante il professionismo e l’apparente economia di mercato nel sistema dello sport, negli ultimi 14 campionati, 6 volte ha vinto la Juventus e 6 volte il Milan... Ritornando alla sua vicenda, nel 1966 però riusciste a ritornare nel massimo campionato...

Si, il regime si era dimenticato di noi, ormai pensava di averci messo fuori gioco ed in piu’ iniziavano anche all’interno del partito a farsi sentire, seppur timidamente, le voci che chiedevano un cambiamento, una maggiore apertura della società... i tempi erano ormai maturi per l’avvento di Dubček e per l’inizio della famosa “primavera”...

Già… la famosa primavera. Cosa ricorda, come sportivo, di quel periodo?

Dopo anni di immobilismo, improvvisamente, come un fuoco che divampa dopo aver covato sotto la cenere da tempo, tutta la società e quindi anche il mondo sportivo, furono percorsi da una grande euforia. In generale, ci si illudeva che quella serie di cambiamenti e di aperture, in principio introdotti timidamente e poi via via in un crescendo che lasciava stupefatti, potesse non aver fine e condurre il paese a riacquisire la propria sovranità. Come sportivi s’incominciava persino a considerare le nostre attività non solo in funzione delle maggiori possibilità che queste ci davano di viaggiare al di fuori del blocco sovietico, e quindi magari di chiedere asilo politico.

Possiamo definire quindi la “primavera” come una perestrojka ante litteram e Dubček un antenato di Gorbaciov?

La storia non si ripete mai allo stesso modo, così come tutti gli uomini sono nella stessa misura uguali ma diversi; quello che mi sento di dire a proposito di quello che Lei mi chi chiede è che sia perestrojka che “primavera” avevano lo stesso peccato originale: erano riforme decise e coordinate dall’alto, anche se la “primavera” ebbe un riscontro molto più intenso e partecipato nella società cecoslovacca dell’epoca, rispetto a quello della perestrojka, che lasciò praticamente indifferenti i popoli delle varie repubbliche dell’URSS, mentre mise in moto le varie “rivoluzioni” nei paesi satelliti sino a portare alla fine del blocco, con la caduta del muro di Berlino del novembre 1989.
Quanto al confronto che Lei fa tra Gorbaciov e Dubček, mi limito ad osservare che Gorbaciov era nella posizione di  potersi permettere di fare il Dubček, ma non certo viceversa.

Crede che ora sia il momento giusto per giungere alla fine della sua vicenda?

Si, il momento è giunto, se non altro perché il tempo che ho deciso di riservarle sta per scadere. Orbene, con l’arrivo della “primavera” lo Slavia era ritornato a gareggiare ai livelli che una volta gli erano abituali, conquistando il diritto a partecipare anche alle competizioni internazionali per la stagione 1968/1969 ed io mi ero fatto persino coinvolgere nel clima di libertà ed in qualità di esperto letterario avevo iniziato a collaborare con una delle numerose riviste a sfondo politico che allora nascevano come funghi, dopo il ritiro della censura nell’aprile del 1968. Per me era una sorta di rinascita, una perfetta simbiosi tra le aspettative dello sportivo e le aspirazioni dell’Uomo libero…

Poi, il 20 agosto 1968 i Russi troncarono quella specie di “rinascimento socialista”, sia per Lei che per il suo popolo. Giusto?

Più o meno. Ci sentimmo violentati e sbattuti di nuovo all’indietro… in pieno medio-evo. Molti erano assolutamente increduli, incapaci di accettare che i “compagni” avessero potuto farlo; in realtà altro non poteva essere che la logica e naturale conclusione, dati i tempi. Per quanto mi riguarda, non dovetti aspettare molto per capire cosa sarebbe accaduto in concreto alle nostre vite. Nel mese di novembre del 1968 fui prelevato al campo di allenamento da due uomini della polizia segreta e condotto alla centrale, dove venni trattenuto una settimana, prima che un funzionario mi chiedesse di firmare dei documenti, nei quali ritrattavo tutti i miei articoli scritti durante i mesi precedenti e di sottoscrivere una dichiarazione di lealtà allo Stato socialista.

