Buongiorno, signor Kliment... da dove cominciamo?
Dal principio, come in tutte le storie! Naturalmente. Mi dica pure dove inizia la sua allora...
La mia storia incomincia da quando sono venuto al mondo, come per tutti... Sono nato nel quartiere di Malastrana, a Praga il 15 marzo 1939... Mi permetta, mica una data qualsiasi... quel giorno il suo paese venne invaso dalle truppe della Wehrmacht! Dunque la sua prima infanzia si è svolta nel paese durante l’occupazione nazista!
Le credo sulla parola,
ricordo poco o nulla in merito... quello che so l’ho appreso, come Lei
suppongo, dal racconto dei miei genitori e dalla lettura di molti libri..
quindi non credo valga la pena di insistere su questo argomento. Eppoi,
invasioni e dominazioni straniere non sono mai state situazioni “straordinarie”
nel mio paese, forse l’anomalia sono i periodi di... “autogestione”!
Me l’avevano detto che Lei era un osso duro!
Incominciamo allora dalla fine! Se non sbaglio la sua storia ha subito la
svolta decisiva a seguito di una delle tante invasioni subite dal suo paese,
ovvero quella sovietica dell’agosto 1968..
Come corre Lei! senza conoscere gli antefatti vuole subito
passare alla fine? Ma che razza di giornalista è?
Mi arrendo... questa volta il diavolo è molto piu’
brutto di come me l’avevano dipinto! Senta, facciamo come è uso in Italia
durante gli esami universitari: mi parli di un argomento a piacere!
Davvero si fa così in Italia? Un bel posto dove dare esami
dev’essere... comunque lo stesso metodo lo usavo anch’io nei pochi anni che in
cui ho praticato l’insegnamento, una volta terminati gli studi universitari;
prima volevo conoscere quello che sapevano i miei studenti, in seguito con le
mie domande verificavo fino a dove sapevano ed infine andavo alla scoperta di
quello che non sapevano...
Lei, il mitico capitano della squadra di calcio dello
Slavia Praga, il centravanti Kliment era un insegnante??
Si, di letteratura greca e latina... ma non lo sapeva? Non
esistevano calciatori o sportivi professionisti durante il regime comunista..
eravamo tutti dei “dilettanti” con un altro lavoro, o meglio con un vero
lavoro. Buffo, non trova? Mentre nell’Occidente i calciatori iniziavano a
vivere di solo calcio, noi all’Est, che avevamo inventato il professionismo in
questo sport già a partire dalla fine degli anni ’20, eravamo tornati ad essere
dei dilettanti..
Mi racconta qualcosa di quel periodo?
Le squadre piu’ seguite nella Cecoslovacchia prima
dell’avvento del regime comunista erano lo Sparta e lo Slavia Praga, clubs divisi da una sana rivalità sportiva
che nasceva dalla provenienza dei rispettivi giocatori; mentre lo Sparta era
l’espressione dell’alta borghesia della capitale e nella sue fila militavano i
suoi ricchi figli, lo Slavia trovava grande seguito nelle classi meno abbienti
e che dalla periferia si erano trasferite a Praga. In pratica loro erano i
ricchi e noi i poveri... per semplificare le cose. Dalla creazione del
campionato professionistico nel 1925 e fino al 1947 però i risultati del campo
spesso sovvertirono i valori sociali... lo Slavia fu campione di Cecoslovacchia
ben 13 volte su 23 edizioni disputate!!
Lo sport era così diventato un mezzo di riscatto sia economico che
sociale.
E dopo cos’è accaduto? Curiosando tra le statistiche ho
scoperto che dal 1947 ad oggi lo Slavia ha vinto un solo titolo e per di piu’
nel 1996!
Dopo la fine della guerra e con l’instaurazione del regime
comunista la situazione mutò radicalmente. Naturalmente fu vietato il
professionismo e qualsiasi pratica sportiva passò sotto la gestione dello Stato
e quindi del Partito, come qualsiasi altra attività di interesse collettivo. La
“scomparsa” della borghesia cambiò l’essenza dello Sparta, che divenne
semplicemente la squadra del Partito, mentre lo Slavia divenne di colpo la
squadra di coloro che avversavano il regime, attraendo tra i suoi giocatori
diversi intellettuali e dissidenti in genere. Questa tendenza divenne molto
forte a partire dalla fine degli anni ’50, proprio quando io feci il mio debutto
nel massimo campionato.
E Lei entrò nello Slavia come intellettuale o come
dissidente?
Io vi entrai semplicemente perchè mi piacevano la foggia
della casacca ed i suoi colori sociali, il bianco ed il rosso! A 10 anni,
quando entrai nelle squadre giovanili dello Slavia, ero un gracile monello
molto piu’ simile ad uno dei ragazzi della via Pal che ad un filosofo e l’unica
dissidenza che praticavo con determinazione era nei confronti dei miei
genitori, quando questi insistevano perchè andassi a letto nel pomeriggio.
