Marrakech, Marocco
Tetto di una riad nella medina – fine pomeriggio
Il muezzin aveva appena finito di chiamare alla preghiera. Le ultime note sembravano svanire tra i vapori della città come incenso nel vento. Ruben se ne stava seduto sul tetto della piccola riad in cui alloggiava da una settimana, con le gambe incrociate e un bicchiere di tè alla menta tra le mani.
Il sole, ormai basso, incendiava i muri color terracotta. Marrakech lo accoglieva con la sua danza continua di contrasti: sacro e profano, caos e silenzio, vita e ritiro. Per un pittore, era un incubo e una salvezza: la luce cambiava ogni cinque minuti, e ogni dettaglio sembrava chiedere di essere ritratto. Ma Ruben non aveva toccato un pennello da settimane.
«Non ti stanchi mai di guardare la città dall’alto?»
La voce era femminile, calma. Proveniva dalla scala dietro di lui.
Era Laila, la padrona della riad. Indossava un caftano color ocra e portava con sé un piatto di mandorle e fichi secchi.
«Mi dà l’illusione che le cose abbiano un ordine» rispose Ruben, senza voltarsi subito. Poi aggiunse, quasi tra sé: «Da quaggiù sembrano tutte piccole. Le voci, i giudizi, le umiliazioni… anche le ambizioni degli altri».
Laila si sedette accanto a lui, poggiando il piatto sul tappeto. «Tu non sei in vacanza» disse dopo un attimo. «Hai l’aria di chi è in esilio. Volontario, forse. Ma pur sempre esilio.»
Ruben sorrise amaramente. «Sono qui perché in Spagna non volevo più indossare maschere. Né nei salotti della critica, né nei circoli d’arte, né nelle accademie. E non volevo più inchinarmi a chi scambia la manipolazione per autorevolezza. Ma adesso mi chiedo: è stato coraggio o rigidità? Ho rinunciato a tutto pur di non piegarmi… E se fosse solo orgoglio?»
Laila lo guardò con uno sguardo assorto, poi versò altro tè. «Il potere non cambia le persone» disse, «le denuda. Fa emergere ciò che c’è già. Chi ha paura diventa feroce, chi è vuoto diventa crudele. Chi ha anima, protegge. Tu ti sei sottratto a un gioco sporco. Questo non è orgoglio. È igiene.»
Ruben alzò lo sguardo, sorpreso dalla limpidezza delle sue parole. «Eppure ho perso molto.»
«Hai perso solo ciò che ti chiedeva di tradirti. La carriera? Gli applausi? Il consenso? Non valgono la pace che hai adesso negli occhi.»
Un silenzio profondo li avvolse, mentre sotto di loro il suq ricominciava a respirare, tra i profumi delle spezie e il vociare dei venditori. Marrakech gli appariva come uno specchio deformante: amplificava le sue domande ma, a volte, gli restituiva solo brandelli di risposta.
Laila si alzò, lasciandogli il piatto di frutta secca. «La sera qui è fatta per chi ha bisogno di silenzio» disse. Poi sparì giù per le scale, lasciandolo con le sue domande e le luci morbide del tramonto.
Il tetto – poco dopo il tramonto
Ruben era rimasto solo, ancora seduto, il bicchiere ormai vuoto tra le mani. La città sotto di lui era cambiata. I colori si erano attenuati in un blu profondo, le voci si erano fatte più rarefatte, e le prime stelle avevano iniziato a spuntare sopra i minareti.
Nel silenzio, i pensieri tornarono a premere. Quelli veri, quelli che in Spagna aveva imparato a ricacciare dentro con eleganza: nei vernissage, nei pranzi con i galleristi, nei workshop in cui tutti fingevano di credere nella libertà, mentre si inchinavano ai giochi di potere.
La verità – e se la ripeteva qui, con brutalità – era che non aveva mai imparato davvero a difendersi. Non perché fosse ingenuo. Ma perché non sapeva smettere di sentirsi responsabile. Sempre. Anche di ciò che non poteva cambiare. Anche degli errori altrui, anche dei silenzi degli altri.
Tutti gli dicevano che aveva "principi forti", ma spesso sembrava più una maledizione che una virtù. Quando gli altri si svendevano, lui si chiedeva se non fosse colpa sua per non essere stato d'esempio. Quando vedeva i mediocri premiati, gli veniva da pensare che forse non aveva parlato abbastanza, o troppo. Era un artista, sì, ma portava dentro un senso di dovere che lo divorava: voleva che il mondo fosse più giusto. Come se spettasse a lui aggiustarlo.
E poi c'era il potere.
Un tempo lo aveva idealizzato. Pensava che fosse uno strumento, neutro, come un pennello: dipingi un capolavoro o un falso, dipende dalla mano. Ma ora… ora sapeva che il potere non è mai neutro. È un rivelatore. Come il fuoco sull’oro.
Chi era giusto, col potere proteggeva. Chi era ambizioso, col potere opprimeva. Chi era fragile, lo usava come corazza e diventava tiranno. Il potere non corrompe: semplicemente toglie la paura delle conseguenze. E allora emerge il vero volto.
Lui non aveva mai avuto vero potere. Ma lo aveva visto da vicino. E ogni volta aveva detto “no” quando sarebbe bastato un “sì” per guadagnarsi un invito, una mostra, una recensione benevola. Era questo il dubbio che lo torturava: e se sotto la sua coerenza ci fosse solo incapacità di adattamento?