Insomma le si chiedeva di mettere nero su bianco che si era accorto di essere stato un’idiota?

Piu’ o meno. Gli chiesi se avevo del tempo per pensarci; mi disse che se entro due settimane non firmavo quella “dichiarazione spontanea” potevo scordarmi di giocare al calcio e naturalmente di continuare ad insegnare nelle scuole: certo non era tollerabile che un nemico del popolo potesse continuare a svolgere delle mansioni così popolari e delicate, con l’aggravante che io ero anche da alcuni anni il capitano dello Slavia e che avevo dato un pessimo esempio durante i mesi precedenti. Mi invitò infine e non pensarci su molto, quelle dichiarazioni non sarebbero state pubblicate, ma solo tenute a disposizione nei loro archivi, che in fin dei conti era solo una questione burocratica e che dichiarazioni analoghe le stavano già firmando a centinaia in tutto il paese.

E Lei cosa fece?

Feci trascorrere invano quei quindici giorni e quando puntuali si presentarono al campo di allenamento, dissi loro che non avrei firmato. Dopo due settimane fui allontanato dalla squadra per scarso rendimento e persi il posto di lavoro di insegnante. Pensi che, siccome in Cecoslovacchia non era legalmente ammesso il licenziamento, mi sottoposero ad una visita medica di controllo, dove mi furono diagnosticate affezioni causate da turbe psichiche non compatibili con il lavoro che svolgevo. Pertanto anche il mio allontanamento dalla professione fu eseguito a “regola d’arte”, senza nessuna violazione di legge.
Dopo 2 mesi riuscì a trovare lavoro come imbianchino in una cooperativa e lì vi rimasi fino al 1990, quando dopo la definitiva caduta del regime fui assunto quale cronista sportivo da uno dei primi nuovi giornali.  Ironia della sorte, sono andato in pensione nel 1995, un anno prima che lo Slavia tornasse a vincere il suo primo campionato dopo il 1947!  Lei non può avere neanche l’idea di quale gioia avrei provato nel scriverne il commento!!

Ma perché non decise di abbandonare la Cecoslovacchia, come fece quasi tutta la sua squadra in quel periodo, che non rientrò da una trasferta di coppa giocata in Francia? Magari lì avrebbe potuto continuare ad insegnare o anche solo giocare ancora a calcio per qualche anno come professionista!

Perché io lo amavo e lo amo ancora il mio paese e non lo avrei cambiato con nessun altro posto al mondo, anche così imprigionato come lo fu dall’agosto 1968… Perché sarei dovuto andarmene? Lei crede che Loro siano stati in grado di rubarmi anche i colori del tramonto quando illuminano fiammeggianti le cupole dei palazzi della città d’oro? O pensa che abbiano potuto mettere sotto vuoto gli odori di Malastrana dopo una nevicata? E’ qui che ho voluto vivere ed è qui che  morirò! Così come non avrei mai indossato mai la maglia dello Sparta o del Dukla, io che ero il capitano dello Slavia. Io non ho voluto fuggire.. né dal mio paese né da me stesso; Mi hanno tolto il mio lavoro, i miei amici, il mio sport… ma non sono mai riusciti a togliermi il mio paese ed il mio diritto di dire no… ogni volta che ho voluto dire no. Lei penserà che sono stato un pazzo a rischiare la vita. Io Le dico che di una vita in maschera o peggio, di muta rassegnazione, non avrei saputo che farmene: meglio “essere” un insegnante che per vivere in pace con la sua anima ha deciso di “fare” l’imbianchino, che perdere la stima di se stessi per “fare” il professore ed il calciatore ed evitare di “fare” l’imbianchino! Ed ora mi vorrà scusare se, come avete inventato voi italiani nello sport, mi chiudo in silenzio stampa. Sono andato ben oltre il tempo che avevo deciso di riservarLe. Arrivederci e.. ora e sempre Forza Slavia!! Da noi è ancora solo uno slogan da urlare allo stadio… da voi non lo so!


Arrivederci. Mi inchino al coraggio e ai ricordi del capitano della Slavia… non posso non fare il confronto con il capitano della Roma e sussurarLe nell’orecchio quello che ho pensato!

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