Quando poi, irrobustito nel fisico dalla pratica sportiva
e nella mente dalle letture “proibite” dei classici greci e latini, ho
debuttato a 20 anni nel campionato, ho sempre e solo pensato che quello che
stavo facendo era il gioco che più mi piaceva al mondo e che non avrei mai
cambiato casacca, perchè con quella ero “sportivamente” cresciuto; una specie
di seconda pelle, insomma... Nulla a che vedere nè con la politica, nè con
l’economia, nè a ben vedere con il calcio di oggi.
I risultati della squadra furono però molto deludenti,
retrocedeste addirittura in seconda divisione!
Come cercavo di spiegarLe, lo sport in quegli anni era un
monopolio del Partito, che se ne serviva molto in campo internazionale per
aumentare il prestigio del regime e dunque non erano tollerate “voci”
alternative. Se lo Sparta era la squadra del Partito e l’esercito aveva pure
fondato un suo club, il Dukla Praga, erano queste due che dovevano primeggiare
e godere in Patria del seguito della maggioranza degli appassionati. Per un
regime che era in grado di condizionare le semplici azioni e le più normali
abitudini della vita quotidiana di milioni di individui, crede che fosse
difficile dare qualche indicazione a qualche arbitro? O decidere la sorte di
qualche giocatore troppo bravo in qualche squadra scomoda? E’ davvero così
stupefacente?
No, non lo è... ha ragione, del resto oggi anche in
Italia, nonostante il professionismo e l’apparente economia di mercato nel
sistema dello sport, negli ultimi 14 campionati, 6 volte ha vinto la Juventus e
6 volte il Milan... Ritornando alla sua vicenda, nel 1966 però riusciste a
ritornare nel massimo campionato...
Si, il regime si era dimenticato di noi, ormai pensava di
averci messo fuori gioco ed in piu’ iniziavano anche all’interno del partito a
farsi sentire, seppur timidamente, le voci che chiedevano un cambiamento, una
maggiore apertura della società... i tempi erano ormai maturi per l’avvento di
Dubček e per l’inizio della famosa “primavera”...
Già… la famosa primavera. Cosa ricorda, come sportivo,
di quel periodo?
Dopo anni di immobilismo, improvvisamente, come un fuoco
che divampa dopo aver covato sotto la cenere da tempo, tutta la società e quindi
anche il mondo sportivo, furono percorsi da una grande euforia. In generale, ci
si illudeva che quella serie di cambiamenti e di aperture, in principio
introdotti timidamente e poi via via in un crescendo che lasciava stupefatti,
potesse non aver fine e condurre il paese a riacquisire la propria sovranità.
Come sportivi s’incominciava persino a considerare le nostre attività non solo
in funzione delle maggiori possibilità che queste ci davano di viaggiare al di
fuori del blocco sovietico, e quindi magari di chiedere asilo politico.
Possiamo definire quindi la “primavera” come una
perestrojka ante litteram e Dubček un antenato di Gorbaciov?
La storia non si ripete mai allo stesso modo, così come
tutti gli uomini sono nella stessa misura uguali ma diversi; quello che mi
sento di dire a proposito di quello che Lei mi chi chiede è che sia perestrojka
che “primavera” avevano lo stesso peccato originale: erano riforme decise e
coordinate dall’alto, anche se la “primavera” ebbe un riscontro molto più
intenso e partecipato nella società cecoslovacca dell’epoca, rispetto a quello
della perestrojka, che lasciò praticamente indifferenti i popoli delle varie
repubbliche dell’URSS, mentre mise in moto le varie “rivoluzioni” nei paesi
satelliti sino a portare alla fine del blocco, con la caduta del muro di
Berlino del novembre 1989.
Quanto al confronto che Lei fa tra Gorbaciov e Dubček, mi
limito ad osservare che Gorbaciov era nella posizione di potersi permettere di fare il Dubček, ma non
certo viceversa.
Crede che ora sia il momento giusto per giungere alla
fine della sua vicenda?
Si, il momento è giunto, se non altro perché il tempo che
ho deciso di riservarle sta per scadere. Orbene, con l’arrivo della “primavera”
lo Slavia era ritornato a gareggiare ai livelli che una volta gli erano
abituali, conquistando il diritto a partecipare anche alle competizioni
internazionali per la stagione 1968/1969 ed io mi ero fatto persino coinvolgere
nel clima di libertà ed in qualità di esperto letterario avevo iniziato a
collaborare con una delle numerose riviste a sfondo politico che allora
nascevano come funghi, dopo il ritiro della censura nell’aprile del 1968. Per
me era una sorta di rinascita, una perfetta simbiosi tra le aspettative dello
sportivo e le aspirazioni dell’Uomo libero…
Poi, il 20 agosto 1968 i Russi troncarono quella specie
di “rinascimento socialista”, sia per Lei che per il suo popolo. Giusto?