O forse no. Forse era semplicemente uno che non sapeva fingere. Uno che aveva scelto, ogni volta, di restare fedele a qualcosa che oggi nessuno considera più importante: l’onestà con se stessi. Anche se quella scelta significava rimanere soli.
La voce di Laila gli tornò alla mente: “Hai perso solo ciò che ti chiedeva di tradirti.”
Si sporse in avanti, guardando le lanterne accendersi nella medina. Ogni luce, ogni ombra, era un frammento di qualcosa che voleva dipingere, ma non ancora. Prima doveva capire se aveva fatto bene. Se era ancora intero.
Era venuto a Marrakesh per smettere di parlare, ma anche per imparare ad ascoltarsi. E forse, in quel preciso momento, capì che non era una fuga. Era un ritorno. Forse l’unico errore sarebbe stato arrendersi a ciò che gli chiedeva di essere altro da sé.
E mentre una brezza leggera gli accarezzava il volto, per la prima volta dopo molto tempo, non si sentì colpevole di nulla.
Notte sul tetto della riad
La notte era scesa del tutto. Ruben non si era mosso. Marrakech, con i suoi richiami e le sue luci tremolanti, sembrava essersi ritirata in una quiete rispettosa. Dal tetto vedeva le terrazze spente, le finestre socchiuse, la città respirare nel suo ritmo antico.
Poi, senza volerlo, arrivò il ricordo. Come un taglio nella tela.
Madrid, due anni prima. Una galleria indipendente, un progetto collettivo. Ruben aveva lavorato per mesi a una serie di quadri dedicati alla memoria, usando materiali organici: cenere, terra, carta bruciata. Aveva osato uscire da ogni schema — troppo, forse.
Aveva portato tutto in una grande tela centrale, una sorta di paesaggio mentale in rovina. Il giorno dell’inaugurazione, era fiero e inquieto come sempre, ma convinto di ciò che aveva creato.
Poi era arrivato Antoine, il nuovo curatore venuto da Parigi. Uno di quelli che si muovono tra arte e potere con la scioltezza di chi ha capito presto che la verità si piega, e si vende. Lo aveva preso da parte, con un mezzo sorriso, una mano sulla spalla.
«Hai talento, Ruben. Ma così ti bruci da solo. Nessuno vuole sentirsi in colpa guardando un quadro. Soprattutto chi paga.»
Parole che suonavano gentili, ma erano un verdetto.
Qualche giorno dopo, l’opera era stata spostata in una sala secondaria. Niente luci dirette. Nessuna menzione nel catalogo. Un altro artista — uno più “funzionale” — aveva preso il suo posto nel centro espositivo. Nessuno lo aveva difeso. Alcuni avevano abbassato lo sguardo. Altri gli avevano consigliato, sottovoce, di “essere più furbo”.
Ruben, invece, non aveva detto nulla. Aveva ritirato le sue tele in silenzio, sotto la pioggia, caricandole da solo su un vecchio furgone. Non per orgoglio. Perché non voleva dover ringraziare chi aveva appena svuotato il suo lavoro di senso.
Quella sera aveva capito una cosa semplice e lacerante: nel mondo che frequentava, il talento serviva. Ma solo se sapevi piegarlo. Solo se accettavi di modellarlo intorno al potere altrui.
Il nodo alla gola gli era rimasto per giorni. Non per l’umiliazione. Ma per il pensiero che forse avrebbero avuto ragione. Che l’integrità non bastava.
Ruben si passò una mano sul volto. Quel ricordo bruciava meno, ma lasciava una traccia, come polvere fine negli occhi.
E poi, la domanda che lo colpì con forza:
E se non fosse stata integrità?
Se il suo rifiuto dei compromessi non fosse nobile, ma solo orgoglio?
E se sfidare il potere non fosse giustizia, ma una forma sottile e disfunzionale di sentirsi superiore?
Era sempre stato così: incapace di compiacere, di tacere, di adattarsi. Ma non per ingenuità. Forse per vanità? Per la pretesa di non dover mai abbassare lo sguardo? Forse aveva solo confuso la coerenza con il rifiuto di mostrarsi vulnerabile. Aveva scelto l’isolamento perché non sopportava il disprezzo degli altri, ma ancor più perché temeva quello verso sé stesso.
Forse la sua coerenza era solo un modo elegante per dominare la scena con il rifiuto. Forse non voleva essere accettato: voleva essere temuto. Ammirato. Incompreso.
Il pensiero lo svuotò. Eppure, nell’ammetterlo, sentì qualcosa aprirsi. Una crepa. Una possibilità.
Forse la vera integrità non era dire sempre “no”. Ma avere il coraggio di guardarsi in faccia anche quando il proprio “no” somiglia a una sentenza, e non a una scelta.
Ritorno al presente
La voce di Laila tornò ancora una volta alla mente, questa volta come una carezza:
“Hai perso solo ciò che ti chiedeva di tradirti.”
E per la prima volta, Ruben si domandò se tradire e superare non fossero, in certi casi, due verbi fratelli.
Forse non era una fuga, questa. Forse era l’inizio di un ritorno. Non alla carriera. Ma a sé stesso. A ciò che resta, quando il volto che porti in pubblico si sgretola e sotto non c'è una posa — ma ancora, ostinata, una voce.
La sua.
Quella di un uomo che dipinge, anche se nessuno guarda. Un uomo che sceglie il silenzio, solo quando parlare significa mentire.
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