Più o meno. Ci sentimmo violentati e sbattuti di nuovo
all’indietro… in pieno medio-evo. Molti erano assolutamente increduli, incapaci
di accettare che i “compagni” avessero potuto farlo; in realtà altro non poteva
essere che la logica e naturale conclusione, dati i tempi. Per quanto mi
riguarda, non dovetti aspettare molto per capire cosa sarebbe accaduto in
concreto alle nostre vite. Nel mese di novembre del 1968 fui prelevato al campo
di allenamento da due uomini della polizia segreta e condotto alla centrale,
dove venni trattenuto una settimana, prima che un funzionario mi chiedesse di
firmare dei documenti, nei quali ritrattavo tutti i miei articoli scritti
durante i mesi precedenti e di sottoscrivere una dichiarazione di lealtà allo
Stato socialista.
Insomma le si chiedeva di mettere nero su bianco che si
era accorto di essere stato un’idiota?
Piu’ o meno. Gli chiesi se avevo del tempo per pensarci;
mi disse che se entro due settimane non firmavo quella “dichiarazione
spontanea” potevo scordarmi di giocare al calcio e naturalmente di continuare
ad insegnare nelle scuole: certo non era tollerabile che un nemico del popolo
potesse continuare a svolgere delle mansioni così popolari e delicate, con
l’aggravante che io ero anche da alcuni anni il capitano dello Slavia e che
avevo dato un pessimo esempio durante i mesi precedenti. Mi invitò infine e non
pensarci su molto, quelle dichiarazioni non sarebbero state pubblicate, ma solo
tenute a disposizione nei loro archivi, che in fin dei conti era solo una
questione burocratica e che dichiarazioni analoghe le stavano già firmando a
centinaia in tutto il paese.
E Lei cosa fece?
Feci trascorrere invano quei quindici giorni e quando
puntuali si presentarono al campo di allenamento, dissi loro che non avrei
firmato. Dopo due settimane fui allontanato dalla squadra per scarso rendimento
e persi il posto di lavoro di insegnante. Pensi che, siccome in Cecoslovacchia
non era legalmente ammesso il licenziamento, mi sottoposero ad una visita
medica di controllo, dove mi furono diagnosticate affezioni causate da turbe
psichiche non compatibili con il lavoro che svolgevo. Pertanto anche il mio
allontanamento dalla professione fu eseguito a “regola d’arte”, senza nessuna
violazione di legge.
Dopo 2 mesi riuscì a trovare lavoro come imbianchino in
una cooperativa e lì vi rimasi fino al 1990, quando dopo la definitiva caduta
del regime fui assunto quale cronista sportivo da uno dei primi nuovi
giornali. Ironia della sorte, sono
andato in pensione nel 1995, un anno prima che lo Slavia tornasse a vincere il
suo primo campionato dopo il 1947! Lei
non può avere neanche l’idea di quale gioia avrei provato nel scriverne il
commento!!
Ma perché non decise di abbandonare la Cecoslovacchia,
come fece quasi tutta la sua squadra in quel periodo, che non rientrò da una
trasferta di coppa giocata in Francia? Magari lì avrebbe potuto continuare ad
insegnare o anche solo giocare ancora a calcio per qualche anno come
professionista!
Perché io lo amavo e lo amo ancora il mio paese e non lo
avrei cambiato con nessun altro posto al mondo, anche così imprigionato come lo
fu dall’agosto 1968… Perché sarei dovuto andarmene? Lei crede che Loro siano
stati in grado di rubarmi anche i colori del tramonto quando illuminano
fiammeggianti le cupole dei palazzi della città d’oro? O pensa che abbiano
potuto mettere sotto vuoto gli odori di Malastrana dopo una nevicata? E’ qui
che ho voluto vivere ed è qui che
morirò! Così come non avrei mai indossato mai la maglia dello Sparta o
del Dukla, io che ero il capitano dello Slavia. Io non ho voluto fuggire.. né
dal mio paese né da me stesso; Mi hanno tolto il mio lavoro, i miei amici, il
mio sport… ma non sono mai riusciti a togliermi il mio paese ed il mio diritto
di dire no… ogni volta che ho voluto dire no. Lei penserà che sono stato un
pazzo a rischiare la vita. Io Le dico che di una vita in maschera o peggio, di
muta rassegnazione, non avrei saputo che farmene: meglio “essere” un insegnante
che per vivere in pace con la sua anima ha deciso di “fare” l’imbianchino, che
perdere la stima di se stessi per “fare” il professore ed il calciatore ed
evitare di “fare” l’imbianchino! Ed ora mi vorrà scusare se, come avete
inventato voi italiani nello sport, mi chiudo in silenzio stampa. Sono andato
ben oltre il tempo che avevo deciso di riservarLe. Arrivederci e.. ora e sempre
Forza Slavia!! Da noi è ancora solo uno slogan da urlare allo stadio… da voi
non lo so!
Arrivederci. Mi inchino al coraggio e ai ricordi del
capitano della Slavia… non posso non fare il confronto con il capitano della
Roma e sussurarLe nell’orecchio quello che ho pensato!
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